Tag Archives: Wired

Figuring out money to understand the world

It had to happen, sooner or later: money and finance are the most highly visible among the many topics of interest to economists. Since I am an economist, and easily accessible through this blog and my social media presence, Wired’s Fabio Deotto asked me for a comment on a piece of financial news: apparently Facebook is considering bringing Credits, the virtual currency used for buying Facebook apps, to the wider world as a universal means of payment. Is it possible to leverage Facebook’s 500+ million users to launch a new global currency and revolutionize the world of finance?

In the best tradition of economics, my answer was that the question is wrong, for many reasons: there are already dozens of virtual currencies that work quite well but did not revolutionize anything; currencies need to be aggressively backed by reserves and open market operations, or they’ll depreciate; credit card companies have already in place globally accepted virtual money operations with many more users than Facebook — only in the USA there were 1.3 billion credit cards in 2006 (the full article, in Italian, is here. But the real answer is that I know nothing about finance, so I recommended that Fabio talk to a real money expert.

This made me realize that not knowing anything about finance is a bad idea for an economist as of 2010. The rising tide of social innovation contains a lot of financial innovation: just think of internet-based microlending agency Kiva; of Italian “community lending” platform Del community lending dell’italiana Prestiamoci; of crowdfunding services for the arts; of Solidarity Purchasing Groups, another Italian invention (yes, Italians, seem to be right on the frontier of social financial innovation). My conclusion: time to go back to studying money. Money is difficult, counterintuitive: its hard to figure out just what it is and where it draws its magical powers to get us the things we need. Can anybody suggest a book to start from? Rigorous, but starting from the basics, ideally with a historic approach? I tried reading Niall ferguson’s The Ascent of Money, but that’s maybe not advanced enough. Thanks in advance for any suggestions you might pass along!

La lunga marcia di CriticalCity (e alcune considerazioni di sistema)

Il progetto CriticalCity è molto vicino al mio cuore: incubato in Kublai, vincitore del Kublai Award 2009, ho l’onore di servire nel suo advisory board. Dunque sono stato felicissimo quando il CEO Augusto Pirovano mi ha dato la bella notizia: Fondazione Cariplo ha accettato di finanziare il suo progetto Upload, la “versione aumentata” di CriticalCity, concepita dai ragazzi l’anno scorso in una lunga sessione di lavoro con il gruppo di SF0 a San Francisco. Il progetto vale 300mila euro su due anni; la Fondazione lo cofinanzia al 70%. Per ora ha stanziato il contributo per la prima annualità (110mila euro); sembra disposta a erogare i rimanenti 90mila l’anno prossimo, se la performance del progetto sarà soddisfacente. Si tratta del finanziamento maggiore deciso in questa tornata.

Consumati i festeggiamenti, mi resta da fare alcune considerazioni sull’ambiente in cui CriticalCity – come qualunque nuova idea di impresa – è riuscita a compiere il difficile passaggio da idea a impresa.

Primo. Il percorso è troppo lungo. CriticalCity è in pista da tre anni e mezzo; ha iniziato il percorso di Kublai un anno e nove mesi fa; ha messo a punto l’idea di Upload da un anno. In tutto questo tempo, naturalmente, il progetto non ha prodotto un euro di ricavi, ed è stata molto forte la tentazione di buttare tutto alle ortiche e mettersi a cercare un lavoro qualsiasi. I ragazzi sono stremati: hanno tenuto duro, ma questo non era scontato. Fare un’impresa richiede sacrifici, siamo d’accordo, ma per la società non è un bene che questi sacrifici siano così tanti.

Secondo. Il processo di selezione dei progetti della Fondazione Cariplo è efficiente e trasparente, strutturato in modo da attirare molti buoni progetti ed elevarne la qualità in itinere, senza burocratismi inutili. Quando scade il bando? Non scade, quando sei pronto ci mandi il progetto, ogni qualche mese ci riuniamo e valutiamo i progetti che sono arrivati nel frattempo. Quanto sono grandi i progetti che finanziate? I progetti sono tutti diversi, quello che vogliamo vedere è congruità tra le attività da finanziare, gli obiettivi e il budget. Ah, e non buttarti a scrivere cinquanta pagine: mandaci una pagina e mezzo per email, poi ti chiamiamo noi, fissiamo un appuntamento e ti diamo qualche indicazione per aggiustare il tiro (Augusto è stato chiamato il giorno stesso in cui ha inviato il preprogetto di Upload!). Mi risulta che il modello di valutazione Cariplo sia considerato il più avanzato in Italia, e che la Fondazione per il Sud lo stia studiando per adattarlo al proprio mandato.

Terzo. Non bisogna sopravvalutare il ruolo del venture capital in un sistema per l’innovazione. Naturalmente il venture capital ci vuole e come. Solo che non è adatto a tutte le idee innovative, ma solo a quelle in grado di generare profitti in un orizzonte breve o medio – il che purtroppo esclude molte idee veramente visionarie e generative di ecosistemi, come Internet stessa che infatti è un progetto governativo. Nel percorso di CriticalCity il venture capital italiano ha giocato un ruolo – mi dispiace dirlo – peggio che inutile. Non tanto perché non vi abbiano investito: anzi, hanno fatto bene, perché avrebbero dovuto investire in un progetto not for profit? E del resto, Augusto e compagni, molto consapevoli che CC è un’idea profondamente non profit, non glie l’hanno neppure chiesto. Il problema è stato piuttosto che a TechGarage 2009 diversi VC nostrani si sono impegnati pubblicamente a finanziare CC anche a fondo perduto. Molto pubblicamente: vi consiglio il video, davvero impressionante.

