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Rewiring the economy to create new commons (long)

CriticalCity‘s victory at TechGarage was simply incredible. For one, it was overwhelming: the Milano-based crew won all three prizes (the first prize; the Wired award; and the users’ award. In fact, several VCs in the room improvised a pool of seed money for funding the startup! This sounds like an urban legend, but it is actually true: read Marco’s report – he was there). On top of that, their project is uncompromisingly not-for-profit (“we can’t and won’t monetize our player’s commitment to improve their cities”, they said), while TechGarage is a sancta sanctorum of for-profit enterprise. Somehow, this coalition of investors and business angels perceived CC as too good an idea not to make it happen.

There is a third reason why this story is incredible. CC does not come out from one of the many startup incubators built by the private sector, like Telecom Italia’s Working Capital. It comes from an environment for designing creative projects launched by the Italian public sector: Kublai, that I have the honour to have designed and to manage on behalf of the Ministry of economic development (presentation in English here). Even Gianluca, Dpixel president and TechGarage patron, got in touch with CC as a member of the Kublai Award jury.

1. Communities, if they are oriented in the right way, can single out the best ideas. Kublai aggregates creative projects, not lolcats videos: they are complex, and their assessment is multifaceted and multidimensional. CriticalCity’s project document is more than 30 pages long with attachments. The Kublaian community’s consensus on CC predicted with great energy and effectiveness what happened at TechGarage and elsewhere.

2. The public sector, traditionally more public goods-oriented than the private, finds itself in a strategic position. Artifacts like Wikipedia, Delicious, Flickr, Twitter have public good nature, i.e. they are resources for everybody to use. Now, public goods are great, but being public means there is no rivalry in their consumption, so they are by definition difficult to monetize. Consequently many great web 2.0 out there have business model problems. This is an opportunity for the public sector, whose very mission is to produce public goods. After the tragedy of the commons started in the 1700s, digital technologies allow today to invert the trend and start creating new commons.

It seems to me that an extraordinary opportunity opens up, such as I did not think I would see in my lifetime. We have democratized creativity, so that thinking up ambitious projects like CriticalCity and trying to make them happen has come to be a course of action available to normal young people like Augusto, Duccio, Chantal and the rest of them; we have web 2.0, a very powerful tool for aggregating ideas and people, and maybe now also for selecting the best among them; we are beginningto have a first generation of people that work on the side of public administrations, and understand the language, and can use the tools.

This first generation has today a new mission: rewire the economy to enable the production of new commons. Wikipedia and the rest may have shaky business models, but their value to the collective well-being and global competitiveness is undisputable. A government worth its salt must enable these things. And it can, because it wields very large resources that are normally used in very low productivity efforts: it has been remarked that all projects showcased at Public Services 2.0 put together had the same budget as a single project of the e-participation European programme. We need rewiring the economy to funnel attention and money towards people like the CriticalCity boys and girls, who dream (realistic) dreams of building resources for everyone to use, that for this very reason are difficult to monetize. It is difficult, but not impossible, and we need to do it. I’m going for it. I hope – and I believe – I will not walk this path alone.

Expo 2015: la città publish-then-filter

A marzo dell’anno scorso l’Expo 2015 è stata assegnata a Milano. Questa potrebbe essere una carta importante per la città – basta guardare come Torino ha sfruttato le Olimpiadi invernali – e anzi alcune persone che stimo molto pensano che sia l’ultima occasione per dare una direzione strategica a una città che da molti anni sembra non ce l’abbia. Purtroppo da allora non sono stati fatti progressi significativi. Molti milanesi si sentono pessimisti sull’esito dell’operazione, e sta raccogliendo consensi la proposta di Vittorio Gregotti di rinunciare all’Expo – o ripensarla in modo radicale – e rimettere le risorse finanziarie in disponibilità per il pacchetto anticrisi.

Insieme ad alcuni amici, tra cui Augusto e Filippo ne abbiamo parlato molto, e crediamo che in realtà molti dei benefici veri dell’Expo si possano mietere quasi senza risorse. Per due motivi.

1. L’Expo porta benefici perché costringe la città a riflettere sul proprio futuro. Ma questa riflessione va fatta comunque, e ormai ci pare che ci sia una massa critica di milanesi intelligenti che ha le capacità e la volontà di farla, Expo o non Expo.

2. Molte delle cose che possono migliorare la qualità della vita dei milanesi si possono fare con soluzioni low cost e low tech, spingendo sul pedale della sperimentazione sociale. Per esempio, per fare una pista ciclabile in corso Buenos Aires forse non ha senso fare cinque anni di braccio di ferro con i commercianti e affidarsi al consiglio comunale: forse si può, un bel giorno (anzi una notte, che si vede meglio), andare lì con qualche proiettore laser da poche centinaia di euro (un po’ come nella foto), programmati con software scaricabile gratuitamente dalla rete, tracciare le righe sull’asfalto, armarsi di videocamera e stare a vedere cosa succede. Se la gente ci si trova bene, poi si passa anche dal consiglio comunale e dal piano traffico, ma lo si fa per ratificare una cosa che già è stata fatta e che già i milanesi usano. E’ un ribaltamento completo dell’urbanistica: la città prima la fai, poi la pianifichi. In questo modo il sistema sceglie e premia le soluzioni vincenti, mentre quelle perdenti vengono provate e scartate a costo bassissimo – e soprattutto, senza lasciare sul territorio cicatrici come strutture inutili e abbandonate. Per il web funziona: publish, then filter. E’ più democratico e molto più efficiente.

