Archivio tag: European Social Innovation Prize

Cerco (altri) radicali

Diogo Vasconcelos R.I.P. Un anno fa, persone che conosco bene e stimo mi hanno chiesto di fare il giudice in una cosa che si chiama European Social Innovation Competition. È un’iniziativa della Commissione Europea; un tentativo di onorare la memoria di Diogo Vasconcelos, grande sostenitore della causa dell’innovazione sociale negli ambienti europei. Ho accettato, e imparato molto dal processo. Considero un onore che la Commissione mi abbia chiesto di servire come giudice per il secondo anno.

Come l’anno scorso, scelgo di interpretare il mio ruolo di giudice come campione di progetti radicali, nati dal pensare completamente fuori dagli schemi; e, ancora di più, di persone insolite per portare avanti quei progetti. Non è detto che un innovatore sociale debba corrispondere allo stereotipo del giovane genio “cambieremo il mondo” della Silicon Valley. Chiunque tu sia, dovunque tu sia (cittadini non-EU possono partecipare in alcuni casi), avrai il mio sostegno se hai una grande idea e ti impegni a portarla fino in fondo. Potrei non riuscire a capire fino in fondo cosa hai in mente – e certamente potrei non riuscire a convincere gli altri dieci giudici – ma prometto che non mi lascerò spaventare, non importa quanto disruptive e spaventoso sia il tuo progetto.

Si vince denaro (tre progetti vinceranno 30K euro ciascuno); mentoring; e riconoscimento. Avanti, fratelli e sorelle d’Europa, facciamo vedere al mondo che abbiamo idee per migliorare il mondo, e cuore per portarle avanti. Vi copro io. Scadenza 21 dicembre.

Aggiornamento: online la documentazione della sessione Come vincere la European Social Innovation Competition a #LOTE3.

È misurabile l’impatto delle innovazioni sociali?

Market

Ripubblico qui – per completezza di archivio – un post già comparso su CheFuturo. Al momento della pubblicazione, trovate il post originale qui, insieme a una bella discussione sui commenti.

La settimana scorsa ero a Londra per la prima riunione della giuria della European Social Innovation Competition. L’incontro si è tenuto nella sede del National Endowment for Science, Technology and the Arts; lo presiedeva Geoff Mulgan, il suo direttore. Geoff è, secondo me, uno dei policy makers più interessanti d’Europa: anche se non sempre sono d’accordo con lui, quando parla lo ascolto con la massima attenzione di cui sono capace. In questa occasione mi ha colpito molto per la sua insistenza sull’importanza di misurare l’impatto delle iniziative socialmente innovative. Rigore e misurazione quantitativa, secondo lui, sono indispensabili per spazzare via la fuffa che, in questi anni, si è incrostata sul concetto di innovazione sociale.

Sul rigore sono d’accordo. Sulla misurazione quantitativa ho molti dubbi. Gli innovatori sociali – quelli veri, quelli disruptive – vogliono cambiare la società nel profondo, quindi non ha senso valutarne gli effetti in termini della società che deve essere cambiata. Prendete, per esempio, Bitcoin (Wikipedia) – una moneta progettata in modo che nessun ente centrale possa manipolarne il valore, che protegge l’anonimato di chi la usa con tecniche crittografiche impenetrabili. Conosco personalmente alcuni dei suoi proponenti più attivi in Europa: sono persone idealiste e generose, animate dall’idea che la cosiddetta “fiat money”, la moneta creata dalle banche centrali e moltiplicata dal sistema bancario, sia irrimediabilmente difettose. C’è solo un piccolo problema: le transazioni con contante elettronico anonimo offrono opportunità per nuove forme di evasione fiscale. Bitcoin, dicono i suoi critici, ha il potenziale di colpire al cuore gli stati, distruggendone la capacità di imposizione. Quando glie lo fai notare, i partigiani di Bitcoin dicono “beh, gli stati non sono un bene in sé stessi, servono a risolvere i problemi delle persone. Se la loro esistenza ci impedisce di risolvere problemi come quello della moneta forse è ora di trovare qualcos’altro che funzioni meglio.”

Provo a tradurre: non è che queste persone siano dei rivoluzionari a prescindere. È che, per l’innovatore, lo status quo ha valore zero, e in qualche caso negativo. Egli o ella conduce la sua valutazione nei termini del mondo in cui la sua innovazione ci sarà. I valutatori professionisti, che lavorano per i governi o per fondazioni private, valutano invece in termini del mondo che abbiamo adesso, in cui essi sono classe dirigente e che non desiderano vedere cambiare più di tanto. Sono come i clienti di Henry Ford, che, a dire del grande industriale, avrebbero chiesto “cavalli più veloci” perché, semplicemente, non erano in grado di vedere la civiltà dell’automobile senza rinunciare a una parte importante della propria identità. O come l’arcivescovo di Mainz, sponsor di Gutenberg attraverso il “venture capitalist” Johann Fust, che investiva sulla stampa a caratteri mobili sulla base di un impatto (la possibilità di produrre certificati per indulgenze rapidamente e a basso costo) che è risultato, ex post, insignificante; mentre l’impatto vero (democratizzazione di lettura e scrittura, diffusione di materiale religioso etorodosso e vittoria della Riforma protestante) lo avrebbe indotto a licenziare Gutenberg e fare a pezzi la macchina. Noi consideriamo la stampa a caratteri mobili un grande passo avanti nella storia dell’umanità, ma questo è perché noi siamo figli della civiltà che quell’innovazione ha prodotto. Siamo i vincitori di quella particolare battaglia, e la storia la scriviamo noi – se non altro perché i perdenti si sono estinti.

