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La trasparenza è contagiosa

Sono tornato in Basilicata – dopo quasi un anno – per essere presente a una tappa importante di Visioni Urbane. Il riassunto delle puntate precedenti è questo: la Regione Basilicata aveva programmato 4,3 milioni di euro sulla costruzione di spazi laboratorio per la creatività. Invece di partire dai contenitori, cioè dagli edifici, ha deciso di partire dai contenuti, cioè dalle attività creative che quegli edifici avrebbero ospitato. Questo ha comportato mobilitare una community creativa lucana, lanciare un blog, organizzare seminari (memorabile quello con Bruce Sterling a Matera) ecc. Io ho partecipato al progetto come advisor, in rappresentanza del Ministero dello sviluppo economico.

Visioni Urbane è un progetto che crede nella trasparenza come valore. Ci crede con una convinzione francamente spaventosa per la maggioranza delle amministrazioni italiane, e infatti su alcune scelte (tipo quella di non moderare i commenti del blog, o quella di dire con chiarezza ai creativi “noi possiamo fare proposte, ma a decidere è – giustamente – il presidente”) ci sono state discussioni anche piuttosto accese. La Regione era, legittimamente, intimidita dall’idea di mettere in piazza tutto.

Pare che quelle discussioni siano servite. Un anno e mezzo dopo ritorno a Potenza e trovo che (1)  l’intera community creativa è stata invitata a presenziare alla firma delle convenzioni tra Regione e i vari comuni, e si è presentata in massa: i sindaci sono naturalmente invitati a dire la loro, ma lo devono fare davanti a tutti e non nelle segrete stanze; (2) il testo della convenzione e la lettera con cui il presidente della Regione li ha convocati sono scaricabili dal blog in questo post. Mi hanno scavalcato a sinistra! La lezione che ne traggo è che la trasparenza genera trasparenza; un piccolo cambio di mentalità su un singolo tema può diventare una prassi generalizzata. E’ solo un piccolo segno di cambiamento e di speranza, ma mi fa piacere.

UPD 18/3/2009: E’ online il video dell’incontro:

Spiegarsi la crisi, spiegare la crisi

In un godibilissimo articolo, Enzo Rullani si interroga sulla crisi economica, e si smarca dal dibattito in corso tra neostatalismo e neoliberismo, che secondo lui sono entrambe ricette del secolo scorso. A un certo punto si incontra questo passaggio:

Chi può credere che il terremoto a cui stiamo assistendo sia frutto della sbadataggine di chi ha concesso i mutui subprime a debitori che non li avrebbero restituiti o a furbacchioni che – come tanti altri prima di loro – hanno speculato al rialzo sulla finanza facile, vendendo promesse che non erano in grado di mantenere?

La domanda è retorica, ovvio. Secondo Rullani le vere ragioni della crisi stanno sul piano del modello di sviluppo, non su quello delle tecnicalità finanziarie. Però ha una risposta non retorica, che è “parecchia gente”. Da Wired a Daniel Kaufmann, passando per Lavoce.info, sono molti i commentatori che hanno affrontato il tema senza ricorrere a spiegazioni sistemiche. Tutti questi dicono un po’ la stessa cosa, cioè che i derivati finanziari sui mutui subprime erano rischiosi, ma (a) questo rischio era difficile da percepire senza disporre di nozioni non elementari di teoria della probabilità e (b) banche e intermediari stavano facendo troppi soldi per avere veramente voglia di studiarsi il problema. Come ha scritto Taleb in The Black Swan, gli umani non sono cablati per capire la matematica probabilistica: preferiscono il pensiero magico. Esso, unito agli effetti aspettative – cioè a quei meccanismi che fanno sì che l’economia sia così piena di profezie che si autorealizzano – fa un bel po’ di strada nello spiegare la crisi in atto.

I punti di criticità individuati da Rullani mi sembrano molto sensati…  ma non c’è bisogno di invocarli per spiegare questa crisi. Il rasoio di Occam li taglierebbe via: a parità di fattori, la spiegazione più semplice tende a essere quella esatta. Inoltre, se si vuole capire davvero, il terreno delle tecnicalità va accettato: in altre parole – e come sempre – bisogna studiare per farsi un’idea propria. Per questo guardo con simpatia e gratitudine a chi fa uno sforzo per spiegarsi e per spiegare con chiarezza i meccanismi concreti della crisi, anche se noiosi e difficili. Come in questo video:

Do we really need the subsidiarity principle anymore?

For some time now I have been designing and deploying interfaces between public authorities and citizens (in particular between authorities and creative people/creative firms). The strategy behind them all is very simple: connect people – those who work for public authorities and those who work in the creative industries – in a many-many-interaction environment with very transparent information. Web 2.0 tools and an appropriate value system – that David maintains coincide with hacker ethics – have so far brilliantly solved the filtering problem: civil servants in these networks are not clogged by people asking for favours. On the contrary, they give every sign of enjoying their proximity to citizens and what they do.

These interfaces allow a strong reduction of the distance between administrators and constituencies. The Ministry of economic development is a central authorities, but to the creatives populating Kublai it is just one click away. It is pretty obvious that Kublaians have a much, much closer relationship with it than with their local authorities, closed within their palaces (and almost always locked behind firewalls that inhibit their access to social networks).

I wonder if, in this situation, we should not rethink the subsidiarity principle. As far as I can see it says that public policy should be managed by the most local public authority which has the means to address the problem in discussion: so, in Europe, the European Union deals with global environmental planning, while urban planning in the smalltown of Pisticci is dealt with by the Pisticci municipality. This sounds simple; unfortunately, in a globalized world almost every local problem is inextricably linked to some broader context. Urban planning in metropolitan areas is a perfect example: it does not make sense to plan according to administrative borders if the economy and the society are integrated beyond it. So, it is not always easy to understand in the abstract which authority is closest to any particular problem. In practice, on the other hand, it is very simple: the closest authority is the one the least clicks away, the most accessible, the one with the best interface. For Kublai’s creatives it is a lot easier – not to mention more rewarding ad even fun – to talk to the Ministry of economic development than to their municipal governments, so they will tend to strentghen their ties with the former and ignore the latter. Old style subsidiarity is unsustainable.

It may be worth it to study the British setup (I have done it here). Policy competences are allocated not geographically, but by issues. Funding is centralized, so the central government has a lot of traction: when a strategy is adopted (like the first Blair government’s stance on the creative industries) things happen fast. But strategies are in general implemented locally, by small semipublic organizations who try out solutions competing with one another for funding from Whitehall. The system – at least for policies on creativity – works fairly well. It is no chance that the English – in a 2004 referendum – have decided that they do NOT want democratically elected regional authorities. A certain distance from the problem sometimes guarantees a broader perspective (and local politics can be toxic). All the more so since, with a little effort, central authorities can be just one click away.