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È misurabile l’impatto delle innovazioni sociali?

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Ripubblico qui – per completezza di archivio – un post già comparso su CheFuturo. Al momento della pubblicazione, trovate il post originale qui, insieme a una bella discussione sui commenti.

La settimana scorsa ero a Londra per la prima riunione della giuria della European Social Innovation Competition. L’incontro si è tenuto nella sede del National Endowment for Science, Technology and the Arts; lo presiedeva Geoff Mulgan, il suo direttore. Geoff è, secondo me, uno dei policy makers più interessanti d’Europa: anche se non sempre sono d’accordo con lui, quando parla lo ascolto con la massima attenzione di cui sono capace. In questa occasione mi ha colpito molto per la sua insistenza sull’importanza di misurare l’impatto delle iniziative socialmente innovative. Rigore e misurazione quantitativa, secondo lui, sono indispensabili per spazzare via la fuffa che, in questi anni, si è incrostata sul concetto di innovazione sociale.

Sul rigore sono d’accordo. Sulla misurazione quantitativa ho molti dubbi. Gli innovatori sociali – quelli veri, quelli disruptive – vogliono cambiare la società nel profondo, quindi non ha senso valutarne gli effetti in termini della società che deve essere cambiata. Prendete, per esempio, Bitcoin (Wikipedia) – una moneta progettata in modo che nessun ente centrale possa manipolarne il valore, che protegge l’anonimato di chi la usa con tecniche crittografiche impenetrabili. Conosco personalmente alcuni dei suoi proponenti più attivi in Europa: sono persone idealiste e generose, animate dall’idea che la cosiddetta “fiat money”, la moneta creata dalle banche centrali e moltiplicata dal sistema bancario, sia irrimediabilmente difettose. C’è solo un piccolo problema: le transazioni con contante elettronico anonimo offrono opportunità per nuove forme di evasione fiscale. Bitcoin, dicono i suoi critici, ha il potenziale di colpire al cuore gli stati, distruggendone la capacità di imposizione. Quando glie lo fai notare, i partigiani di Bitcoin dicono “beh, gli stati non sono un bene in sé stessi, servono a risolvere i problemi delle persone. Se la loro esistenza ci impedisce di risolvere problemi come quello della moneta forse è ora di trovare qualcos’altro che funzioni meglio.”

Provo a tradurre: non è che queste persone siano dei rivoluzionari a prescindere. È che, per l’innovatore, lo status quo ha valore zero, e in qualche caso negativo. Egli o ella conduce la sua valutazione nei termini del mondo in cui la sua innovazione ci sarà. I valutatori professionisti, che lavorano per i governi o per fondazioni private, valutano invece in termini del mondo che abbiamo adesso, in cui essi sono classe dirigente e che non desiderano vedere cambiare più di tanto. Sono come i clienti di Henry Ford, che, a dire del grande industriale, avrebbero chiesto “cavalli più veloci” perché, semplicemente, non erano in grado di vedere la civiltà dell’automobile senza rinunciare a una parte importante della propria identità. O come l’arcivescovo di Mainz, sponsor di Gutenberg attraverso il “venture capitalist” Johann Fust, che investiva sulla stampa a caratteri mobili sulla base di un impatto (la possibilità di produrre certificati per indulgenze rapidamente e a basso costo) che è risultato, ex post, insignificante; mentre l’impatto vero (democratizzazione di lettura e scrittura, diffusione di materiale religioso etorodosso e vittoria della Riforma protestante) lo avrebbe indotto a licenziare Gutenberg e fare a pezzi la macchina. Noi consideriamo la stampa a caratteri mobili un grande passo avanti nella storia dell’umanità, ma questo è perché noi siamo figli della civiltà che quell’innovazione ha prodotto. Siamo i vincitori di quella particolare battaglia, e la storia la scriviamo noi – se non altro perché i perdenti si sono estinti.

Sto esagerando? Non credo. Molta innovazione sociale cerca di ridisegnare il welfare. Il welfare è una parte importantissima dell’identità europea: l’istruzione obbligatoria e gratuita, l’assistenza sanitaria, le misure a sostegno degli esclusi. Questa è roba politicamente esplosiva. Provate a dire, nel corso di qualunque discussione “beh, l’università di massa ci costa troppo e non funziona, sostituiamo tutto con apprendimento peer-to-peer online”: nella maggior parte dei casi questo non porterà a una discussione serena, ma a una difesa strenua dei valori (come “diritto allo studio”) che hanno ispirato la politica della scolarizzazione di massa. Voi provate a rispondere che il sistema che abbiamo non è efficace nell’affermare quei valori, e che ha senso riflettere su strade alternative: verrete trattati con sospetto e irritazione (“ci dev’essere una fregatura sotto. L’università di massa non si tocca”). Quindi il valutatore di progetti di innovazione sociale è in una posizione scomoda. Se un progetto è a basso impatto non vale la pena di sostenerlo; ma se è ad alto impatto, sostenerlo potrebbe essere pericolosissimo per la società nella quale si sta compiendo la valutazione.

