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“Salve, straniero.” Riccardo Luna nel saloon delle critiche a Digital Champions

Riassunto delle puntate precedenti. 2014: il presidente del consiglio Matteo Renzi nomina Riccardo Luna Digital Champion per l’Italia. A differenza dei suoi omologhi europei, Riccardo interpreta il suo ruolo in modo movimentista e inclusivo, e fonda un’associazione chiamata Digital Champions. 2015: a un anno dalla fondazione, l’associazione si riunisce in concomitanza con l’Italian Digital Day e fa il punto della situazione. Trova che, tutto sommato, qualcosa si muove, anche se molto, moltissimo, resta da fare.

Potrebbe essere l’occasione, se non per festeggiare, almeno per condividere un momento di soddisfazione e speranza. Ma ciò non avviene: secondo Riccardo, il successo del Digital Day ha portato alla luce alcune posizioni critiche nei confronti dell’operazione Digital Champions. Alcune di queste fanno parte del folclore della rete; argomentare costa fatica, trollare è facilissimo, quindi qualunque iniziativa o argomentazione, se abbastanza visibile, attira la sua parte di troll (e Riccardo è molto visibile). Di queste non vale nemmeno la pena parlare. Altre, però, provengono da persone intelligenti e autorevoli, come Stefano Epifani e Alfonso Fuggetta. Provo a riassumere la conversazione. La ambiento nel saloon, un po’ in omaggio al mio amico e compagno di open data Vincenzo Patruno (anche lui tra i critici intelligenti e autorevoli) e un po’ per non prendermi troppo sul serio.

Pomeriggio. Musica di Morricone. Riccardo Luna entra nel saloon.

LUNA: “Sto provando a fare un’associazione per aiutare le persone che hanno a cuore i temi del digitale ad aiutarsi a vicenda. Mi piacerebbe che ogni comune, magari ogni scuola, ogni azienda, avesse almeno una persona con l’obiettivo di fare un passo avanti, magari anche piccolo.”

SALOON: “Ben altro è il problema. Non è questo che serve al paese. Bisogna piuttosto fare XYZ.”

LUNA: “Ottimo, perché non proviamo a costruire qualcosa assieme? C’è bisogno anche del vostro talento, della vostra competenza, dico davvero. “

SALOON: “Tutta fuffa, tutto storytelling.”

LUNA: “OK, perché non provate comunque a costruire qualcosa? Sorpassateci, dimostrate con dei progetti veri che le cose si possono fare meglio. Sarò il primo ad applaudirvi.”

SALOON: “…”

Musica. Titoli di coda.

Morale. Cari avventori del saloon, si può benissimo essere in disaccordo con Riccardo – io stesso ho una visione in parte diversa dalla sua. Ma ha dalla sua una caratteristica straordinaria: non tenta mai, mai, di delegittimare o bloccare iniziative altrui. Se avete in testa un progetto o un iniziativa relativa al digitale, troverete in lui un alleato. Nella migliore delle ipotesi può aiutarvi, e molto; nella peggiore non può fare niente per voi, ma nemmeno vuole (o può) ostacolarvi.  Avete provato a cominciare con “Salve, straniero!”,  per vedere se può esservi utile, hai visto mai? Lo sapete, vero, che non c’è bisogno di essere d’accordo sui massimi sistemi per compiere un primo pezzo di strada insieme?

Il test di Einstein: un commento a Stefano Epifani sull’operazione Digital Champion

Con il solito garbo, Stefano Epifani ha pubblicato una riflessione sull’operazione www.digitalchampions.it messa in piedi da Riccardo Luna, e a cui (full disclaimer) partecipo anch’io. Stefano vede luci (Riccardo è consapevole del suo ruolo e si impegna sul serio) e ombre (potenziali conflitti di interesse, modello organizzativo inefficiente, competenze scarse dei singoli DC). Per valorizzare le prime e dissipare le seconde, propone un assetto alternativo per tutta l’operazione: organizzarla non per territorio, come nella visione di Riccardo (“un digital champion per ciascuno degli ottomila comuni italiani”), ma per ambito professionale.

Immaginavo invece una rete di professionisti identificati ognuno nel suo ambito di competenza che, vicini al digitale, potessero essere “campioni” del digitale rispetto alle loro rispettive attività. Avvocati per supportare gli avvocati, pensionati per i pensionati, albergatori per gli albergatori, medici per i medici, maestri per i maestri, amministratori pubblici per gli amministratori pubblici. Ogni ambito ha già i suoi “campioni digitali”. […] il modulo organizzativo sarebbe stato sviluppato per cluster, creando dei tavoli di lavoro verticali per settore (coinvolgendo associazioni di categoria, strutture datoriali, ordini professionali)

Ammiro Stefano e il suo lavoro, e in genere mi trovo d’accordo con lui. Non, però, in questo caso. Resisto alla tentazione di confutare le sue critiche: in prima battuta le trovo infondate, ma potrei sbagliarmi e comunque dalle critiche c’è sempre da imparare. Vorrei invece segnalare che non vedo come il modello che propone possa funzionare.

