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The economics of Cory Doctorow’s Makers (Italiano)

Makers è un romanzo, pubblicato nel 2009 dallo scrittore canadese di fantascienza e condirettore di Boing Boing Cory Doctorow. Parla di due imprenditori della scena DIY (quella di MAKE Magazine o della nuova rivoluzione industriale di Wired), Perry Gibbons e Lester Banks, che inventano cose nuove. Le loro invenzioni trasformano il mondo intorno a loro, non solo dal punto di vista tecnico, ma soprattutto da quello sociale ed economico. Esse fomentano la crescita di un modello organizzativo e di business fortemente decentralizzato che nel romanzo si chiama “New Work”. Me l’hanno consigliato alcuni amici physical hackers milanesi, che ho cominciato a frequentare nel 2008.

Quando ho letto il libro per la prima volta l’ho trovato profetico, nel modo in cui sa esserlo la migliore fantascienza; in più mi ha colpito quanto di esso si potesse tradurre direttamente in termini di teoria economica normalmente accettata. Dopo averci riflettuto per circa un anno sono diventato una specie di convertito (così tanto che ho partecipato a progetti basati su Arduino e ho cominciato a sperimentare con la politica economica per i makers). Allo stesso tempo, però – nel contesto di una ricerca, guidata da David Lane, a cui partecipo – ho cominciato a chiedermi se questa società dell’innovazione che stiamo cercando di costruire (almeno stando alla strategia di Lisbona e a molti documenti di politica industriale) sia poi sostenibile. Dopo tutto, se la quantità di innovazione aumenta, l’economia deve crescere a una velocità anch’essa crescente, ed è possibile che questo metta sotto stress l’ambiente naturale, o i nostri limiti umani. L’innovazione ha un lato oscuro? Quanta possiamo assorbirne senza che il sogno diventi un incubo?

Doctorow ha creato un’economia immaginaria abbastanza credibile che somiglia molto alla società dell’innovazione verso cui siamo diretti. Ho deciso di studiarla più da vicino, rileggendo il libro con gli occhi dell’economista. Makers non è stato ancora tradotto in italiano, quindi chi capisce solo la nostra lingua non può leggerlo. Per gli altri, il mio consiglio è: se vi interessano queste cose, leggetelo assolutamente. E’ una lettura stimolante e divertente.

La distruzione creativa di Schumpeter

Il motore princiale dell’economia di Makers è la teoria della distruzione creativa di Joseph Schumpeter. Viene enunciata già dal primo capitolo dal capitano d’industria Langdon Kettlewell, conferenza stampa che annuncia la fusione tra Kodak e Duracell:

Il capitalismo mangia se stesso. Il mercato funziona, e quando funziona trasforma tutto in merce low cost o obsoleta.

Alla fine della conferenza stampa, la giornalista Suzanne Church (ha fatto la giornalista economica a Detroit, occupandosi dello smantellamento dell’industria dell’auto) riflette sul senso di decadenza economica che la perseguita, perfino qui nella Silicon Valley, che in teoria dovrebbe avere incorporato il fallimento come tappa sulla strada del successo:

Era di nuovo immersa in questa atmosfera da declino industriale, con il senso di essere testimone non di un inizio, ma di un eterna fine, un ciclo di distruzione che avrebbe fatto a pezzi tutto ciò che sembrava solido e affidabile nel mondo.

Il crollo di margini e prezzi e l’obsolescenza, però, non dovrebbero essere pensati come un difetto del sistema. Tjan, il manager incaricato da Kodacell per aiutare Perry e Lester, ne è molto consapevole:

Quindi, se vuoi fare molto profitto, devi ricominciare, inventare qualcosa di nuovo, e spremerlo al massimo prima che venga imitato. Più questo succede, più tutto migliora e il suo prezzo scende. È così che siamo arrivati qui, sai? È a questo che serve il sistema.

Guerre di prezzo e equilibrio di Bertrand

Il meccanismo che controlla la distruzione nel processo schumpeteriano in Makers è fatto di intensa concorrenza di prezzo. I prodotti innovativi sono offerti a prezzo ridotto dagli imitatori, e questo permette loro di prendersi l’intero mercato.

In un buon mercato, inventi qualcosa e lo vendi al massimo prezzo che il mercato è disposto a pagarla. Qualcun altro trova un modo di farlo a prezzo più basso, o decide di accontentarsi di un margine minore […] e tu devi ridurre i prezzi per competere. Poi arriva qualcun altro che è meno avido o più efficiente di entrambi, e riduce il prezzo ancora, e ancora e ancora, finché non arrivi […] a una specie di base al di sotto della quale non puoi scendere, il prezzo minimo a cui puoi produrre senza fallire.

