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L’innovazione insostenibile

Di innovazione si parla moltissimo in questi anni. Si va facendo strada in molte persone un atteggiamento quasi fideistico: innovate, l’innovazione può salvarci. David Lane e Sander van der Leeuw sospettano invece che la corsa all’innovazione che caratterizza la nostra società non sia sostenibile. Vorrebbero discutere questa intuizione con gli innovatori tecnologici e sociali: per questo lanciano il sasso con un talk che si terrà alle 11 di lunedì 27 settembre a The Hub Milano, via Paolo Sarpi 8, e sono molto curiosi di ascoltare il parere dei milanesi che l’innovazione la praticano. ll talk si terrà probabilmente parte in inglese e parte in italiano (David parla un eccellente italiano).

David Lane si interessa di innovazione come economista. È membro dello Science Board dell’Istituto di Santa Fe per lo studio dei sistemi adattivi complessi, il che significa che ha un approccio molto interdisciplinare. Attualmente insegna all’università di Modena e Reggio Emilia, raro caso di un talento attirato in Italia. Sander van der Leeuw se ne interessa come archeologo – il che significa che ha una prospettiva temporale di un paio di milioni di anni, insolito per uno che studia l’innovazione. Attualmente è il preside della School of Sustainability all’Arizona State University.

Fatevi un favore: andateci. Io ho sentito molte lezioni di David, e vi assicuro che tutte le volte sono uscito energizzato – ma anche stordito per la quantità e la qualità di stimoli intellettuali. Non ho mai incontrato Sander, ma il video qui sopra mi ha lasciato senza fiato. Io ci sarò.

Il vero innovatore: il surfista di Turbigo

Domenica ero con alcuni amici a fare una pedalata lungo il Ticino, e ci siamo imbattuti in quest’uomo che faceva surf sul naviglio, nei pressi di Turbigo. Immediatamente a valle di una chiusa si forma un’onda statica: il surfista può cavalcarla stando fermo, mentre l’acqua scorre verso la poppa della tavola (se si dice così).

In un colpo solo, il surfista di Turbigo rovescia il concetto di surf (nel surf normale l’acqua sta ferma: a muoversi è l’onda, e il surfista con lei) e reinventa il naviglio come un luogo di sport acquatici normalmente associati con il Pacifico. Non ha costruito nulla, non ha scritto business plans né prototipi, non ha proposto la propria idea a nessuno, non si è chiuso in laboratorio. Ha solo guardato la chiusa e si è detto “Ehi, ma lì si potrebbe fare surf! Voglio provare”.

Eppure è proprio questo sguardo diverso, a mio avviso, ad essere il cuore dell’innovazione territoriale: tutti gli sviluppi futuri, compresa la fioritura di una – per ora ipotetica – surf culture ticinese, sono impliciti in esso. Chissà se accetterebbe di fare il responsabile dell’Expo 2015, il surfista di Turbigo. O il sindaco. O il ministro.

Contro i beni di lusso (e Slow Food)

In quasi tutti i sistemi fiscali i consumi di lusso sono scoraggiati con una tassazione più pesante rispetto a quelli ritenuti “normali”, qualsiasi cosa questo significhi. In qualunque corso introduttivo di scienza delle finanze vi diranno che ci sono due ragioni per questo. Una è che la domanda di questi beni è meno reattiva al prezzo di quella dei beni non di lusso. Quindi un aumento della tassazione si tradurrà in una riduzione della domanda (quindi in una diminuzione del PIL), ma essa sarà minore di quella che si sarebbe avuta tassando allo stesso modo beni non di lusso. L’altra ragione è che sono in genere i ricchi a consumare maggiormente questi beni, e gli economisti sono addestrati a considerare l’equità distributiva un valore. A parità di altre condizioni, meglio tassare i ricchi.

Queste argomentazioni sono valide in un modello statico e in equilibrio. Di equilibrio, perché si concentra su quella condizione ideale (e di fatto non verificabile nella realtà) in cui tutti i consumatori hanno massimizzato la loro utilità, e tutte le imprese il loro profitto. Statico, perché in esso manca il tempo. In particolare, manca il progresso tecnico.

Per questa ragione sono contrario al movimento Slow Food, e alla presenza sempre più invadente della filiera enogastronomica nel discorso italiano sullo sviluppo locale. Hai presente il gnocco fritto? Le mie zie a Reggio Emilia lo facevano a primavera per tutti i nipoti. Potevi mangiarlo in certe trattorie dell’appennino a prezzi ridicoli. Era buono ed economico. Era un sapore di casa. Si friggeva (obbligatorio) nello strutto. Si annaffiava con il lambrusco fatto in casa, con le bollicine che scrostano il grasso di maiale dallo stomaco. Bene, dimenticatelo. Da oggi il gnocco fritto si mangia nei ristoranti infighettati con finti strumenti musicali appesi alle pareti e l’adesivo del Gambero Rosso (“cus’ela?” avrebbe brontolato mia nonna, una vera esperta in materia). Si frigge nell’olio, addensato e agglutinato per dargl la consistenza dello strutto. Costa 35 euro a coperto, e non è affatto più buono di quando costava cinquemila lire vino compreso.

Ma c’è di peggio. I marchi di garanzia che proliferano nella nostra tanto decantata filiera del gusto vengono concessi agli alimenti che vengono prodotti rispettando dei protocolli chiamati disciplinari. Nei disciplinari c’è scritto non solo cosa, ma come devi produrre. E questo è decisivo, perché blocca l’innovazione. Se vuoi il marchio devi fare tutto esattamente come tutti gli altri che hanno quel marchio. La conclusione è che i grandi prodotti veramente buoni per definizione non possono avere marchi; i grandi vini, per esempio, non sono Doc, perché mischiano vitigni di provenienze diverse per ottenere prodotti di eccellenza. Paradossale? No, perché i marchi di garanzia mica servono a fare prodotti buoni: servono ad alzare i margini. Se un genio dell’agronomia riuscisse a fare uno spumante buono come il Veuve Cliquot, ma che costa come il Tavernello, o un formaggio buono come il parmigiano reggiano con latte di cammello a cinque euro al chilo, non troverebbe nessuno disposto a dargli un marchio. Il marchio garantisce i prodotti esistenti contro la concorrenza di quelli nuovi.

Conclusione: Slow Food, come buona parte della filiera del gusto, spinge verso il mondo del lusso prodotti buoni ed economici, inventati dai nostri nonni con poco denaro e molta inventiva, e riduce il loro potenziale di raggiungere le masse. In più, disincentiva l’innovazione, facendo investimenti di marketing su marchi che garantiscono il processo di produzione e non il prodotto. Un equivalente nel mondo della tecnologia potrebbe essere un marchio di qualità per i giornali scritti a macchina anziché al computer (Slow Writing); uno nelle pubbliche amministrazioni un ufficio anagrafe che non rilascia certificati online, ma solo allo sportello (Slow Service). A me sembra una perdita secca per la società, e credo che le politiche pubbliche dovrebbero scoraggiarla, ma magari sbaglio io.