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La musica è roba da vecchi

 

Sabato scorso mi hanno telefonato di accendere il televisore per vedere il Concerto per i ragazzi di strada, un evento benefico mandato poi in onda (in una sintesi) da Rai Uno. Oltre ai miei ex soci Modena City Ramblers, ho fatto in tempo a vedere Al Bano, i Matia Bazar, Andrea Mingardi, i New Trolls, Roberto Vecchioni, Eugenio Bennato, Frankie Hi-NRG. Gusti musicali a parte (i miei sono piuttosto distanti da alcune di queste proposte, ma questo non ha la minima importanza) ciò che mi ha colpito è l’estrema vecchiezza degli artisti. A parte i MCR e Frankie (comunque tra i 40 e i 50 anni, e qualcuno anche oltre i 50), gli altri erano tutti over 60. Spirava un’aria sinistra, molto italiana, di inamovibilità: hic manebimus optime, qui sono e da qui non mi muovo, senza nessun senso di autocritica, nessuna vergogna per repertori non rinnovati da decenni e proposte stantìe. Vecchioni (con una maglietta grigia a maniche corte da reparto ospedaliero che gli scopriva le braccia da vecchio) ha cantato, indovinate un po’, Samarcanda (1977). I New Trolls, ebbene sì, Quella carezza della sera (1978). I Matia Bazar, proprio così, Ti sento, grande pezzo ma del 1985.

La cosa che mi amareggia di più è vedere giovani musicisti collaborare con queste persone in ruoli chiaramente subalterni, senza potere mai crescere. Mi ha fatto male al cuore vedere la “giovane” (40 anni giusti) ed energica Roberta Faccani (Matia Bazar) usata da Golzi e Cassano come una trasfusione di sangue per mantenere artificialmente in vita un progetto in sè vecchio: forse Roberta meriterebbe di avere un’occasione tutta sua, come lo meriterebbero altri musicisti giovani che sono saliti sul palco quella sera con un ruolo, invece, da comprimari.

Purtroppo non credo che ne avranno mai una, salvo casi molto fortunati. La tempesta di internet, distruggendo il modello di business basato sulla vendita di supporti come il CD, ha spezzato la capacità dell’industria musicale di sviluppare talento e portarlo all’attenzione del mercato, per cui – razionalmente – discografici e promoter cercano di prolungare la gloria di quegli artisti che sono riusciti a costruirsi una notorietà prima del 2000 – meglio ancora se prima del 1985. Al Bano ha pubblicato 30 album, Mingardi  e Vecchioni 26 ciascuno, i Matia Bazar 25, i New Trolls 33.  Fino a che un modello di business nuovo non emergerà, quella musicale è destinata ad essere una delle industrie più conservatrici e gerontocratiche del mondo. Meglio fare altro.

I Radiohead e la teoria dei giochi

Ritorno a bocce ferme sulla faccenda dell’inedita strategia di prezzo adottata dai Radiohead per il loro ultimo album “In Rainbows”. Come ricorderete che l’album era stato reso disponibile per il download. Non c’era un prezzo fisso, ma piuttosto un meccanismo di offerta libera: chi scaricava poteva non pagare niente, o determinare egli stesso il prezzo da pagare. I risultati sono stati abbastanza controversi: secondo alcuni (per esempio la BBC) è andata male, per altri (come il gruppo stesso, intervistato da Wired) è andata benissimo. Per un verdetto finale avremmo bisogno di dati affidabili sui pagamenti, ma quelli li hanno solo i Radiohead stessi e se li tengono ben stretti, dichiarazioni a parte.

Però c’è un aspetto della storia che è molto chiaro anche senza i dati, e cioè la struttura strategica del rapporto tra i Radiohead e i loro fans. Chi frequenta la teoria dei giochi sa che esiste un semplice gioco a due stadi che descrive molto bene l’operazione di “In Rainbows”, e cioè l’ultimatum game. Funziona così: c’è un dollaro da dividere tra due persone. Il primo giocatore a muovere offre al secondo una ripartizione di questo valore; il secondo può accettare o rifiutare. Se accetta si realizza la ripartizione proposta dal primo, se rifiuta nessuno dei due prende niente. Questo gioco ha un unico equilibrio perfetto nei sottogiochi, che è che il primo giocatore offre al secondo un centesimo, tenendo per sé gli altri 99, e il secondo accetta. Può sembrare iniquo, ma è razionale: nessuno dei due ha nulla da guadagnare a cambiare strategia. Il secondo può rifiutare, ma così perderebbe anche quell’unico centesimo. Il primo può fare un’offerta più generosa, ma dovrebbe rinunciare a parte del denaro. Il prezzo a offerta libera di “In Rainbows” somiglia moltissimo a un ultimatum game: il valore dell’album è la somma da dividere, il primo giocatore è il singolo acquirente, che deve decidere quale prezzo pagare, i Radiohead sono il secondo giocatore. Due osservazioni:

  1. se i dati dichiarati dal gruppo sono anche minimamente attendibili, moltissima gente ha giocato strategie non di equilibrio, pagando somme molto significativamente diverse da zero. Questo però è “normale” scostamento dei dati sperimentali dall’equilibrio matematico.
  2. soprattutto – dicono molti commentatori – non si capisce per quale motivo i Radiohead hanno voluto strutturare la loro interazione con il mercato in un modo così “suicida”.