A parlare è Tjan, nel suo primo giorno di lavoro all’impresa di Perry e Lester; e quello che dice è una descrizione da manuale della concorrenza di Bertrand, un modello che sfrutta le guerre di prezzo come meccanismo per condurre ad un equilibrio in cui il profitto è zero.

Disoccupazione e problemi di economia del lavoro

La distruzione creativa ridispone i fattori produttivi di un sistema economico, in teoria per il meglio. Purtroppo, alcuni di questi elementi sono persone, e la riallocazione può comportare molto dolore, umiliazione e paura. Doctorow annida i problemi di economia del lavoro in profondità in Makers: la conferenza stampa di Kodacell è interrotta da una protesta di lavoratori licenziati. Nella sua prima email a Suzanne, Kettlewell pone la grande domanda sottostante al sistema:

Cosa succede quando tutto quello che sai fare non serve più a nessuno?

Alcune ricerche iniziate durante la recessione in corso gettano dubbi sulla possibilità di riqualificare grandi masse di lavoratori per adattarli ai mutati bisogni di un’economia basata sull’innovazione (New York Times). L’offerta di lavoro sembra ancora orientata a vendere ore-uomo e si aspetta di essere gestita in modo più o meno tradizionale.

L’innovazione ricombinante di Brian Arthur

Quando Suzanne arriva all’officina di Perry e Lester per vedere cosa fanno, Perry le mostra il loro metodo per inventare, che consiste essenzialmente di ricombinare tecnologia esistente in modi nuovi, come pezzi di Lego. Questo non solo è possibile, ma molto economico e concettualmente semplice, perché, come dice Perry:

Dovunque guardi ci sono aggeggi gratis che hanno tutto quello che serve per fare qualunque cosa ti venga in mente

E Lester è ancora più concreto:

Hai presente che dicono che uno scultore parte con un blocco di marmo e toglie tutto quello che non somiglia a una statua? Come se potesse vedere la statua nel blocco? Io sono così con la spazzatura. Vedo i pezzi buttati nei garages e capisco come metterli insieme

Makers accoglie la prospettiva sull’innovazione dei teorici della complessità, discussa da John Holland, Brian Arthur e altri ricercatori: fare cose nuove è soprattutto trovare nuovi modi di ricombinare tecnologia esistente, come i mattoni del Lego. Le combinazioni di successo, a loro volta, diventano mattoni, così che una tecnologia inizialmente semplice (le famose sei macchine semplici degli antichi greci) evolve verso livelli sempre più alti di sofisticazione.

L’open source e la velocità dei cicli di distruzione creativa

L’abilità di Perry e Lester di combinare le tecnologie in questo modo è enormemente accresciuta dal fatto che tutti i “pezzi del Lego” che gli servono si trovano anche in versione open source. Questo li abilita a sviluppare prototipi che funzionano da materiale disponibile sul mercato, e metterli in produzione senza preoccuparsi di acquistare licenze sui brevetti rilevanti. Questo ha due conseguenze. La prima è che, nel mondo di Makers, sono le tecnologie open source a generare più facilmente ecosistemi, perché le persone come Perry e Lester hanno tutto l’interesse a girare intorno alla tecnologia proprietaria; la seconda è che la velocità dei cicli di distruzione creativa aumenta molto.

Questa potrebbe essere l’intuizione più importante in Makers. Pensateci: a quanto pare, compriamo sempre di più per ecosistemi (Mac-iPhone-iPad-MobileMe, o Google-Android-Google Apps, or Linux-Apache-soluzioni proprietarie basate sul web di IBM); gli ecosistemi crescono più in fretta se possono appoggiarsi su elementi open source, per cui quelli open source tendono a mettere fuori mercato quelli proprietari; ma le innovazioni negli sistemi open source sono quasi impossibili da proteggere, e questo abbassa il loro margine medio perché il periodo in cui fanno profitti alti si accorcia. La soluzione, come dice Tjan (vedi sopra) e come dicono anche quasi tutti i governi, è quella di aumentare il tasso di innovazione. Questo, però solleva il problema di quanto rapidamente i consumatori possono assorbire innovazione. Chiunque usi molto il web conosce la sensazione che le aziende lancino nuovi servizi più rapidamente di quanto possiamo capire se ci servono, o ci piacciono, e qualche volta non abbiamo semplicemente tempo per studiarceli, non importa quanto siano potenzialmente interessanti. Avete presente Google Wave, no? Quindi, è possibile che la parte di distruzione della distruzione creativa prevalga, sprofondando l’economia di Makers in uno stato di bassi margini e bassa crescita economica, in cui le nuove invenzioni, quasi sempre, non riescono a trasformarsi in prodotti di successo sul mercato.

