La Commissione Europea gestisce un mucchio di soldi. Solo per i progetti dedicati allo sviluppo regionale stanzia poco meno di 350 miliardi di euro nel periodo 2007-2013; per la ricerca ci sono altri 50 miliardi, e così via. Secondo molte voci critiche, queste risorse vanno prevalentemente a finanziare progetti dei “soliti sospetti”: università, grandi imprese, enti territoriali, strutture della rappresentanza come sindacati. Questi soggetti sono in grado di gestire le complessità burocratiche di montare un progetto europeo (esempio: costituirsi in consorzi internazionali con almeno X partners in almeno Y paesi, di cui almeno uno deve essere un paese di nuovo ingresso nell’Unione per aumentare le chances di successo); ma non sono necessariamente quelli che usano le risorse nel modo migliore possibile. Al contrario le grandi organizzazioni hanno in genere costi amministrativi alti, molto middle management invece che personale operativo, bassa propensione al rischio.
Piccole e piccolissime imprese, giovani imprenditori, innovatori sociali, imprese creative – che sono spesso i soggetti più interessanti, in grado di contribuire in modo sostanziale allo sviluppo dei territori e alla ricerca – rimangono quasi sempre fuori dai giochi. In genere, scoraggiati dalla cultura burocratica e formalista di questi processi, non partecipano nemmeno; e quando partecipano perdono quasi sempre. Tutto questo è noto da tempo; negli ultimi tempi, però, questi soggetti stanno facendo sentire in modo sempre più chiaro la propria voce; e l’Europa comincia a rispondere. Il video qui sopra, prodotto dai miei amici di CriticalCity Upload in risposta a una call della Commissione Europea, ne è una prova: è stato mostrato in sessione plenaria alla Digital Agenda Assembly, davanti a 1200 persone tra cui il Commissario Neelie Kroes. Chi c’era mi assicura che gli applausi sono stati molto convinti.
Con questo problema in mente, il Dipartimento Affari Regionali della Presidenza del Consiglio dei Ministri sta mettendo in piedi Opera, uno strumento per elaborare progetti europei in modalità peer-to-peer (una community aperta verrà lanciata a settembre). Uno degli aspetti più interessanti è la possibilità di ricercare possibili partners, ma anche di votarne e commentarne l’agire. I partners affidabili, veloci e collaborativi vengono segnalati dalla community — e questo aiuterà l’emersione di partenariati e progetti migliori, accrescendo in media l’impatto della spesa. Il progetto Opera è esplicitamente ispirato a Kublai, un progetto che ho contribuito a fondare nel 2008 e diretto fino a qualche mese fa. In effetti, il gruppo di Opera fa capo a Studiare Sviluppo, società in-house del Ministero dell’Economia che ha lavorato anche su Kublai. Sono contento e orgoglioso che il lavoro del mio team e mio abbia ispirato un’altra amministrazione centrale.
Kublai e Opera usano le logiche del web 2.0 per ottenere un risultato affascinante: rendere le politiche pubbliche su cui lavorano più inclusive e più efficienti al tempo stesso. La maggiore inclusività apre la porta all’ingresso di nuovi soggetti, veloci ed innovativi; e questi, conquistando una fetta delle risorse in palio, accrescono l’efficienza del sistema (non è un vantaggio marginale: CCU, incubata in Kublai, ha un costo per utente coinvolto 30 volte inferiore a quello dei progetti di e-participation europei). Non è sorprendente, perché le politiche pubbliche camminano con le gambe delle persone, e cambiando i giocatori si cambia il gioco. Resta da vedere se gli innovatori delle politiche pubbliche riusciranno a proteggere le iniziative come Opera dalle inevitabili contromosse di chi finora si è avvantaggiato dei criteri di assegnazione dei fondi europei. La distruzione creativa non piace a tutti.