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Perché l’open government sta fallendo (ma alla fine vincerà comunque)

Gli accordi di corridoio e le clientele sono strumenti classici di governo. Molte persone, però, non li amano, e non se ne fidano. Preferiscono una governance aperta e trasparente. Io sono tra queste, e probabilmente anche tu.

Ispirato da questi valori, ho guardato Internet diffondersi su tutto il pianeta, e ho visto un’opportunità. Ho dedicato parecchi anni di lavoro a esplorare come le forme di comunicazione che Internet rendeva via via possibili potessero rendere la democrazia migliore, più intelligente. Gran parte di questo lavoro era pratico. Consisteva di progettare e realizzare progetti di governo aperto (open government), prima in Italia (Kublai, Visioni Urbane), poi in Europa Edgeryders).

Circa dieci anni fa, le poche persone che, in tutto il mondo, lavoravano su questi temi hanno cominciato a entrare in contatto gli uni con gli altri. Abbiamo cominciato a scambiarci esperienze, a riflettere insieme, a costruirci luoghi di incontro. Continuiamo a farlo anche oggi. E c’è una novità: questo dibattito si sta spostando. Non stiamo più parlando degli argomenti che ci appassionavano nel 2009. Se hai a cuore la democrazia, questa è una notizia in parte buona e in parte cattiva, e comunque importante e eccitante.

Alla fine degli anni duemila, pensavamo che Internet avrebbe migliorato il funzionamento della democrazia abbassando i costi di coordinamento tra i cittadini. Questo funzionava in tutti gli ambiti. Rendeva tutto più facile. Trasparenza? Basta mettere le informazioni su un sito, e renderlo rintracciabile dai motori di ricerca. Partecipazione? I sondaggi online costano poco. Collaborazione tra governo e cittadini? Puoi usare wiki e forum online, e  avvantaggiarti dell’ubiquità della Rete per attirarvi le persone che hanno la conoscenza che serve all’azioen di governo. Avevamo la teoria. Avevamo (un po’ di) esperienza pratica. Cavalcavamo l’onda della diffusione inarrestabile di Internet. Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008, avevamo anche il primo leader globale che sosteneva questi principi, sia a parole che nei fatti. Stavamo vincendo.

Ci aspettavamo di continuare a vincere. Avevamo un vantaggio strategico: il governo aperto non richiedeva un cambiamento culturale per essere messo in pratica. L’adozione delle sue pratiche non era una rivoluzione; era più un retrofit, un innesto di nuova tecnologia senza modificare l’infrastruttura esistente. Per spingerle usavamo parole familiari alla vecchia guardia: trasparenza, accountability, partecipazione. Erano come talismani. I dirigenti pubblici non erano sempre entusiasti di ciò che facevamo, ma non potevano certo dichiararsi apertamente contro questi valori. E, quando i nostri progetti venivano realizzati, causavano il cambiamento culturale. I servitori dello stato imparavano a lavorare in ambienti aperti e collaborativi; era difficile per loro ritornare al controllo dell’informazione e al need to know. Quindi, concludevamo, questa cosa può andare solo in una direzione: verso più Internet nelle pratiche di governo, più trasparenza, partecipazione, collaborazione. Il dibattito rifletteva questa posizione, e veniva riassunto in libri come The Wiki Government  di Beth Noveck'(2009) and il mio Wikicrazia (2010).

Ora è cambiato tutto.

Me ne sono convinto leggendo due libri recenti. Uno è Smart Citizens, Smarter Governance, di Beth Noveck. L’altro è Complexity and the Art of Public Policy, di David Colander e Roland Kupers. Considero questi lavori un progresso rispetto a qualunque cosa sia stata scritta in precedenza.

Beth è un faro per chi si occupa di governo aperto. È stata tra i suoi pionieri, con un progetto che si chiama Peer2Patents. A causa di esso, il presidente Obama l’ha voluta nel suo transition team prima, e alla Casa Bianca più tardi. Ha moltissima esperienza a tutti i livelli, dalla teoria alla realizzazione a alla policy. E ha un messaggio per noi: l’open government sta fallendo. Ecco il passo più significativo:

Nonostante tutto l’entusiasmo per i benefici potenziali di una governance più aperta; il movimento open government ha avuto un impatto davvero modesto sul modo in cui prendiamo decisioni pubbliche, risolviamo problemi e allochiamo beni pubblici.