I sistemi produttivi competitivo-cooperativi di Becattini e Brusco

Perry e Lester gestiscono un’unità di business piccolissima (loro due e qualche aiutante) , per cui la loro competitività globale dipende dalla neutralità dei costi unitari rispetto al numero di unità fabbricate – in altre parole, non ci devono essere economie di scala. Infatti la loro officina in Florida è un’unità di produzione di scala efficiente. Secondo Tjan

Le industrie che ieri stavano nelle fabbriche oggi stanno nei garage

Naturalmente, non si può sfuggire al fatto che molte cose sono a buon mercato proprio perché la loro produzione sfrutta le economie di scala. Il trucco è che la produzione dei componenti tende ad essere soggetta a rilevanti economie di scala, ma gli artefatti di cui Perry e Lester si interessano no. In questo scenario, i sistemi produttivi più competitivi sono quelli che combinano l’agilità della disintegrazione orizzontale e verticale con costi di transazione bassi, fiducia reciproca tra gli attori economici e trasparenza informativa. La disintegrazione verticale permette alle imprese di crescere là dove ci sono economie di scala da sfruttare (componenti, chips di silicio); la disintegrazione orizzontale aumenta la concorrenza nel mercato dei prodotti finiti (anche se qualunque produttore si affermi finirà per comprare i componenti da un numero limitato di fornitori – e questo permette di risparmiare i costi di ricollocare la forza lavoro e la capacità produttiva quando un produttore guadagna forti quote di mercato); i costi di transazione bassi permettono a aziende “produttive” verticalmente disintegrate come quella di Perry e Lester
(che fanno poi soprattutto R&S e business development) di costruire rapidamente reti ad hoc di fornitori e partners.

I modelli di distretto industriale di Sebastiano Brusco e Giacomo Becattini hanno proprio queste caratteristiche (come, con sfumatore diverse, i lavori di ricercatori come Charles Sabel, Michael Piore e Annalee Saxenian). In Makers i bassi costi di transazione sono progettati dall’alto attraverso una grande azienda, Kodacell, che si dà una struttura a rete: in Brusco e Becattini, invece, emergono dal basso attraverso convenzioni che evolvono e effetti reputazione in un territorio relativamente piccolo. Così, quando Lester inventa Home Aware, si può costruire un ecosistema con le “squadre” di Kodacell:

Ci sono dieci squadre che fanno organizzazione degli armadi nella rete, e diversi spedizionieri, traslocatori ed esperti di immagazzinamento. Qualche azienda di arredamento […] Il piano è di iniziare a vendere attraverso i consulenti contemporaneamente all’esposizione del prodotto nelle fiere del mobile e dell’arredamento.

Il Living Lab della Commissione Europea

Dopo un incendio alla baraccopoli vicina alla fabbrica, Perry decide di permettere ai suoi abitanti di ricostruire le loro case provvisorie nella fabbrica Kodacell (che prima era un centro commerciale abbandonato), molto grande e in gran parte inutilizzata. Kettlewell cerca di convincerlo a mandarli via. Perry tiene duro: lui, Lester e Tjan stanno comunque pensando di inventare qualcosa per gli homeless.

Abbiamo costruito un Living Lab sulla soglia di casa per esplorare una grande opportunità di mercato per produrre tecnologia sostenibile e a basso costo per un segmento importante della popolazione, quello che non ha un indirizzo fisso. Ci sono milioni di squatters americani e miliardi di squatters nel mondo. Hanno soldi da spendere, e nessuno sta cercando di farseli dare.

Nel mondo reale i Living Labs sono un concetto esplorato dalla Commissione Europea nel contesto della politica dell’innovazione. L’idea è di sostituire i test di gradimento dei nuovi prodotti con test su scala molto più ampia e molto più realistici, resi possibili da reti dense di attori economici che collaborano su uno stesso territorio. La baraccopoli “domestica” di Perry diventerebbe così un modello in scala del mercato degli squatters: Kodacell può inventare un prodotto e collaudarlo rapidamente e a costi bassi su veri consumatori che spendono soldi veri. Ancora più importante, può reclutare gli stessi squatters per aiutarla a identificarei bisogni e progettare i prodotti. E lo fa: questo è il ruolo del leader della baraccopoli, Francis, che collabora strettamente con Perry e Lester per inventare i nuovi prodotti.

