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Reinventing music: the state of the art at WOMEX 2011

WOMEX — as in World Music Expo — is the most important European meeting place for world music professionals: part market place, part festival, part conference. Last year it was attended by almost 2.500 delegates and 1.300 companies from 94 countries. I have been attending for years: it has been a valuable tool of the trade for Fiamma Fumana. Each year WOMEX selects the best proposals for showcases and conference talks; the choice is handed over to a juty of seven individuals, nicknamed “the Seven Samurai” in Womexican parlance.

This year I have the honour of riding with the samurai. I have been appointed as one the jurors tasked with planning the conference. I would be really glad to select high quality talks that show delegates where music is going, between mutations in its business models, its ever-evolving digital ecology, its cultural tensions between roots and global modernity; and that inspire their work in the future. I would like to invite anybody who has an experience to show, a contribution to the discussion or just an original point of view to submit their proposal before April 15th: my fellow samurai Jody Gillett (chief editor of Mondomix) and I will invite the author of the best proposals to Copenhagen, come October, for a discussion on the state of the art of music and its business. See here for instructions on how to submit a proposal. Don’t hesitate to contact me if you have any question, and to spread the word to whoever you think might be interested.

Reinventare la musica: punto nave a WOMEX 2011

WOMEX — sta per World Music Expo — è l’appuntamento più importante per i professionisti della world music in Europa: in parte market place, in parte festival, in parte conferenza. L’anno scorso vi hanno partecipato quasi 2.500 persone e 1.300 imprese da 94 paesi di tutto il mondo. Io lo frequento da anni: è stato un prezioso strumento di lavoro per i Fiamma Fumana. Ogni anno WOMEX seleziona le migliori proposte sia musicali (collocate negli showcase) che di riflessione (collocate nella conferenza) dell’anno, e la selezione è affidata a una giuria di sette persone, soprannominate “i sette samurai” nel gergo Womexiano.

Quest’anno ho l’onore di cavalcare tra i samurai. Sono infatti uno dei giurati chiamati ad occuparsi della conferenza. Sarei molto contento di selezionare interventi di qualità che restituiscano a partecipanti una fotografia di dove la musica sta andando, tra mutazioni del modello di business, evoluzione di un’ecologia digitale della musica, e tensione culturale tra radici e modernità globale; e che ispirino il loro lavoro futuro. Vorrei invitare tutti coloro che hanno un’esperienza da portare, un contributo alla discussione o un punto di vista a presentarci una proposta entro il 15 aprile: la mia compagna samurai Jody Gillett (direttrice di Mondomix) e io inviteremo gli autori delle migliori proposte a Copenhagen, a ottobre, per un confronto sullo stato dell’arte della musica e del music business. Le istruzioni per presentare una proposta sono qui. Se avete domande o dubbi, mettetevi pure in contatto con me, e per favore passate parola a chi pensate possa essere interessato.

La maledizione di Schumpeter


Per un certo periodo, negli anni 90, ho fatto il musicista rock professionista. Ho lasciato nel 2000, appena in tempo. Questa figura sta svanendo: chi ha una fan base già consolidata si attrezza per sfruttarla (e man mano si ritira dalle scene per sopraggiunti limiti di età), mentre chi comincia adesso può raggiungere rapidamente e con pochi investimenti un discreto successo su Last.fm o Spotify ma non riesce praticamente mai a costruire un’economia solida. Suoni nel tempo libero, l’abilità è trovare un lavoro che ti consenta di andare in tour. La stessa cosa, mi dicono, sta succedendo ad artisti dediti ad altre forme, come videomakers e cineasti. Un cocktail micidiale di tecnologie di produzione low cost e condivisione in rete ha scongelato enormi riserve di creatività artistica, rendendola, da scarsa che era, abbondante. E mentre lo faceva, ha piantato un paletto nel cuore dell’industria musicale, che si è polverizzata come un vampiro a mezzogiorno (necrologio di Dave Kusek). Un caso da manuale della distruzione creativa profetizzata da Joseph Schumpeter.

Ok, ma tanto “startups are the new rock’n’roll”, no? È lo stesso schema: giovani visionari e ossessionati dalle loro idee, partecipi dello spirito dei tempi, che diventano milionari a 23 anni, e ispirano i loro coetanei a rompere con la grigia routine delle ultime generazioni. E i giovani ci provano: i concorsi per business plans stile Working Capital hanno preso il posto dei concorsi per rock band emergenti (quelli a loro volta si sono trasferiti in televisione, che un modello di business invece ce l’ha eccome).

Però. Nell’ultimo mese ho trovato un post di Laurent Kretz, fondatore di Submate, che descrive in modo piuttosto crudo la vita dell’imprenditore di startup. Non è certo un mondo dorato: comprende vivere di sussidi di disoccupazione (per gli italiani immagino che l’equivalente sia abitare con la mamma), farsi piantare dalla fidanzata stufa di essere trascurata, rinunciare alle vacanze, essere inseguiti dalla banca assetata di vendetta. Ne sanno qualcosa i miei amici di CriticalCity, che stanno vincendo ma hanno pagato un prezzo umano molto alto.

Attenzione: questo non è il ritratto di uno che cerca un investitore. Kretz un investitore ce l’ha, solo che gli dà pochissimo denaro, lo stretto necessario per non fare morire di fame un team di quattro persone che lavorano ottanta ore alla settimana per quattro mesi. E così fa la maggior parte degli investitori early stage: ricordo Joi Ito, un paio d’anni fa, che diceva testualmente “io non investo se non ho una demo funzionante programmata in un weekend lungo da tre persone, e anche così investo al massimo cinquantamila dollari.”

Da allora Ito è andato avanti: la sua ultima esperienza è che un servizio web completamente funzionante richiede tre settimane di lavoro da parte di due persone: un designer e un programmatore che sviluppa il software. Questo perché il codice software è modulare: non si scrive da zero, ma si copiano-e-incollano routines già scritte. Questo processo è stato reso più fluido e scientifico dall’esistenza di tools di “metaprogrammazione”, che assemblano pezzi di codice di provenienze diverse in un programma integrato.

Non ci vuole un genio per capire che il mondo delle startup è entrato in una fase “ehi, tutti possono farlo!”. Siccome c’è un limite alla capacità di assorbimento di nuovi servizi e nuovi contenuti da parte del mercato, anche le capacità di progettazione e sviluppo software potrebbero rapidamente diventare abbondanti. Prima che il mercato del lavoro si adegui, potremmo perfino avere un periodo in cui un ingegnere informatico costa come un chitarrista rock, cioè meno di una baby sitter. È la maledizione di Schumpeter: quando il mercato funziona bene, rende tutto low cost o obsoleto.

Molti economisti interpretano la cauta formulazione di Schumpeter come un processo che produce un bene sul lungo periodo, perché rende accessibili cose utili che prima costavano molto, ma può essere molto destabilizzante nel breve. Secondo me si sbagliano, perché quello di Schumpeter non è un modello di equilibrio: se le velocità di distruzione e creazione non sono sincronizzate il lungo periodo potrebbe anche non arrivare mai. Cosa questo significhi sto cercando di scoprirlo.