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Schumpeter’s curse


In the late 90s I made my living as a rock musician. I stepped down in 2000, just in time. Jobs like my old one are disappearing fast; artists with an existing fan base are getting better at exploiting it cutting out various middlemen, while newcomers can get very popular very fast and with near-zero cash investment on Last.fm or Spotify, but they find it next to impossible to build a solid economy. They make music in their free time, the core skill is landing a day job that will pay the rent and allow you to go on tour. I’m told something similar is going on with videomakers and film directors. A deadly cocktail of low cost producton technology and online sharing has thawed massive reservoirs of creativity, turning it from scarce into plentiful. As it did so, it drove a stake through the heart of the music business, which turned into dust like a vampire at high noon (obituary by Dave Kusek). A texbook case of the creative destruction predicted by Joseph Schumpeter.

Fine, but startups are the new rock’n’roll, right? It’s the same narrative: bright, visionary youngsters, obsessed by their own ideas and in sync with the Zeitgeist, becoming millionaires at 23 and inspiring their generation to break away from the dull existence of their parents. And boy, do the young go for it: business plans contest have replaced rock band contests (the latter have migrated onto TV talent shows, maybe low on cred but endowed with a rock-solid business model).

And yet. Recently I found a post by Laurent Kretz, founder of Submate, that describes in merciless detail the hardships of the typical startup entrepreneur’s life. No dream job: it involves living on welfare, sleeping on friends’ couches, getting the boot from girlfriends tired to beg for attention, “being chased by your banker with a chainsaw”. A story all too familiar to my friends of CriticalCity, who triumphed in the end but paid a high price for it.

Mind you, this is not someone looking for a backer. Kretz does have an investor. A seed investor, that gave Mashape just enough money so that four people won’t starve to death as they put in 80-hours weeks for four months. This seems to be all the rage with early stage investor: I remember Joi Ito two years ago saying he only invests in a company that can bring him a working prototype coded by three people who locked themselves away in some cabin for a weekend, and even then he’ll only invest fifty thousand dollars.

Since then Ito has made progress. his latest experience is that a fully functional web services can be launched in three weeks by exactly two people: one designer, one developer. This is because code is modular: you don’t write it from the ground up, you just copy-paste existing routines. This process has been made more fluid by “metaprogramming” tools that stitch together chunks of code coming from different directions into an integrated program.

It does not take a genius to figure out that the startup world has entered a “hey, I can do that too!” phase. Since there is a limit to the market’s ability to absorb new stuff, software development skills could be on their way to becoming plentiful too. Before the job market reacts, we could even have a period in which a software engineer’s time is worth as much as a rock guitarists’, which is to say less than a baby sitter’s. It’s Schumpeter curse: when the market works, it commodifies or obsoletes everything.

Most economists interpret Schumpeter’s careful wording as a process that turns out to be a good thing in the long run, because it makes useful, expensive stuff cheap. I think they are wrong, because Schumpeter’s is not an equilibrium model: if creation and destruction are not in sync, the long run may never come around. What this means, I’m trying to figure out.

La maledizione di Schumpeter


Per un certo periodo, negli anni 90, ho fatto il musicista rock professionista. Ho lasciato nel 2000, appena in tempo. Questa figura sta svanendo: chi ha una fan base già consolidata si attrezza per sfruttarla (e man mano si ritira dalle scene per sopraggiunti limiti di età), mentre chi comincia adesso può raggiungere rapidamente e con pochi investimenti un discreto successo su Last.fm o Spotify ma non riesce praticamente mai a costruire un’economia solida. Suoni nel tempo libero, l’abilità è trovare un lavoro che ti consenta di andare in tour. La stessa cosa, mi dicono, sta succedendo ad artisti dediti ad altre forme, come videomakers e cineasti. Un cocktail micidiale di tecnologie di produzione low cost e condivisione in rete ha scongelato enormi riserve di creatività artistica, rendendola, da scarsa che era, abbondante. E mentre lo faceva, ha piantato un paletto nel cuore dell’industria musicale, che si è polverizzata come un vampiro a mezzogiorno (necrologio di Dave Kusek). Un caso da manuale della distruzione creativa profetizzata da Joseph Schumpeter.

Ok, ma tanto “startups are the new rock’n’roll”, no? È lo stesso schema: giovani visionari e ossessionati dalle loro idee, partecipi dello spirito dei tempi, che diventano milionari a 23 anni, e ispirano i loro coetanei a rompere con la grigia routine delle ultime generazioni. E i giovani ci provano: i concorsi per business plans stile Working Capital hanno preso il posto dei concorsi per rock band emergenti (quelli a loro volta si sono trasferiti in televisione, che un modello di business invece ce l’ha eccome).

Però. Nell’ultimo mese ho trovato un post di Laurent Kretz, fondatore di Submate, che descrive in modo piuttosto crudo la vita dell’imprenditore di startup. Non è certo un mondo dorato: comprende vivere di sussidi di disoccupazione (per gli italiani immagino che l’equivalente sia abitare con la mamma), farsi piantare dalla fidanzata stufa di essere trascurata, rinunciare alle vacanze, essere inseguiti dalla banca assetata di vendetta. Ne sanno qualcosa i miei amici di CriticalCity, che stanno vincendo ma hanno pagato un prezzo umano molto alto.

Attenzione: questo non è il ritratto di uno che cerca un investitore. Kretz un investitore ce l’ha, solo che gli dà pochissimo denaro, lo stretto necessario per non fare morire di fame un team di quattro persone che lavorano ottanta ore alla settimana per quattro mesi. E così fa la maggior parte degli investitori early stage: ricordo Joi Ito, un paio d’anni fa, che diceva testualmente “io non investo se non ho una demo funzionante programmata in un weekend lungo da tre persone, e anche così investo al massimo cinquantamila dollari.”

Da allora Ito è andato avanti: la sua ultima esperienza è che un servizio web completamente funzionante richiede tre settimane di lavoro da parte di due persone: un designer e un programmatore che sviluppa il software. Questo perché il codice software è modulare: non si scrive da zero, ma si copiano-e-incollano routines già scritte. Questo processo è stato reso più fluido e scientifico dall’esistenza di tools di “metaprogrammazione”, che assemblano pezzi di codice di provenienze diverse in un programma integrato.

Non ci vuole un genio per capire che il mondo delle startup è entrato in una fase “ehi, tutti possono farlo!”. Siccome c’è un limite alla capacità di assorbimento di nuovi servizi e nuovi contenuti da parte del mercato, anche le capacità di progettazione e sviluppo software potrebbero rapidamente diventare abbondanti. Prima che il mercato del lavoro si adegui, potremmo perfino avere un periodo in cui un ingegnere informatico costa come un chitarrista rock, cioè meno di una baby sitter. È la maledizione di Schumpeter: quando il mercato funziona bene, rende tutto low cost o obsoleto.

Molti economisti interpretano la cauta formulazione di Schumpeter come un processo che produce un bene sul lungo periodo, perché rende accessibili cose utili che prima costavano molto, ma può essere molto destabilizzante nel breve. Secondo me si sbagliano, perché quello di Schumpeter non è un modello di equilibrio: se le velocità di distruzione e creazione non sono sincronizzate il lungo periodo potrebbe anche non arrivare mai. Cosa questo significhi sto cercando di scoprirlo.