Sto esagerando? Non credo. Molta innovazione sociale cerca di ridisegnare il welfare. Il welfare è una parte importantissima dell’identità europea: l’istruzione obbligatoria e gratuita, l’assistenza sanitaria, le misure a sostegno degli esclusi. Questa è roba politicamente esplosiva. Provate a dire, nel corso di qualunque discussione “beh, l’università di massa ci costa troppo e non funziona, sostituiamo tutto con apprendimento peer-to-peer online”: nella maggior parte dei casi questo non porterà a una discussione serena, ma a una difesa strenua dei valori (come “diritto allo studio”) che hanno ispirato la politica della scolarizzazione di massa. Voi provate a rispondere che il sistema che abbiamo non è efficace nell’affermare quei valori, e che ha senso riflettere su strade alternative: verrete trattati con sospetto e irritazione (“ci dev’essere una fregatura sotto. L’università di massa non si tocca”). Quindi il valutatore di progetti di innovazione sociale è in una posizione scomoda. Se un progetto è a basso impatto non vale la pena di sostenerlo; ma se è ad alto impatto, sostenerlo potrebbe essere pericolosissimo per la società nella quale si sta compiendo la valutazione.

Come uscirne? Una soluzione tecnica potrebbe essere separare nettamente la funzione di promozione dell’innovazione sociale da quella di controllo. In questo scenario, ci sarebbe un piccolo mondo di agenzie governative, fondazioni etc. intente a cercare di massimizzare il potenziale creativo dell’innovazione sociale, senza compromessi e senza riguardi per gli equilibri esistenti; e un “cane da guardia” che filtra gli aspetti disruptive troppo costosi in termini di stabilità. Ma probabilmente questo sistema sarebbe politicamente inaccettabile – senza contare che prevedere gli effetti disruptive è come minimo molto difficile, e come massimo impossibile anche sul piano concettuale a causa della dinamica di feedback positivo che caratterizza i processi innovativi. Nell’attesa di un’idea migliore, temo che dovremo rassegnarci a politiche di promozione dell’innovazione sociale che mandano avanti idee modeste e premiano i “soliti sospetti”, garanti di equilibri forse destinati a schiantarsi ma che non riusciamo davvero a mettere in discussione.

Buone notizie: tre innovazioni sociali da Edgeryders

Photo: silent fabrik @flickr.com

Ho imparato molto a Living On The Edge 2 – e non sono l’unico: la conferenza ha sollecitato reazioni molto positive da gente di tutti i tipi. La comunità di Edgeryders ha consolidato una facilità e un metodo nel collaborare che la rende non solo stimolante, ma anche molto produttiva. Come poche altre volte mi è capitato in passato, trovo in Edgeryders un’estrema varietà di stimoli (veniamo da venti paesi diversi, abbiamo età e percorsi diversissimi) combinata con un linguaggio comune che rende fluida l’interazione. Per esempio, a #LOTE2 documentare le sessioni è stato molto naturale: appena parte una conversazione tra più di quattro persone qualcuno apre un PiratePad, condivide il link via Twitter, e i partecipanti si mettono a prendere appunti collaborativi senza nemmeno bisogno di mettersi d’accordo. In queste condizioni non solo è più facile avere idee fresche: anche passare alla fattibilità e alla pre-realizzazione lo è.

Tra le tante cose che sono successe a #LOTE2 è che tre idee proposte da membri della comunità sono stati lavorati fino ad assumere una forma progettuale, e rese nella forma di progetti presentati poi allo European Social Innovation Prize. Ne sono particolarmente contento, perché sono uno dei giudici, ed è nostro interesse avere molte proposte di qualità tra cui scegliere. I progetti sono:

  • Social Capital for Social Ventures (SC4SV), guidata da Nadia El-Imam e Vinay Gupta. L’idea è mobilitare risorse non-monetarie per la creazione di nuova impresa sociale: “mettendo tempo e competenze specialistiche (come quelle linguistiche o di design) a disposizione di nuove imprese, prendiamo quello che abbiamo (competenze, tempo e talento) e lo usiamo per riempire i vuoti lasciati da quello che non abbiamo: accesso ai capitali. È auto-aiuto trasformato in lavoro per una generazione su cui non si investe.”
  • Edgeryders Knowledge Integration Program (EKIP), guidato da James Wallbank. L’idea è di insegnarsi a vicenda a sviluppare impresa localmente sostenibile. “Le iniziative che partecipano a EKIP [inizialmente in UK, Polonia, Germania e Italia] hanno sviluppato risposte bottom-up a problemi economici e sociali locali, e stanno costruendo modelli di business sostenibili basati sulle loro iniziative. Fattori comuni includono un uso massiccio di ICT, facilitazione di metodologie di apprendimento P2P e co-working, flessibilità alle specificità locali e indipendenza strutturale dalle grandi organizzazioni.”
  • unMonastery, guidato da Ben Vickers. L’idea è di ispirarsi alla vita monastica come template per la collaborazione e l’innovazione. “Un nuovo tipo di spazio sociale che combina il meglio degli hackerspace e degli ambienti di vita. Il suo obiettivo primario è servire la comunità locale che lo ospita.”

Sono molto orgoglioso di questo ultimo regalo del progetto Edgeryders. E sono ancora più orgoglioso che tutto questo impeto innovativo venga da un progetto di un’istituzione pubblica internazionale – il Consiglio D’Europa – che ha creduto, con coraggio e coerenza, nel suo ruolo di facilitatore e partner dei suoi cittadini più radicali e meno rappresentabili dai “riti della concertazione”. Speriamo di potere continuare in questo cammino nel 2013.