Perché? La causa immediata più importante è che le pratiche di governo sono scritte nella legge. Cambiare le leggi è difficile, e ha effettivamente bisogno di un cambiamento nella cultura dei legislatori incaricati di riformarle. La causa ultima è ciò che Beth chiama governo professionalizzato. Il ragionamento è questo:

  1. Per prendere decisioni sulla base dell’informazione disponibile, è necessario che quest’ultima sia filtrata, riaggregata, curata. Per fare questo servono esperti.
  2. Come facciamo a capire quando una persona è un esperto? Guardiamo se appartiene a una professione (medico, avvocato, biologo…). L’attività di governo è oggi completamente professionalizzata; solo il parere degli esperti è considerato utile (ma non è sempre stato così, anzi).
  3. Di conseguenza, “aprirsi significa esercitare muscoli civici che si sono atrofizzati”, e considerare i cittadini potenzialmente competenti a contribuire alla progettazione delle politiche pubbliche.
  4. Inoltre, le professioni sono esclusive per definizione. Ogni volta che prendono piede, si muovono per escludere i non-membri da quello che considerano il loro terreno. Oggi, tutte le persone importanti nei governi sono professionisti, e condividono l’idea che i cittadini comuni non hanno competenze utili. Interagendo tra loro, queste persone formano un ambiente di lavoro che rinforza questa loro convinzione. Risultato: “molti omaggi retorici all’idea di engagement, ma poca condivisione vera del potere”.

Oggi diamo per scontato che l’attività di governo sia professionalizzata. La consideriamo una specie di legge di natura. Ma non è così. Nel libro, Beth racconta in dettaglio come il governo si è professionalizzato negli Stati Uniti. All’inizio della loro storia, gli USA sono governati da agricoltori gentiluomini. L’amministrazione era guidata da un corpus di conoscenza chiamata citizen’s literature, che i servitori dello Stato imparano direttamente sul lavoro. Con il tempo, sempre più persone vengono assunte nell’amministrazione pubblica. Questo processo creato e fa crescere in numeri e potere una nuova classe di professionisti del governo – persone che non hanno mai fatto altro nella loro vita, né si aspettano di farlo. Questa classe usa il suo potere per consolidare la propria posizione, rendendo la burocrazia pubblica una professione. Codici di condotta vengono redatti. Le università creano dipartimenti di diritto e scienze sociali, luoghi di addestramento e reclutamento dei burocrati del nuovo tipo. Tutto questo accade in sintonia con un movimento di tutta la società verso la misurazione, la standardizzazione e l’ordine amministrativo.

Beth ritrae questo movimento in un affresco ricco e convincente; è una delle parti del libro che preferisco. Poi, spiega che i nuovi modi di mettere le competenze degli esperti a disposizione dei policy makers sono illegali negli Stati Uniti. Perché? A causa del Paperwork Reduction ActQuesta legge non intendeva vietare la ricerca di esperti via Internet (è del 1995), ma è scritta in modo che la formazione di comitati che consigliano il governo sia strettamente regolamentata e tecnicamente difficile. Ma perché il Paperwork Reduction Act è sembrato necessario? Il legislatore americano stava tentando di proteggere la burocrazia da interferenze e pressioni da parte di coloro che la burocrazia deve regolare. Per fare questo, ha relegato chiunque non sia un professionista del governo al ruolo di rappresentanza degli interessi. Questo vuol dire che i cittadini sono importanti non per quello che sanno, ma per chi rappresentano, per “chi li manda”. È emersa un’architettura di governo professionalizzato che protegge sé stessa, senza bisogno di un architetto.

Architetture senza architetti? Questa è complessità. Il viaggio intellettuale di Beth l’ha portata alle dinamiche dei sistemi complessi. Lei non lo scrive proprio in questi termini, ma è chiaro. Questa storia ha feedback positivi, effetti di lock-in, emergenza. Beth ha dovuto imparare a pensare in termini di sistemi complessi per navigare le politiche pubbliche. La capisco bene, perché la stessa cosa è accaduta a me. Mi sono dovuto insegnare la matematica delle reti come strumento principale per pensare la complessità. E dovevo imparare a pensare la complessità, perché mi occupavo di politiche pubbliche, e quello era l’unico modo di farle funzionare.