Come uscirne? Una soluzione tecnica potrebbe essere separare nettamente la funzione di promozione dell’innovazione sociale da quella di controllo. In questo scenario, ci sarebbe un piccolo mondo di agenzie governative, fondazioni etc. intente a cercare di massimizzare il potenziale creativo dell’innovazione sociale, senza compromessi e senza riguardi per gli equilibri esistenti; e un “cane da guardia” che filtra gli aspetti disruptive troppo costosi in termini di stabilità. Ma probabilmente questo sistema sarebbe politicamente inaccettabile – senza contare che prevedere gli effetti disruptive è come minimo molto difficile, e come massimo impossibile anche sul piano concettuale a causa della dinamica di feedback positivo che caratterizza i processi innovativi. Nell’attesa di un’idea migliore, temo che dovremo rassegnarci a politiche di promozione dell’innovazione sociale che mandano avanti idee modeste e premiano i “soliti sospetti”, garanti di equilibri forse destinati a schiantarsi ma che non riusciamo davvero a mettere in discussione.

Avanti i pensatori radicali!

“Sei un radicale!” Quando ero un adolescente scontroso e polemico, mio padre intendeva questa frase come una critica. Nel mondo in cui siamo cresciuti, essere nella media era una buona cosa: bianco, maschio, un diploma superiore o una laurea presso un’università non troppo prestigiosa, un lavoro fisso, un appartamento ipotecato, 2.3 figli e una tessera del sindacato. L’obiettivo era essere una persona seria, e come tale protetta dall’ombrello della NATO e del welfare state europeo.

Il sogno di stabilità e inclusione sociale di una buona fetta della popolazione (certo non di tutta) è stato bello finché è durato. Ma sembra che l’egemonia della cultura moderata abbia condotto a una conseguenza imprevista: l’incapacità collettiva di riconoscere l’ascesa di problemi globali (disuguaglianze terribili, riscaldamento del pianeta, il rinselvatichimento dei ricchi e la società della sorveglianza) e affrontarli in modo credibile, pensando al di fuori dagli schemi. Non è tanto un problema di conoscenza (anche se certo, ci serve più conoscenza): per almeno alcuni di questi problemi abbiamo risultati scientifici indiscutibili, come ha osservato Stewart Brand (vedi anche il video qui sopra). La capacità cognitiva dell’elettore mediano, quello che fa vincere le elezioni… quella no, non l’abbiamo.

Che fare? In termini di velocità di reazione e rapporto risultati-risorse, credo che l’opzione di gran lunga la migliore sia mettere in campo i pensatori radicali. Esistono, e costituiscono una riserva di pensiero non utilizzata: come ha scritto di recente Vinay Gupta, molti dei problemi veramente importanti per l’umanità (e quasi tutte le soluzioni candidate a risolverli) occupano i pensieri e le giornate di molte persone interessanti. Quasi tutte sono povere, perché i loro progetti sono fuori dalla sfera finanziabile (con questo termine, Vinay intende l’insieme di quelle idee e progetti che i decision makers di buon senso nel mondo accademico, nel settore privato e nel governo ritengono “seri” e quindi meritevoli di attenzione). Questa riserva potrebbe essere messa a valore per mettere in piedi una risposta di policy in qualche modo evolutiva: dare a queste persone lo spazio per collaudare le loro soluzioni, provandone molte, ciascuna in un ambiente ben controllato e con risorse economiche limitate. Provare tutto: geoingegneria, colonizzazione dello spazio, autosufficienza energetica di piccole comunità, reputazione al posto del denaro. Scartare le cose che non funzionano, e investire su quelle che funzionano. Ripetere. Nassim Taleb lo chiamerebbe “posizionarsi per intercettare i Cigni Neri positivi“: ciascuna di queste idee ha una piccola probabilità di produrre benefici enormi, quindi ha senso fare piccoli investimenti in tutte.

Per questa ragione, applaudo la recente mossa di NESTA (l’agenzia britannica per la scienza, la tecnologia e le arti) di cercare e raccogliere intorno a se i pensatori radicali che potrebbero trasformare la società britannica. A quanto ne so, è la prima volta che la parola “radicale” viene usata in un’accezione positiva in un contesto di politiche pubbliche. Non mi sorprende che sia stata NESTA a farlo: il suo direttore, Geoff Mulgan, è uno dei policy makers più interessanti che conosco. La call di NESTA non è molto operativa: non ci sono risorse significative, o piani espliciti di dare leve vere a questi pensatori radicali. Ma è un inizio. Prevedo un’ondata di pensiero più radicale nelle politiche pubbliche: gli scienziati e i policy makers interagiscono in modo più stretto, e un po’ della hybris dei primi rimane attaccata ai secondi. Speriamo che non sia troppo tardi.