Tecnologie semplici e a basso costo possono essere usate per sperimentare davvero tanti modi di usare le città, dai graffiti laser impermanenti sui grattacieli ai drive-in estemporanei (basta un muro di cemento, un parcheggio, un proiettore e un trasmettitore radio a bassa portata per l’audio, che viene trasmesso dalle autoradio delle macchine in sosta). Sarei curioso di provare questa soluzione a Milano. Quanto costerebbe? Un conto a spanne, basato sull’esperienza di Visioni Urbane mi dà un risultato oscillante dai 2 ai 20 milioni di euro a seconda del grado di riutilizzo di strutture esistenti versus interventi strutturali su edifici e spazi (ovviamente questo non comprende roba ad alto costo tipo gli scavi per la metropolitana). Si tratta di una cifra da 10.000 a 1.000 volte inferiore al budget stimato per l’Expo, che è di 20 miliardi.

Immagino un dibattito sulla città con la forma dell’hackup (ne ho parlato qui) : gente che si trova, decide una cosa che potrebbe servire e poi la fa, senza farsi troppe pippe. Se funziona bene, se non funziona nessun dramma, la smonti e passi all’idea successiva. I protagonisti naturali di questo dibattito sono le persone che da anni usano Milano in modo creativo: i ciclisti di Critical Mass, della Ciclofficina e del servizio di pony express “verde” Urban Bike Messengers; i runners che si allenano in parchi e viali; i gruppi di acquisto solidale, praticanti della filiera corta etc.; i gamers urbani di CriticalCity, che giocano a modificare e migliorare la città; la comunità del knitting, che usa i pub e i locali per ritrovarsi a lavorare di maglia e uncinetto; i ballerini di tango di Tango Illegal, che trasformano le piazze notturne in romantici club porteni (e le sottraggono agli spacciatori, altroché ronde); il movimento di M’illumino di meno per il risparmio energetico; gli hackers di Dorkbot Milano, che hanno una bella finestra sulle tecnologie low cost di cui sopra.

Se un dibattito di questo genere dovesse decollare davvero, per come conosco Milano si assisterebbe a un’esplosione di creatività. In pochi anni, e con poche risorse, si potrebbe davvero rivoltare completamente la città. Ne parleremo, credo, all’Expo2015Camp.

Pioggia, pensieri e lavoro manuale a Isola

Domenica pioveva. Quindi era perfetto per passare una giornata all’ARCI Metissage insieme a Costantino e a un gruppo di persone conosciute da poco. Il clima era da club di aeromodellisti anni 70 (io ero un bambino, ma mi ricordo i modellini Airfix, e ho fatto anche in tempo a montarne un po’). Programma vago: “facciamo qualcosa da presentare al salone del mobile”. Però la tecnologia è roba seria: Arduino, cioè un microcontrollore che permette di connettere il mondo fisico (sensori, led, componenti meccaniche) con i computer, e quindi con il web.

Choco si è intestata lo sviluppo del concetto: “qualcosa” è diventato il Pop Culture Meter, cioè una lampada con sei gruppi di LED a intensità variabile. A controllare l’intensità non sono banali potenziometri – e ti pareva – ma la frequenza relativa con cui sei parole chiave compaiono nella timeline pubblica di Twitter in tempo reale. Le parole che abbiamo scelto: internet, god, sex, money, terrorism, crisis, lolcats. A seconda del “mood” dei 12 milioni di utenti di Twitter, quindi, il Pop Culture Meter illumina più o meno i gruppi di LED che corrispondono a queste parole, e fornisce una visualizzazione rozza ma immediata dello stato emotivo dei Twittatori.

Ivan guidava il gruppo degli sviluppatori software, riconoscibili per i MacBook Pro ricoperti di adesivi.  Insieme hanno scritto un’applicazione che legge la timeline di Twitter alla ricerca delle parole chiave, ne conta la frequenza, la normalizza e passa i valori all’Arduino, che poi li smista ai controller dei LED. Massimo, naturalmente, sovrintendeva al gruppo degli hardwaristi, riconoscibili perché usano veri cacciaviti e pinze tagliafili.

Il Pop Culture Meter non è un’innovazione che scuoterà il mondo dalle fondamenta, ma è un concetto divertente ed è stata realizzata. Ha richiesto una domenica pomeriggio, un gruppo NON selezionato (come prova il fatto che hanno invitato me, che non so fare assolutamente niente) e zero soldi o quasi, è fatta con materiali di scarto (a parte i Mac e l’Arduino, ovviamente). E’ una cosa che dà da pensare. Cosa succederebbe alla società dei consumi se tutti si mettessero a fare le loro lampade?

O le loro biciclette? Prima di andare a casa siamo passati alla Ciclofficina di via Castilia. Non c’è dubbio che gli hackers delle bici con i loro attrezzi in comune, i pezzi di ricambio riciclati e le moke giganti per il caffè andrebbero d’accordissimo con gli hackers dell’informatica con i loro MacBook e le ceste piene di componenti. Sono anche vicini di casa. Magari vanno già d’accordissimo.

Penso che il mondo stia cambiando un po’. Non è il web che fa la differenza: è l’attitudine. Devo pensarci bene anche per i creativi di Kublai e i Fiamma Fumana.