L’altro libro che ho citato, quello di David Colander e Roland Kupers, parte direttamente dalla scienza dei sistemi complessi. La sua domanda è: come sarebbero le politche pubbliche se fossero progettate in una prospettiva di sistemi complessi? 

Le risposte sono affascinanti. La polarizzazione “libero mercato contro stato” sparirebbe. Sparirebbe anche il predominio della scienza economica, e le politiche economiche verrebbero considerate parte delle politiche sociali. Lo stato promuoverebbe norme sociali benefiche, così che i cittadini vogliano fare scelte vantaggiose per sé e per gli altri invece di essere costretti a farle dalla legge. Le agenzie governative sarebbero fortemente interdisciplinari. Sperimentazione e reversibilità sarebbero incorporati in tutte le politiche pubbliche.

Colander e Kupers hanno scritto il loro libro senza avere letto quello di Beth, e viceversa. Ma i due libri convergono alla stessa conclusione: fare politiche pubbliche nel ventunesimo secolo è un problema di sistemi complessi. Senza un approccio basato sulla complessità, le politiche falliscono. Condivido questa conclusione. In effetti, ho cominciato a studiare scienze della complessità nel 2009. Negli ultimi quatto anni ho approfondito in particolare la scienza delle reti. L’ho fatto perché anch’io progettavo politiche pubbliche; dovevo districarmi in situazioni intricate, e il potere esplicativo del pensiero della complessità era evidente. Nei primi anni il mio percorso è stato molto solitario: oggi sono sollevato e orgoglioso di trovarmi sullo stesso sentiero di gente intelligente come Beth, Colander e Kupers.

Ma c’è ancora un pezzo mancante. Pensare in termini di sistemi complessi ci aiuta a capire perché le politiche pubbliche non funzionano. Non sono ancora convinto che ci aiuti a farle funzionare davvero. Questo tipo di scienza ha funzionato bene nelle scienze naturali. La fisica e la biologia cercano di capire la natura, non di cambiarla. Non c’è policy qui. La natura non fa errori.

Quindi, capire un fenomeno in profondità significa rispettarlo, almeno in parte. Prova a indicare un problema sociale a uno studioso di sistemi complessi, per esempio la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ti mostrerà la legge di potenza della distribuzione; lo spiegherà con una dinamica di feedback positivo, tipo success breeds success; aggiungerà che questo succede molto spesso in natura; e descriverà quanto è difficile allontanare un sistema complesso dal suo attrattore. Il pensiero della complessità funziona benissimo per individuare in anticipo politiche inefficaci e controproducenti. Per ora, non ha funzionato altrettanto bene a individuare cosa possiamo fare che, invece, sia efficace.

Gli autori di entrambi i libri hanno dei suggerimenti per i policy makers. Ma non sono particolarmente convincenti. 

La soluzione principale di Beth è una specie di database ricercabile per esperti. Un policy maker che ha bisogno di competenze potrebbe scrivere, per esempio, “open data” in un campo di ricerca, e connettersi con persone che sanno molte cose sugli open data. Questo dovrebbe funzionare bene per i problemi ben definiti, in cui il policy maker sa con certezza dove cercare una soluzione. Ma molti problemi di policy interessanti non sono affatto ben definiti. L’inquinamento atmosferico in città è un problema tecnologico? Allora dovremmo intervenire sul settore automobilistico per fargli produrre auto meno inquinanti. O è un problema di pianificazione urbana? Occorre modificare il piano regolatore, avvicinando i luoghi di lavoro a quelli di residenza per ridurre il pendolarismo. Un problema di organizzazione del lavoro, forse? Dovremmo incoraggiare i datori di lavoro a eliminare i loro uffici e dare ai dipendenti strumenti software perché possano lavorare da casa? Un momento, forse è un problema di mode: potremmo usare il marketing per rendere le biciclette più popolari. Nessuno lo sa. Probabilmente il problema è tutte queste cose, più chissà quante altre. Non è affatto chiaro a priori che tipo di esperto ti serve, tanto più che ogni mossa che fai in una delle dimensioni del problema influenzerà le altre.

