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Diritto d’autore: Techcrunch contro le majors

Fa abbastanza impressione leggere su Techcrunch che

nessuno che sia minimamente lucido potrebbe sostenere che scaricare musica su internet sia “sbagliato” a questo punto

Fa impressione sia per il tono perentorio che perché a sostenerlo è, appunto, Techcrunch, cioè il blog che si occupa di internet con un taglio business. Una citazione di Michael Arrington è in genere un fortissimo segnale di qualità per le startup, e i venture capitalists si muovono molto volentieri – a suon di milioni di dollari – sulle aziende che incontrano la sua approvazione. Naturalmente Arrington sa che, invece, ci sono diverse persone molto lucide che sostengono proprio questo. Queste persone, a suo dire, mentono, e lo fanno perché

la legge, e in particolare la disponibilità del governo americano a perpetuare l’assurdità della legislazione sul copyright applicata alla musica registrata, è tutto ciò che rimane alle etichette

E’ chiaro che la legislazione attuale sul copyright inibisce diversi modelli di business potenzialmente interessanti per le imprese hi-tech della Silicon Valley, di cui Techcrunch è una voce importante.  Hmm. Sbaglio o queste imprese hanno generosamente finanziato la campagna vittoriosa del presidente Obama, il primo presidente 2.0? Non sarà che adesso queste imprese stanno presentando il conto al loro uomo a Washington?

(traduzioni mie)

La musica indie è freemium, quella pop è advertising based

clikthrough

Il video di Breakeven, della band irlandese The Script, è interattivo. “Interattivo”, in questo contesto, vuol dire che se ci clicchi sopra si apre una finestra con la foto e la descrizione della giacca indossata dal cantante, o del suo cellulare, o dell’auto che guida nel video. Un altro clic permette di accedere allo store online. La tecnologia consiste in un player realizzato dall’azienda californiana Clikthrough. La riproduzione è un po’ a scatti sul mio Mac; i prodotti sono 40, uno ogni sei secondi. La maggior parte di essi compare in molte scene del video, per cui se lasciate il puntatore del mouse appoggiato alla finestra in cui scorre il video, l’etichetta che annuncia il prodotto cambia due/tre volte al secondo: direi che è davvero l’ultima frontiera del product placement. Secondo il Times, Clikthrough sta ora producendo il video di Natasha Bedingfield con la stessa tecnologia.

A parte considerazioni di user experience, mi pare interessante che il modello di business della musica pop si stia separando da quello della musica indipendente, o alternativa.

0. Fino alla fine degli anni 90 il gioco era vendere dischi e biglietti di concerti, promuovendo la musica attraverso radio, TV, riviste e altri media. Erano diversi i media (e spesso anche i venues per i concerti, e  i negozi di dischi), ma il modello era lo stesso, da Sanremo agli artisti RoughTrade. Oggi lo chiameremmo un modello paid content. Dalla “tempesta digitale” degli anni 2000, però, mi pare che stiano emergendo due strategie nettamente diverse.

1. Gli artisti indipendenti rafforzano i loro legami con le communities dei loro fans. Questo implica non tentare di fermare il download illegale (cosa che, del resto, è impossibile), ma piuttosto costruirsi un modello freemium in cui una forte minoranza di fans paganti tiene in piedi tutto il sistema, e il rapporto di simbiosi tra artista e fans è forte e molto esplicito. Si parla di Creative Commons, si parla di “make your own price”, di edizioni superlusso; credo che i recenti episodi Radiohead e Nine Inch Nails si possano leggere in questo modo.

2. Gli artisti pop come The Script e Bedingfield sembrano invece puntare su un modello advertising based. E’ tutto un fiorire di Cornetto Free Music Festival e di video cliccabili: l’idea è che la musica sia una specie di gadget; i ricavi vengono dalla vendita dei jeans o dei cellulari.

I modelli non sono solo diversi: sono incompatibili. La retorica del modello freemium, infatti, dice al fan: senza il tuo attivo contributo i Nine Inch Nails non esisterebbero. Trent Reznor non può mettersi a vendere scarpe o auto senza in qualche modo tradire il patto che ha con la sua community. Sembra di assistere all’equivalente economico di quello che in biologia è una speciazione, cioè alla separazione di una nuova specie da una esistente. Mi chiedo se, nella nuova situazione, il gioco di spostare nuovi fermenti dall’alternativa al mainstream, che l’industria musicale ha praticato con successo per oltre sessant’anni, possa ancora riuscire.

Questione di punti di vista

Distratto da tutt’altro, non ho ancora commentato il caso Nine Inch Nails – Ghosts I-IV. Per chi come me si fosse distratto, la storia è più o meno questa: Trent Reznor completa il suo contratto discografico con Interscope Records, decide di non rinnovarlo, e pubblica queste 36 tracce strumentali di “dark ambient” (!) con una propria etichetta. Decide di licenziarle in Creative Commons (attribuzione, non-commerciale, condividi allo stesso modo). Questo significa che:

  1. è legale scaricare “Ghosts” da Bit-Torrent o e-Mule
  2. è legale copiare il cd e distribuirlo in giro

L’album può essere ottenuto anche in molti altri modi, dal download a pagamento all’edizione limitata “Ultra-Deluxe” a 300 dollari al pezzo (2500 copie, esaurite in tre giorni secondo Arstechnica). I risultati sono stati notevolissimi: 1,6 milioni di dollari di ricavi generati nella prima settimana (fonte: Wired); album più scaricato (a pagamento) da Amazon; primo posto nella classifica Billboard nella musica elettronica e piazzamenti molto lusinghieri in altre categorie (compreso un 14° posto assoluto); 4° album più ascoltato nel 2008 su Last.fm, con oltre cinque milioni di ascolti.

Chris Anderson, che sta scrivendo un libro su “The economics of free”, commenta che “Un album gratuito è stato il più venduto come MP3!”. Ha ragione.

Joi Ito, impegnato su Creative Commons, fa notare che “Un album licenziato in CC è stato il più venduto come MP3!”. Anche lui ha ragione.

Ma perché la gente comprerebbe musica che può facilmente ottenere gratis? Il blog di CC: “I fans hanno capito che comprare gli MP3 avrebbe direttamente sostenuto la vita e la carriera di un artista che amano (traduzione mia)”. E, secondo me, lui ha più ragione di tutti. Nel mio piccolissimo, sostengo da un pezzo (per esempio in un articolo del 2001 su “Diario”) che i musicisti “vivono di mance”, cioè di un rapporto forte con la propria fan base, e che è su questo rapporto che occore costruire un modello di business per l’era digitale. Il diritto d’autore inteso nel senso classico è diventato un ostacolo all’innovazione sui modelli di business, e va superato (ne ho parlato nel 2007 a eChallenges e in altre sedi). Su queste cose mi scontro da allora (abbastanza affettuosamente) con ciò che resta della discografia tradizionale.

E anch’io avevo ragione, pare. 😉