Il paradosso di Arrow e il valore delle invenzioni

Il fiasco del New Work è annunciato da una crisi di fiducia degli investitori in Kodacell. Parte del problema è che gli analisti faticano a capire come valutare le invenzioni, che stanno diventando una parte importante del valore delle azioni di Kodacell (l’altra parte è la difficoltà di trovare imprenditori bravi). Kodacell ha lanciato molti nuovi prodotti, e ha rendimenti alti su progetti piccoli. Quanti di questi progetti scaleranno e diventeranno prodotti di grande successo? Kettlewell:

Certo, se guardi [i nostri bilanci] dal nostro punto di vista, sono grandiosi. Se li guardi dal punto di vista di Wall Street, siamo nella m****. Gli analisti non riescono a capire come devono valutarci.

Questa è un’altra versione del famoso paradosso di Kenneth Arrow: i mercati per le informazioni in genere non funzionano bene perché, per stimare con precisione il valore di qualcosa devi sapere tutto ciò che la riguarda. Ma l’informazione, naturalmente, non ha valore di mercato per chi la conosce già. Le invenzioni, essenzialmente, sono informazione: finché non sono sul mercato e hanno percorso la curva di diffusione, è difficile capire quanto valgono davvero.

Il crollo del New Work e lo slittamento nelle preferenze dei consumatori

All’inizio della parte 2 di Makers il movimento New Work è finito. Un crollo in borsa ha distrutto il modello di business di Kodacell, che era stato imitato da altre grandi aziende come Westinghouse (che ha assunto Tjan, strappandolo a Kodacell). Il risultato è che il movimento è morto. Perry e Lester, ancora nel loro centro commerciale abbandonato in Florida, costruiscono “the ride” (difficile da tradurre: è una specie di parco a tema-otto volante- memoriale del New Work), che sarà il centro del resto del libro. Il fiasco del New Work è una delle parti meno convincenti del libro dal punto di vista di un economista: a parte il problema già menzionato di attribuire un valore di mercato alle invenzioni, non si capisce che cosa possa avere provocato più di una fluttuazione di breve termine. Kettlewell:

Gli analisti non riuscivano a capire come valutarci. Aggiungici un po’ di caos sul mercato, un po’ di gente che ha voluto pareggiare vecchi conti […] è già un miracolo che abbiamo resistito così a lungo.

In seguito a questi eventi, i consumatori smettono di comprare i beni prodotti dalle aziende New Work, il che è ancora meno convincente. Come dice Perry:

Le invenzioni non interessano più a nessuno.

Non c’è nessuna ragione ovvia per cui questo dovrebbe succedere. La seconda invenzione di Perry e Lester, Home Aware, ha avuto un grande successo, vendendo un milione di esemplari in sei settimane. In una situazione del genere, se il produttore originale esce dal mercato, in genere altre aziende prendono il suo posto per servire ed espandere la clientela esistente. Dopo il crash delle dotcom nel 2000 i consumatori hanno aumentato la loro domanda dei servizi online che trovavano utili, senza preoccuparsi troppo degli indici di borsa. Yahoo, Google, Amazon hanno continuato a esistere e prosperare, nei rispettivi mercati di sbocco se non sui listini. Ho dato uno sguardo alle serie storiche degli indici NASDAQ e delle vendite tramite e-commerce in America nel periodo 1999-2009, e la correlazione è sostanzialmente inesistente (addirittura negativa), come vedete dal grafico seguente:

Quindi: la società dell’innovazione in Makers è sostenibile?

Le domande sulla sostenibilità sono difficili. Più volte gli scienziati hanno predetto catastrofi suscitando grandi clamori nell’opinione pubblica, che ha rovato queste predizioni convincenti. Da Malthus al Club di Roma e al Millennium Bug, ci siamo sempre cascati: sembra che abbiamo una predisposizione a sottovalutare la capacità di adattamento della società e dell’economia (cambiamenti culturali riducono il tasso di fertilità, l’aumento dei prezzi dell’energia aumenta l’efficienza energetica del PIL e così via). La catastrofe ci sembra in qualche modo convincente: forse è solo un’eredità del nostro passato preistorico, o forse è un mito culturale molto radicato (Apocalisse, Ragnarok ecc.). Certamente, questo suggerisce molta, molta cautela nel fare predizioni in questo senso.