Nòva 24 ci fece la prima pagina, con i Critical sorridenti. A quel punto, però, il percorso si è fatto poco chiaro: sì, vi finanziamo a prescindere, però fate una srl, facciamo non profit ma lasciamoci aperta la porta al for profit. Nel frattempo preparate un piano finanziario, riscrivete il business plan, non ci siamo ancora…

Questo ha generato confusione e fatto perdere molto tempo ai ragazzi: nell’autunno del 2009, come era prevedibile, si è capito che non è il mestiere dei VC investire in progetti non profit, e non è sicuramente il loro mestiere lavorare direttamente sul cuore delle idee di impresa, che devono invece essere espressione degli imprenditori. Uno a uno, i VC hanno ritirato il loro sostegno a CriticalCity. Purtroppo di questo passaggio i media e i blogger che si occupano di innovazione non hanno parlato: e invece è importante, perchè è una storia istruttiva per i creativi e gli imprenditori che hanno un’idea nel cuore, e per i VC stessi. La sua morale è che non tutti i canali di finanziamento vanno bene per tutti i progetti, e che il mondo delle startup, al di là della retorica, non serve a fare innovazione, ma serve a fare soldi in fretta attraverso l’innovazione. Che va benissimo, ma è diverso.

Ho cambiato idea su Wired Italia

Sono abbonato a Wired e vivo in Italia. A inizio 2009, quando la rivista ha lanciato l’edizione italiana mi è venuto naturale comprare i primi numeri con curiosità e simpatia.

Però non mi convinceva. Gli articoli tradotti dall’edizione americana erano in genere belli, ma li avevo già letti mesi prima. E la parte della rivista fatta in Italia mi sembrava un po’ troppo leggera, troppo concentrata sul lifestyle. Della Wired originale mi piaceva l’orgoglio geek, la noncuranza anche un po’ arrogante con cui si attaccavano argomenti anche complicati (dalla teoria dei grafi alla genomica o lala crittografia), l’insistenza sul do-it-yourself. L’edizione italiana mi sembrava interpretare quella cultura in un modo un po’ fatuo, un po’ modaiolo, stando accuratamente lontani dalle cose che molti trovano difficili e noiose, ma su cui i geeks invece riversano un’attenzione spasmodica. Della Wired originale mi rimanevano i riferimenti a Star Trek e i gadget per feticisti, ma non il nucleo di scienza dura, che invece, per me, distingue quella rivista dal mare delle altre. Si vedeva bene dalla pubblicità: la rivista americana è piena di trapani e attrezzature per il bricolage, quella italiana di auto e moda. Ne uscivano stereotipi sgradevoli ma, ahimé, plausibili: gente del fare gli americani, consumatori narcisisti e inetti gli italiani. C’è da stupirsi se ho continuato a comprare la Wired americana?

Dopo un anno, però, mi devo ricredere. Wired Italia ha trovato una chiave, che mi sembra essere quella della militanza. Più o meno dall’autunno 2009 in poi la rivista ha promosso in modo sempre più aggressivo l’Italia della conoscenza: ricercatori, tecnologi, imprenditori visionari. Nel fare questo tocca corde profonde nella storia economica del nostro paese: la saga dell’italiano dall’inventiva genialoide e le mani d’oro ci è familiare fin dal Rinascimento, e storie come quella del piccolo imprenditore che inventa una tecnologia per portare la banda larga low cost con ponti radio ricordano gli articoli che il mio indimenticato maestro, Sebastiano Brusco, scriveva negli anni 90 per Il Sole 24 ore. Le storie italiane sono sempre di più (tre articoli importanti e diversi più brevi nel numero di marzo), e aumentano le infografiche dense di dati e contenuto. E soprattutto, la rivista ha dato il via ad una discussione globale candidando internet al premio Nobel per la pace (più militante di così…). La pubblicità continua a essere prevalentemente lifestyle, ma non si può avere tutto.

Quella di Wired Italia è un’operazione  ideologica, ovviamente. Ma va bene così, perché la rivista promuove la nostra ideologia, quella che dice: l’innovazione, la conoscenza, la condivisione, l’esplorazione delle infinite possibilità che ci stanno di fronte sono un bene in sè. Come tutte le ideologie, questa non è negoziabile, non importa cosa ne pensi la maggioranza silenziosa. Sento Wired molto vicina a questo atteggiamento, e quindi mi ci ritrovo. E la compro, e la leggo volentieri.

Quindi faccio ammenda. Give credit where credit is due: Wired Italia è una rivista interessante, e nel mercato italiano ha un senso profondo, anche identitario se volete: fatti i dovuti distinguo, svolge il ruolo del Manifesto degli anni 80, o di Vie Nuove degli anni 50. Quando la vedi sbucare da una messenger bag, sai che hai davanti una persona che, almeno, ti risparmierà i soliti luoghi comuni su Internet piena di pedofili. Di questi tempi e in questo paese non è poco.