Non è ancora finita, Le categorie stesse in cui raggruppare gli esperti sono socialmente determinate, e in continua trasformazione. Puoi immaginare un policy maker che cerca un esperto in  open data nel 1996? No, perché il concetto non esisteva. Il database di Beth può, oggi, aiutarci a trovare esperti in open data solo perché qualcuno ha ricombinato le componenti di ciò che oggi chiamiamo open data (tecnologie, standard, licenze etc.) in un modo nuovo, che risolveva certi problemi. Questo ha funzionato così bene che ha ricevuto un’etichetta, appunto open data, che oggi potete mettere nel vostro CV in modo che una ricerca nel database di Beth vi trovi. Quindi, la soluzione di Beth può trovare esperti di discipline già codificate, ma non quelli delle soluzioni in via di codificazione; ma sono questi ultimi quelli che contano, quelli che stanno sulla frontiera dell’innovazione.

Colander e Kupers hanno le proprie soluzioni, come racconto sopra. Sono soluzioni brillanti e sensatissime. Sono anche in netta rottura con il modo in cui il governo funziona oggi. È improbabile che emergano per caso. Chiunque abbia provato a fare innovazione in un’amministrazione pubblica sa quanto sia difficile fare passare qualunque cambiamento, anche piccolo. Come funzionerebbe la riprogettazione radicale auspicata da Colander e Kupers? Per diktat di qualche leader visionario? Possibile, ma ricorda: la modalità attuale di funzionamento della macchina governativa è emersa (“architettura senza architetti”). Entrambi i libri offrono resoconti sofisticati di questo emergere. Con tutta l’ammirazione che ho per i loro autori, mi pare incoerente che propongano, invece, una soluzione imposta dall’alto.

Quindi, dove vanno le politiche pubbliche del ventunesimo secolo? Al momento, non vedo alternative ad abbracciare il pensiero della complessità. È molto forte nell’analisi, e una volta che cominci a vedere le cose in questi termini è impossibile smettere di vederle. Inoltre, fornisce soluzioni implementabili localmente. Per esempio, in certi casi puoi convincere lo stato a fare cose coraggiose e innovative in via sperimentale, e sperare che quello che succede nell’esperimento venga imitato. Per ora, questo dovrà bastarci. Ma va bene così. L’età dell’innocenza è finita: oggi sappiamo che non c’è nessuna soluzione facile e veloce. Forse un giorno avremo soluzioni sistemiche non velleitarie: se mai ci arriveremo, è probabile che Beth Noveck, David Colander e Roland Kupers siano i primi a trovarle.

Photo credit: Cathy Davey on flickr.com

Il test di Einstein: un commento a Stefano Epifani sull’operazione Digital Champion

Con il solito garbo, Stefano Epifani ha pubblicato una riflessione sull’operazione www.digitalchampions.it messa in piedi da Riccardo Luna, e a cui (full disclaimer) partecipo anch’io. Stefano vede luci (Riccardo è consapevole del suo ruolo e si impegna sul serio) e ombre (potenziali conflitti di interesse, modello organizzativo inefficiente, competenze scarse dei singoli DC). Per valorizzare le prime e dissipare le seconde, propone un assetto alternativo per tutta l’operazione: organizzarla non per territorio, come nella visione di Riccardo (“un digital champion per ciascuno degli ottomila comuni italiani”), ma per ambito professionale.

Immaginavo invece una rete di professionisti identificati ognuno nel suo ambito di competenza che, vicini al digitale, potessero essere “campioni” del digitale rispetto alle loro rispettive attività. Avvocati per supportare gli avvocati, pensionati per i pensionati, albergatori per gli albergatori, medici per i medici, maestri per i maestri, amministratori pubblici per gli amministratori pubblici. Ogni ambito ha già i suoi “campioni digitali”. […] il modulo organizzativo sarebbe stato sviluppato per cluster, creando dei tavoli di lavoro verticali per settore (coinvolgendo associazioni di categoria, strutture datoriali, ordini professionali)

Ammiro Stefano e il suo lavoro, e in genere mi trovo d’accordo con lui. Non, però, in questo caso. Resisto alla tentazione di confutare le sue critiche: in prima battuta le trovo infondate, ma potrei sbagliarmi e comunque dalle critiche c’è sempre da imparare. Vorrei invece segnalare che non vedo come il modello che propone possa funzionare.