L’economia del New Work è almeno plausibile; la parte meno plausibile è proprio quella della sua fine. Mi sarei aspettato uno sviluppo del tipo: Kodacell e Westinghouse incoraggiano lo spinoff delle loro unità New Work, o le vendono ad aziende più agili e con meno costi fissi. Questo rende economica anche la struttura organizzativa e finanziaria a rete che era stata il vantaggio competitivo di queste grandi aziende per gente come Perry e Lester. Dopo tutto, la storia dell’open source mostra già con chiarezza che non è necessaria una grande organizzazione per coordinare attività complesse. Il libro, però, ha un finale decisamente pessimista: la grande azienda malvagia ha vinto la battaglia contro il movimento The Ride, e ha assunto Lester, neutralizzando il suo potenziale innovativo; Perry è diventato una specie di tecnico errante, solo e impoverito. Doctorow l’economista sembra sostenere l’idea di società dell’innovazione, ma Doctorow l’autore certamente no. Mi chiedo quale dei due Doctorow, alla fine, avrà avuto ragione.

The economics of Cory Doctorow’s Makers

Makers is a novel, published in 2009 by Canadian science fiction author and Boing Boing co-editor Cory Doctorow. It deals with two entrepreneurs from the DIY scene (think MAKE Magazine, or Wired’s New Industrial Revolution), Perry Gibson and Lester Banks, inventing new things. Their inventions transform the world around them, not so much from a technical as from a social and economic point of view. They give rise to a highly decentralized organization and business model called “New Work” in the fictional context of the novel. I was referred to it by friends in the Italian physical hacking scene, which I started hanging out with in 2008.

When I first read the book I found it very prophetic, in the way that the best science fiction can be; also, I was stricken by how much of it translated pretty directly into widely accepted economic theory. After musing on it for about a year, I have become a convert (so much that I have participated in Arduino-based projects and started out experimenting with economic policy for makers). At the same time, though – in the context of some research that I am involved with – I have started to ask myself if the “innovation society” we seem to be trying to build (witness the Lisbon Strategy and innumerable policy documents) is indeed sustainable. Increasing quantities of innovation, after all, sort of implies the economy growing at an increasing rate, and this is likely to have straining side effects on the natural environment or even our own human limitations. Does innovation have a dark side? How much of can we take without descending into dystopia?

Doctorow has created a pretty believable fictional economy which seems to be, in some sense, the innovation society we are heading for. So I decided to study it more closely: that is, re-read the book with an economist’s eyes, to zero in on the economics of what’s going on in there.

Schumpeter’s creative destruction

The main economic engine in the world of Makers is Joseph Schumpeter’s theory of creative destruction. It is laid out straight from chapter one by CEO Langdon Kettlewell in the press conference to announce the Kodak-Duracell merger:

Capitalism is eating itself. The market works, and when it works it commodifies or obsoletes everything.

At the end of the press conference, reporter Suzanne Church – who used to be an economic journalist in Detroit, and as such covered the demise of the car ecosystem – muses about being haunted by decay, even in the Silicon Valley, which was supposed to have incorporated failure as just a step on the road to ultimate success:

Now she was back in that old rustbelt funk, with the feeling that she was witness not to a beginning, but to a perpetual ending, a cycle of destruction that would tear down everything solid and reliable in the world.

Commodification and obsolescence, however, should be thought as a feature, not a bug. It is, in fact the way capitalism produces abundance. Tjan, the business manager Kodacell brings in to help Perry and Lester, is well aware of this:

So, if you want to make a big profit, you’ve got to start over again, invent something new, and milk it for all you can before the first imitator shows up. The more this happens, the better and cheaper everything gets. It’s how we got here, you see. It’s what the system is for.

Price wars and Bertrand equilibrium

The mechanism that drives the “destruction” part of creative destruction in Makers is cut-throat price competition. Innovative products are undercut by imitators, who scoop up the entire market thanks to lower prices. The process is iterated until the price reaches cost (including an acceptable remuneration of risk and capital):

In a good market, you invent something and charge all the market will bear for it. Someone else figures out how to do it cheaper, or decides they can do it for a slimmer margin […] and so you have to drop your prices to compete. Then someone comes along who’s less greedy or more efficient than both of you and undercuts you again, and again and again, until eventually you get down to […] a baseline that you can’t get lower than, the cheapest you can produce and stay in business.

This is Tjan speaking on his first night at the Perry – Lester venture. To an economist, he is giving a texbook rendition of Bertrand competition, a price war leading to a zero-profit equilibrium.

Unemployment and labor economics issues

Creative destruction rearranges production factors in the economic system, supposedly for the good. Unfortunately, some of these elements are people, and rearranging may involve a lot of pain, humiliation and fear. Doctorow embeds labour economics issues deep into the novel: the Kodacell press conference is interrupted by a protest of laid off staffers. Kettlewell’s first email to Suzanne asks the big question looming underneath Makers:

What happens when all the things you are good at are no good to anyone anymore?