Perché? Semplice: perché le figure descritte nel post di Stefano ci sono già, sono al lavoro da tempo; e, almeno in alcuni casi che conosco personalmente, usano proprio la forma organizzativa dei tavoli di lavoro verticali. Penso, per esempio, a una cara amica che da tempo si impegna nell’Ordine dei Dottori Commercialisti sui temi del digitale; non vedo come potrebbe fare di più di così, anche se Riccardo o chi per lui la nominasse Digital Champion dei commercialisti. I commercialisti la conoscono già, la rispettano già, ne seguono i consigli o la ignorano, a seconda delle inclinazioni. Per un commercialista, è molto più autorevole una persona che gioca un ruolo nel consiglio nazionale dell’ordine di una che si è iscritta all’associazione Digital Champions Italia.

Intendiamoci: la mia amica e le altre persone come lei, ciascuna nel proprio ambito, giocano un ruolo positivo e importante. Non intendo affatto sminuirle. Però c’è un problema di valore aggiunto della carica di Digital Champion, che non credo sarebbe avvertibile in un modello come quello proposto da Stefano. La prova provata è che i due Digital Champion precedenti a Riccardo erano, appunto, persone che rispondevano esattamente alla descrizione di Stefano: Francesco Caio era il commissario governativo per l’agenda digitale; Agostino Ragosa il direttore dell’AGID. Quindi esperti di dominio, con un forte endorsement istituzionale. Impatto? Zero.

A mio avviso, il potenziale dell’operazione pensata da Riccardo è che mette in gioco forze fresche, e dà un nuovo ruolo a persone già attive. Guru della rete come Joy Marino assumono un ruolo iperlocale, a volte in comuni molto piccoli; nelle grandi città si formano team che mettono insieme competenze molto diverse e complementari (mi aspetto molto, per esempio, da Palermo, che schiera Umberto Di Maggio , cioè un sociologo molto impegnato sul territorio, e mi risulta stia mettendo in squadra Andrea Borruso, geomatico extraordinaire, uno dei miei civic hackers preferiti); esperti nazionali fanno un passo indietro per trasformarsi in help desk per i digital champions dei territori. Il risultato prevedibile: sindaci che vengono consigliati da pensionati; aziende che si rapportano con hacker sedicenni; ASL che dialogano con casalinghe smart e linuxare. Perché no?

Stefano Epifani ha un nome per tutto questo: lo chiama chaos, con la “h” in mezzo. Io lo vedo invece come una mossa intelligente per stimolare la creazione di nuove relazioni – e, di conseguenza, l’innovazione. Resisto alla tentazione di riscrivere il solito pippone sulle teorie dell’innovazione elaborate dagli economisti complexity a Santa Fe, basate sulle relazioni generative etc. etc. (per chi si vuole documentare, consiglio questo paper di David Lane); possiamo arrivare alla stessa conclusione in un modo intuitivo, che è questo: oggi, i leader di settore che interagiscono con i loro settore (“pensionati per i pensionati, albergatori per gli albergatori” e così via) fanno delle cose che non producono il risultato che ci auguriamo. La proposta di Stefano, quindi, fallisce quello che potremmo chiamare il test di Einstein.

Il test di Einstein si basa su una famosa citazione del grande scienziato:

È follia ripetere la stessa cosa più e più volte aspettandosi risultati diversi.

L’iniziativa Digital Champions Italia, così come l’ha pensata Riccardo, è sicuramente migliorabile, e potrebbe anche fallire. Ma rimescola le carte, mette in gioco forze fresche e non fallisce il test di Einstein.

Aggiungo una nota personale: il post di Stefano mi fa un po’ impressione anche dal punto di vista culturale. Mi sembra un po’… novecentesco: l’innovazione è una cosa seria, se ne devono occupare gli esperti di innovazione, non questi dilettanti allo sbaraglio (corollario: è possibile distinguere a priori un esperto vero da uno che non lo è, e noi sappiamo farlo. Certo, la Decca Records ha rifiutato di mettere sotto contratto i Beatles, e Yahoo si è rifiutata di acquistare Google per un milione di dollari, ma noi sicuramente non faremo questi errori). La società si organizza per sili verticali, quasi delle gilde medievali. La creatività dal basso è un misero sostituto per il lavoro professionale di un competente ingegnere sociale. Ci sono perfino accenti a rischio di snobismo (“la valanga di selfie della proclamazione-investitura rimarrà nella storia”). Per carità, ognuno ha la sua visione del mondo, ma non avevo percepito che quella di Stefano e la mia fossero così diverse.

Il mio punto di vista su Digital Champions Italia è qui (in inglese).