A me sembra tutto chiarissimo. Immaginate di fare un album, che ovviamente incorpora valore (ci avete lavorato un anno e mezzo e speso un sacco di quattrini). Appena esce – è ovvio – qualcuno lo condivide su eMule/bitTorrent. A questo punto ogni singolo ascoltatore di musica ha tre opzioni: comprare l’album a 20 euro in negozio; comprarlo a 10 euro su Apple Music Store; scaricare gratis. Voi non potete fare altro se non accettare l'”offerta”. In altre parole, il mercato della musica registrata è già strutturato come un ultimatum game; la variante dei Radiohead però ha due vantaggi, quello di permettere la discriminazione di prezzo (mi si permette di pagare 5 euro se ritengo che quello sia il prezzo giusto, in una situazione normale avrei semplicemente scaricato gratis) e quello di costruire reciproca fiducia tra la band e i suoi fans.

Il cantante Thom Yorke ha dichiarato che il gruppo ha guadagnato 8-10 milioni di dollari nella prima settimana dell’operazione “In Rainbows”. Personalmente lo ritengo plausibile. Visto che la teoria dei giochi a qualcosa serve? (Una trattazione più completa è qui).

The song remains the same: il web 2.0 sta convergendo con il mainstream?

[Questo è l’ultimo post per qualche giorno. Tra poche ore spengo il computer e lo inscatolo: domattina presto si presenteranno i traslocatori per portarlo, con tutto il resto, nel nuovo ufficio-casa di via Manzotti 23 a Milano. Molto probabilmente sarò in blackout internet per qualche giorno o qualche settimana, a seconda dell’efficienza e del buon cuore di Fastweb. Vi affido Contrordine, fategli compagnia con i vostri commenti, a risentirci quando avrò disfatto gli scatoloni.]

Alberto ha notato che nella pagina dei video più visti di tutti i tempi su YouTube ci sono – oltre alle ben note hits virali tipo evolution of dance – ci sono un sacco di video musicali di artisti Top 40: Avril Lavigne, Timbaland, Rihanna ecc. Che sta succedendo? I media del web 2.0 si stanno forse uniformando ai gusti blandi e “decaffeinati” del mainstream?

Beh, una prima risposta è che il web 2.0 rimane molto diverso dai media di massa indipendentemente dalla presenza di hit mainstream nella parte alta della classifica: i secondi ci danno solo Avril e le varie Avril, il primo ci consente di abitare molto tranquillamente nella coda lunga. Può semplicemente essere successo che l’ingresso in YouTube di molti nuovi utenti (un rapporto di comScore informa che a settembre 2007 ha avuto 70 milioni di visitatori unici) ha cambiato il profilo dell’utenza, riducendo il peso degli innovatori iniziali: ne parlavamo con Marco.

Ma c’è una seconda risposta, che mette in discussione l’esistenza stessa di un mainstream “commerciale”. Ecco due classifiche relative alla seconda settimana di marzo:

  Billboard Comprehensive Albums Last.fm artisti più ascoltati
1. Alan Jackson Radiohead
2. Jack Johnson The Beatles
3. Janet Red Hot Chili Peppers
4. Flogging Molly Muse
5. The Black Crowes Coldplay
6. Michael Jackson Metallica
7. Erikah Badu Linkin Park
8. Sara Bareilles Nirvana
9. Alicia Keys The Killers
10. Taylor Swift Foo Fighters

C’è una bella differenza, no? La classifica di Last.fm è molto meno influenzata dalle tendenze cool; molto più britannica piuttosto che americana; occhieggia al rock, mentre ignora completamente hip hop e r’n’b; ed è completamente fatta di artisti bianchi e maschi (il che potrebbe indurre qualche riflessione su questa società iperconnessa in rete). Giusto sabato, all’Innovation Forum, Enzo Mazza della FIMI mi diceva che Last.fm ormai “fa testo” anche per il mondo FIMI; che YouTube è diventato il cliente più importante per diverse grandi aziende discografiche europee; che Sanremo – e lo si sa da anni – non sposta vendite ed è avviato a un declino inesorabile. Questo ha un’implicazione interessante: “musica commerciale” non vuole più dire “musica che vende tanto”, ma designa un genere. Ritornelli cantabili, look giusto, belle ragazze, artisti non troppo bravi perché se no mi spaventano l’elettorato moderato… Kylie, Avril, la Tatangelo, fate voi. Musica che serve alle radio per intrattenere l’automobilista in coda sull’A4, ma che – a parte qualche star, in genere consolidata prima della slavina degli anni 2000 – comunque vende pochissimo. Ho anche un’esperienza personale: “Prendi l’onda” dei FF, con la collaborazione di Jovanotti e McNavigator degli Asian Dub Foundation, è stata pompatissima da radio DeeJay e AllMusic ma non ci ha fatto vendere un disco in più. Anzi, secondo me ha creato confusione rispetto all’identità del progetto.

Secondo me il mainstream come lo conosciamo – cioè l’idea che la musica “democristiana” e rassicurante vende di più di quella che fa scelte artistiche nette – è morto e sepolto, con la lapide sopra e il cemento asciutto. E va bene così.