Research initiated at the beginning of the current recession has cast doubts about the possibility to successfully mass-retrain a laid-off workforce to adjust to the changing needs of an innovation economy (New York Times). Labour supply seems still oriented to selling man-hours and expecting to be managed in a more or less traditionally Tayloristic way.

Brian Arthur’s building-block innovation

When Suzanne reaches Perry and Lester’s den to be shown what it is they do, Perry demonstrates their method to technical innovation. Basically, it consists of recombining existing technology in new ways. This is not only possible, but dirt cheap and fundamentally easy, because, in Perry’s words

Everywhere you look there’s devices for free that have everything you need to make anything do anything.

And Lester is even more concrete:

You know how they say a sculptor starts with a block of marble and chips away everything that doesn’t look like a statue? Like he can see the statue in the block? I get like that with garbage: I see the pieces on the heaps and in roadside trash, and I can just see how it can go together.

Makers subscribes to the complexity theory’ view on innovation, as discussed by John Holland, Brian Arthur and other researchers: making new things is (mostly) about finding new ways to recombine existing building blocks. Successful combinations become, in their turn, new blocks, so that an initially simple technology (the famous six simple machines of the ancient greeks) bootstraps to increasing levels of sophistication.

Open source and the speed of creative destruction

Perry and Lester’s ability to combine technological building blocks is greatly enhanced by the fact that anything important to them can be performed by open source technologies. This enables them to develop working prototypes from off-the-shelf equipment and software and put them into a manufacturing pipeline without worrying about licensing issues. This has two consequences: first, in the world of Makers ecosystems develop preferably around open source technology, because people like Perry and Lester have every incentive to route around proprietary technology; second, that the speed of the creative destruction cycle is greatly increased.

I think this may be the most important intuition Makers has to offer. Just think: we increasingly buy in ecosystem (Mac-iPhone-iPad-MobileMe, or Google-Android-Google Apps, or Linux-Apache-IBM’s proprietary web solutions); ecosystems grow faster if they can build on open source building blocks, so that the open source ones tend to outcompete the proprietary ones in the long run; but innovations in open source ecosystems are almost impossible to protect, and that lowers their average margin as the highly profitable grace period gets shorter. The solution, as Tjan suggests (see above) and most policy makers worldwides agree, is to increase the pace of innovation. This, however, raises the question of just how fast consumers can wrap their head around innovation: every heavy web user is familiar with the sensation that companies are putting out new services faster than we can absorb them, and sometimes we just have no time for them, no matter how cool they are. Google Wave, anyone? So, it could be that the destruction side of creative destruction prevails, landing the economy of Makers into a state of low margins and low growth, as more inventions fail to turn into more successful products on the market.

Becattini and Brusco’s competitive-cooperative manufacturing systems

Perry and Lester run a very small business unit (themselves and a few helpers), so their global competitiveness depends on the neutrality of unit costs with respect to production volume – in other words, no economies of scale. In fact Perry and Lester’s Florida junkyard is a scale-efficient production unit. In Tjan’s words

Every industry that required a factory yesterday requires a garage today.

Of course, it’s hard to get away from the fact that a lot of the cheapness in the system comes from exploiting economies of scale. The trick is that component manufacturing is scale-intensive, but the artifacts that Perry and Lester are interested in, being assemblies of such components, have a much lower minimum efficient production scale. In such a scenario, manufacturing systems most fit to compete are those that combine the agility of horizontal and vertical disintegration with low transaction costs, mutual trust and informational transparence. Vertical disintegration lets firms grow large where there are economies of scale to be exploited (components, silicon chips); horizontal disintegration enhances competition in the finished goods market (even though whichever manufacturers will win out in any given period of time will still buy components from the same handful of suppliers, therefore saving on the costs of reallocation of workers and manufacturing capacity); low transaction costs enable vertically disintegrated “manufacturing“ units like Perry and Lester’s (mostly R&D and business development, really) to build ad hoc networks of suppliers fast. In other words, New Work displays both tough competition and cooperation over and above formalized contracts.

Sebastiano Brusco and Giacomo Becattini’s model of industrial districts display just these characteristics (as, with different nuances, the work of researchers as Charles Sabel, Michael Piore and Annalee Saxenian). In Makers the low transaction costs part is implemented top-down through networked company Kodacell rather than, as in Brusco and Becattini, bottom-up through evolving conventions and reputation effects in a small territory, home to all the forms involved. So, when Lester invents Home Aware, an ecosystem can be summoned out of Kodacell’s decentralized “teams” structure. Tjan explains:

There are ten teams that do closet organizing in the network, and a bunch of shippers, packers, movers and storage experts. A few furniture companies. […] The plan is to start our sales through the consultants at the same time as we start showing at trade shows for furniture companies.