Perché? Semplice: perché le figure descritte nel post di Stefano ci sono già, sono al lavoro da tempo; e, almeno in alcuni casi che conosco personalmente, usano proprio la forma organizzativa dei tavoli di lavoro verticali. Penso, per esempio, a una cara amica che da tempo si impegna nell’Ordine dei Dottori Commercialisti sui temi del digitale; non vedo come potrebbe fare di più di così, anche se Riccardo o chi per lui la nominasse Digital Champion dei commercialisti. I commercialisti la conoscono già, la rispettano già, ne seguono i consigli o la ignorano, a seconda delle inclinazioni. Per un commercialista, è molto più autorevole una persona che gioca un ruolo nel consiglio nazionale dell’ordine di una che si è iscritta all’associazione Digital Champions Italia.

Intendiamoci: la mia amica e le altre persone come lei, ciascuna nel proprio ambito, giocano un ruolo positivo e importante. Non intendo affatto sminuirle. Però c’è un problema di valore aggiunto della carica di Digital Champion, che non credo sarebbe avvertibile in un modello come quello proposto da Stefano. La prova provata è che i due Digital Champion precedenti a Riccardo erano, appunto, persone che rispondevano esattamente alla descrizione di Stefano: Francesco Caio era il commissario governativo per l’agenda digitale; Agostino Ragosa il direttore dell’AGID. Quindi esperti di dominio, con un forte endorsement istituzionale. Impatto? Zero.

A mio avviso, il potenziale dell’operazione pensata da Riccardo è che mette in gioco forze fresche, e dà un nuovo ruolo a persone già attive. Guru della rete come Joy Marino assumono un ruolo iperlocale, a volte in comuni molto piccoli; nelle grandi città si formano team che mettono insieme competenze molto diverse e complementari (mi aspetto molto, per esempio, da Palermo, che schiera Umberto Di Maggio , cioè un sociologo molto impegnato sul territorio, e mi risulta stia mettendo in squadra Andrea Borruso, geomatico extraordinaire, uno dei miei civic hackers preferiti); esperti nazionali fanno un passo indietro per trasformarsi in help desk per i digital champions dei territori. Il risultato prevedibile: sindaci che vengono consigliati da pensionati; aziende che si rapportano con hacker sedicenni; ASL che dialogano con casalinghe smart e linuxare. Perché no?

Stefano Epifani ha un nome per tutto questo: lo chiama chaos, con la “h” in mezzo. Io lo vedo invece come una mossa intelligente per stimolare la creazione di nuove relazioni – e, di conseguenza, l’innovazione. Resisto alla tentazione di riscrivere il solito pippone sulle teorie dell’innovazione elaborate dagli economisti complexity a Santa Fe, basate sulle relazioni generative etc. etc. (per chi si vuole documentare, consiglio questo paper di David Lane); possiamo arrivare alla stessa conclusione in un modo intuitivo, che è questo: oggi, i leader di settore che interagiscono con i loro settore (“pensionati per i pensionati, albergatori per gli albergatori” e così via) fanno delle cose che non producono il risultato che ci auguriamo. La proposta di Stefano, quindi, fallisce quello che potremmo chiamare il test di Einstein.

Il test di Einstein si basa su una famosa citazione del grande scienziato:

È follia ripetere la stessa cosa più e più volte aspettandosi risultati diversi.

L’iniziativa Digital Champions Italia, così come l’ha pensata Riccardo, è sicuramente migliorabile, e potrebbe anche fallire. Ma rimescola le carte, mette in gioco forze fresche e non fallisce il test di Einstein.