The European Commission’s Living Lab

After a fire at a shantytown near the factory, Perry decides to let the inhabitants rebuild it on Kodacell premises (formerly a junkyard), which is largely unused. Kettlewell tries to get him to oust them. Perry holds his ground: he, Lester and Tjan had been meaning to invent something for the homeless people anyway.

We’ve built a living lab on our doorstep for exploring an enormous market opportunity to provide low-cost, sustainable technology for use by a substantial segment of the population who have no fixed address. There are millions of American squatters and billions of squatters worldwide. They have money to spend and no one else is trying to get it from them.

In the real word, Living Labs are a concept explored by the European Commission in the context of innovation policy. The idea is to replace consumer tests of new products with much larger scale, more realistic tests made possible a dense network of many actors collaborating on the same territory. Perry’s in-house shantytown would become a toy universe to model the squatters market: Kodacell can invent something and run a market test with limited costs and in a short time, but also real consumers spending real money. More importantly, it can recruit squatters themselves to participate in identifying needs and designing the products. And in fact it does: this is the role of the shantytown leader, Francis, who collaborates closely with Perry and Lester to think up new products.

Arrow’s Paradox and the value of invention

New Work’s downfall is heralded by an investor confidence crisis in Kodacell. Part of the problem is that analysts have a hard time figuring out how to value inventions, that are becoming an important part of Kodacell’s market value (the other part is inherent scarcity of genuine entrepreneurship). Kodacell ends up with a lot of novel products, with high returns on small projects. How many of these projects are going to scale to be large hits? Kettlewell:

Sure, if you looked at [our numbers] our way, they were great. If you looked at them the Street looks at them, we were in deep §#1t. Analysts couldn’t figure out how to value us.

This is yet another version of Kenneth Arrow’s famous paradox: markets for information typically don’t work well, because, in order to estimate precisely the value of something you need to know all about it. But information, of course, has no market value for you if you know it already. Invention is essentially information: until it is on the market and has climbed the diffusion curve, it is quite difficult to value it.

The New Work bust and the shift in consumer preferences

When part 2 of Makers opens, the New Work movement is over. A stock market bust has shattered the Kodacell business model, which had been promptly imitated by other large companies such as Westinghouse (who recruited Tjan off Kodacell). As a result, the movement is dead. Perry and Lester, still in their junkyard in Florida, start “the ride”, a sort of smart theme park-memorial of New Work, which is to be the subject of the rest of the book. The New Work fiasco is one of the least convincing parts of the book from an economist’s point of view: save for the aforementioned value of invention issue, it is hard to make out anything that would provoke more than a short-term market fluctuation. Kettlewell:

Analysts couldn’t figure out how to value us. Add a little market chaos and some old score-settling @##holes […] and it’s a wonder we lasted as long as we did.

Even less convincing is the ensuing consumer disaffection for the goods that New Work had produced. In Perry’s words:

No one cares about invention anymore.

There is no obvious reason why this should happen. The second Perry-Lester invention, Home Aware, has been very successful, shipping a million units in six weeks. One would think that, even if the company originally producing it went bust, a competitor would step in to service and expand the existing customer base. After the 2000 dotcom bust consumers actually increased their use of the online services that they found useful, undaunted by their association with dotcoms. Yahoo, Google, Amazon and the like continued to prosper in their respective markets, if not in the stock market. I looked at time series data for NASDAQ and e-commerce sales over the period 1999-2009; the correlation between them is practically nonexistent (negative, in fact), as you can see from the following graph:

So, is the innovation society sustainable in Makers?

Sustainability questions are tricky. Time and again, scientists have made doomsday predictions that went viral as public opinion found them really convincing, but later turned out to be way off the mark. From Malthus to the Club of Rome and the Millennium Bug, we seem to have a bias towards underestimating the adaptability of our society and its economy (cultural change makes the birth rate drop, raising prices of oil increase the energy efficiency of GDP and so on). Doomsday feels right at some level: it may just be a heritage of our Neolithic past, or a very deeply ingrained cultural myth (Apocalypse, Ragnarok etc.). Certainly that suggests a lot of caution in predicting it.

The economics of New Work are at least plausible; its downfall is the least plausible of its features. I was expecting something like Kodacell and Westinghouse spinning off their New Work branches, or selling them to more nimble, lower overhead companies that would commodify the networked organization and finance that the giant companies have to offer. The history of open source has already shown that you don’t really need a large company to achieve coordination, after all. The book, however, ends on a deeply pessimistic note: the large evil company has won the battle against the ride movement and recruited Lester, neutralizing his innovative potential; Perry has become a sort of wandering troubleshooter, lonely and poor. Doctorow the economist seems to be supportive of the innovation society, but Doctorow the author definitely is not. I wonder – really wonder – which if the two Doctorows will be right in the end.

Lies, damned lies and infographics: implications for open data policies

Sorry, this post in Italian only.

Come molti altri, sto cercando di farmi un’idea sulla morte del web profetizzata da Wired. Se mi viene in mente qualcosa di sensato da dire in merito lo farò. Per ora la cosa che mi sembra più urgente è lanciare un “allarme infografiche”.

L’articolo di cui tutto il morituro web sta discutendo si apre con una bellissima infografica colorata in perfetto stile Wired (questa qui a sinistra), in cui si vede bene che la quota del traffico internet (cioè pacchetti di dati TCP/IP) attribuibile al web è in calo: da questo calo parte la discussione. A questo punto, Rob Beschizza su Boing Boing ha provato a ridisegnare il grafico partendo dagli stessi dati (la fonte è Cisco) ma in valore assoluto, tenendo conto che il traffico web si è moltiplicato per un fattore centomila dal 1996 al 2005, e il traffico Internet si è moltiplicato per un fattore sette dal 2006 al 2010. Il risultato è che il web non solo cresce, ma cresce a una velocità crescente. Il grafico è risultato così:

Oltretutto, diversi commentatori hanno osservato che misurare l’uso di internet in consumo di banda, invece che – diciamo – in tempo di fruizione sopravvaluta l’importanza degli usi multimedia (video e VOIP) rispetto a quelli basati sul testo (email).  Tutta la discussione di Anderson assume un sapore completamente diverso: è comunque intelligente e argomentata, ma perde l’aura profetica, e anzi sembra un po’ una roba furbetta e vagamente interessata.

Non saprei dire se il web è morto o meno, ma sono abbastanza sicuro che è il momento di farsi qualche domanda seria sulla visualizzazione dell’informazione. Negli ultimi anni si è lavorato molto su questo tema, a partire dal presupposto – corretto – che l’evoluzione ci ha dotato di un cervello molto veloce nell’elaborare gli stimoli visivi.  Un grafico a torta comunica in modo molto più immediato di una tabella o, Dio non voglia, di un’equazione. A partire da questa considerazione uno dei miei eroi, il pioniere dei computers Douglas Englelbart, finì per concepire i computers come macchine con cui comunicare tramite un’interfaccia grafica. Le infografiche sono una punta avanzata di questo movimento, metà informazione, metà arte.

Ma forse l’elaborazione più lenta ha anche un vantaggio: ci permette di prendere un po’ di confidenza con il dato, di esaminarlo con un minimo di distanza critica. L’immagine, ancora di più del dato, ha un potere seduttivo che può essere strumentalizzato, e spesso lo è. Nel campo specifico degli open data, cioè dell’apertura e diffusione delle basi dati delle autorità pubbliche, Daniel McQuillan (tra gli altri) ha avuto modo di commentare che la visualizzazione, proprio per questo motivo, finisce per non dare trazione alle comunità.

Alle tre categorie di menzogne di Sir Charles Dilke — bugie, maledette bugie e statistiche — se ne potrebbe aggiungere una quarta, quella delle infografiche: che sarebbero poi menzogne al quadrato, perché già si basano su dati “massaggiati” (la scelta di Wired di usare quote di banda anziché valori assoluti secondo me è furbetta, scandalistica e in definitiva in contrasto con la deontologia dei giornalisti)  e ad essi aggiungono la seduzione delle immagini e del colore. Vabbeh, direte voi, è Wired, mica l’American Economic Review, serve a fare un po’ di chiacchiere al prossimo aperitivo. Mica tanto, perché l’argomento trattato è politicamente molto carico, e vengono dichiarati vincitori Jobs, Zuckerberg e i sostenitori degli ecosistemi chiusi. Se noi ci comportiamo come se la previsione fosse vera, contrinbuiremo a farla avverare, comprando iPad e apps. L’orientamento “leggero” dell’opinione pubblica non è privo di conseguenze, come si vede bene nella politica italiana.

Conclusione 1: come al solito, non ci sono pranzi gratis. L’abilità del cervello nell’elaborare stimoli grafici lo rende anche più vulnerabile ai tentativi di influenzare questa elaborazione. Conclusione 2: se qualcuno vuole convincervi di qualcosa, e a sostegno delle sue conclusioni tira fuori una grigia, brutta tabella in bianco e nero è probabile che abbia in mano qualcosa: se tira fuori una bella infografica professionale e colorata, beh, meglio stare in guardia. E tenere d’occhio il portafoglio.