Aggiungo una nota personale: il post di Stefano mi fa un po’ impressione anche dal punto di vista culturale. Mi sembra un po’… novecentesco: l’innovazione è una cosa seria, se ne devono occupare gli esperti di innovazione, non questi dilettanti allo sbaraglio (corollario: è possibile distinguere a priori un esperto vero da uno che non lo è, e noi sappiamo farlo. Certo, la Decca Records ha rifiutato di mettere sotto contratto i Beatles, e Yahoo si è rifiutata di acquistare Google per un milione di dollari, ma noi sicuramente non faremo questi errori). La società si organizza per sili verticali, quasi delle gilde medievali. La creatività dal basso è un misero sostituto per il lavoro professionale di un competente ingegnere sociale. Ci sono perfino accenti a rischio di snobismo (“la valanga di selfie della proclamazione-investitura rimarrà nella storia”). Per carità, ognuno ha la sua visione del mondo, ma non avevo percepito che quella di Stefano e la mia fossero così diverse.

Il mio punto di vista su Digital Champions Italia è qui (in inglese).

 

OpenPompei: cultura della trasparenza ed economia hacker per crescere in contesti difficili

Veduta di PompeiHo un nuovo incarico. Dirigerò un nuovo progetto che si chiama OpenPompei. Si tratta di un’iniziativa di Studiare Sviluppo, società in-house del Ministero dell’Economia; si inserisce nella strategia varata dal governo italiano e che interessa la Campania, e in particolare l’area di Pompei.

Il retroterra è questo: a fine 2011 il governo si convince che la battaglia per la civiltà nel Mezzogiorno si vince o perde a Pompei, che di questa battaglia è un luogo-simbolo. In tempi molto rapidi, i ministri dei beni culturali, dell’interno e della coesione territoriale montano un progetto da oltre cento milioni di euro per il recupero dei manufatti che, nel parco archeologico, erano stati danneggiati (i reperti archeologici a cielo aperto hanno bisogno di manutenzione); se lo fanno approvare dalla Commissione Europea; lo blindano con un modello di sicurezza molto avanzato che vigila che il denaro degli appalti non vada a imprese colluse con la criminalità organizzata. Nasce così il Grande Progetto Pompei.

Molto a lato di questo intervento “in forze”, il governo decide, nel 2102, di mettere in pista una piccola iniziativa di trasparenza, indagine e animazione territoriale. L’idea è del ministro Barca, e si vede: visto che si fa spesa pubblica sulla cultura in Campania e la si protegge contro infiltrazioni  criminali, vale la pena di fare un passo in più, e pubblicare i dati di spesa del Grande Progetto Pompei in formato aperto. Non è sufficiente, infatti, che la spesa pubblica sia legalmente ineccepibile: deve essere anche efficace ed efficiente. Accessibilità dei dati e discussione pubblica possono scoprire errori, suggerire miglioramenti, tenere viva l’attenzione delle amministrazioni e spingerle a fare sempre meglio.

Da questa intuizione nasce OpenPompei. Il suo mandato è volutamente ampio, fino a comprendere:

  • la promozione di una cultura di trasparenza e di dati aperti di un’area vasta, di cui Pompei è il centro simbolico. L’idea è avere una piccola squadra in grado di fornire un po’ di assistenza se un’amministrazione del mezzogiorno chiede aiuto per incamminarsi su un sentiero di apertura dei dati. Si partirà, naturalmente, dalla La Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei e dai dati del Grande Progetto.
  • una ricognizione dell’economia “hacker” del territorio. Come tutti i posti densamente popolati, la Campania è piena di co-working, nuove imprese digitali, attivisti, economia solidale, innovazione sociale, sharing economy. Come dappertutto, queste iniziative sono spesso fragili e disconnesse, ma hanno un’idea forte di futuro. L’ambizione è incontrarli, capire qualcosa di più dei loro sogni e delle loro difficoltà, se possibile aiutarli a fare sentire la loro voce nel dibattito pubblico’, senza la pretesa di risolvere tutti i problemi.

Il sogno dietro OpenPompei è di costruire un’alleanza tra civic hackers, impresa sana e Stato per tenere alta l’attenzione sulla spesa pubblica e combattere la corruzione. Non sarà un piccolo progetto a realizzare un obiettivo così alto, ma speriamo di potere dare un contributo, almeno di conoscenza.

Per garantirne l’indipendenza, OpenPompei è strutturato come progetto della Commissione Europea, e affidato a Studiare Sviluppo, società in-house del ministero dell’economia. Ho già lavorato per loro ai tempi di Visioni Urbane e di Kublai. Auguratemi in bocca al lupo, e statemi vicini, ok?