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The road to the unMonastery: three low-cost moves towards becoming a smart community (Italiano)

photo: @nikoncolucci ©

Il tempio shinto Ise-jingū, in Giappone, ha funzionato ininterrottamente per milletrecento anni. Eppure, quando i monaci del tempio hanno chiesto che UNESCO, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite, lo includesse nella sua lista di siti patrimonio dell’umanità, UNESCO ha rifiutato. Motivo: Ise-jingū è fatto di legno, un materiale non molto durevole. Ogni vent’anni circa, i monaci distruggono il tempio e lo ricostruiscono usando legno proveniente dallo stesso bosco da cui proveniva il materiale originale. Dal loro punto di vista, il tempio ha, in effetti, milletrecento anni – ma è costruito con materiale rinnovabile. Le linee guida di UNESCO, però, guardavano in tutt’altra direzione: in un sito patrimonio dell’umanità sono gli artefatti (come gli edifici o le strade) che devono essere antichi. La stabilità dei processi, invece, non era menzionata.

Questa storia è stata raccontata nel 2008 da Clay Shirky, che su di essa basa un’intuizione fulminante. Traduco qui le sue parole:

Wikipedia è un tempio shinto. Esiste non in quanto edificio, ma in quanto atto d’amore. Come il tempio di Ise, Wikipedia esiste perché c’è un numero sufficiente di persone che la amano, e, cosa più importante, si amano nel contesto che essa fornisce. Questo non significa che le persone che la costruiscono siano sempre d’accordo, ma amare qualcuno non preclude l’essere in disaccordo con lui.

Shirky ha ragione. Wikipedia – come tutte le comunità online – è un processo sociale. Se le persone che vi partecipano perdono la motivazione a parteciparvi, queste comunità si disintegrano quasi immediatamente.

Ho ripensato molto a queste considerazioni nel contesto del dibattito sulle smart cities. E ho capito questo: esse non sono vere solo per le comunità online, ma anche per quelle fisiche, come le città. Una città non è le sue strade, i suoi palazzi, la sua infrastruttura fisica. Una città è tutte queste cose, più il sapere locale che consente di mantenere, adattare, evolvere, migliorare la sua infrastruttura. Di questi due elementi, quello fondante è il sapere locale. Se esso è intatto, una città distrutta da un cataclisma può essere ricostruita e mantenere la propria identità; ma se il sapere locale scompare, il tempo e l’incuria abbatteranno i palazzi, interromperanno le vie di comunicazione, disperderanno la popolazione. Quindi, la città – qualunque città – è soprattutto software. E le componenti di questo software risiedono nei cervelli dei suoi cittadini. La città, alla fine, siamo noi che ci viviamo. UNESCO ha raggiunto la stessa conclusione, e ha finito per accogliere Ise-jingū tra i siti patrimonio dell’umanità.

Con queste idee che mi girano in testa, da qualche mese provo a collaborare con una città che amo molto, Matera, che si è candidata ad essere capitale europea della cultura nel 2019. Una candidatura consiste in un iter formale: immagino sia  possibile compierlo come un adempimento burocratico, una specie di “lista della spesa” di cui man mano spunti le caselle. Matera, però, ha un approccio più interessante: quello di usare la scusa della candidatura per riflettere sulla direzione che la città vuole prendere nel medio e lungo termine, indipendentemente dal fatto che venga effettivamente scelta come capitale europea della cultura oppure no. Cioè, alla fine, per aggiornare il software di Matera.

La città si avvale di un pool di esperti di alto profilo, ma nessun esperto, per quanto bravo, può essere più efficace dello sforzo combinato dei seicentomila cittadini lucani (e dei tanti non lucani che, come me, amano Matera e la Basilicata). Più si riesce a mobilitare la riserva di informazioni, competenza e passione dei cittadini, e più il percorso futuro della città sarà creativo, intelligente, sostenibile. Tra tante azioni a sostegno della candidatura, la città sta provando a fare tre mosse anche in questa direzione. Sono piccole e poco costose, ma secondo me significative.

La prima è una community online aperta con il mandato di arricchire il lavoro di preparazione del dossier di candidatura. In una prima fase si cerca di fare scouting, incoraggiando i materani che hanno esperienze o punti di vista interessanti a condividerli (esempio). Questo serve a scoprire le tante cose creative e interessanti che sempre, dappertutto, i cittadini fanno e le istituzioni non conoscono. Nella seconda fase, gli esperti professionali produrranno proposte (per esempio, in merito al concept della candidatura), e le discuteranno con i cittadini online. Il patto sociale del sito di community è di collaborazione costruttiva: tutti ci impegniamo per una discussione del livello più alto possibile. Per le piazzate, il narcisismo o il cinismo a buon mercato c’è sempre Facebook. Il sito di community – animato da uno straordinario web team di giovani volontari – non è ancora stato presentato, ma funziona già – bel segnale: le cose prima si fanno, poi se c’è tempo si tagliano anche i nastri.

La seconda mossa è una politica di open data. Il rilascio di dati pubblici in formato aperto è un tema caldo in tutta Italia, e può contare su un piccolo ma combattivo pezzo di società civile che lo difende con passione. Rilasciare dati di buona qualità significa investire nell’intelligenza collettiva dei cittadini, che hanno bisogno di buone informazioni per fornire buoni contributi alle decisioni pubbliche. A gennaio, un drappello di civic hackers lucani e non lucani ha fatto a Matera un regalo: una giornata di ricognizione sullo stato dei database del Comune, che ha portato a individuare un percorso possibile verso un primo rilascio di dati già nel 2013. In questo percorso, Comune e società civile camminano insieme.

La terza mossa è la più radicale: realizzare a Matera il primo unMonastery. Trainato da un gruppo fondatore prevalentemente nordeuropeo guidato da Ben Vickers, un londinese di 27 anni, unMonastery si ispira alla vita monastica del decimo secolo per incoraggiare forme radicali di collaborazione e innovazione: una specie di ordine mendicante laico per una società in grado di reggere meglio alle crisi di sistema presenti e future. Il senso è questo: nell’Europa della crisi – ma anche della diffusione della cultura hacker, in cui unMonastery è figlio legittimo – ci sono molti giovani scolarizzati, connessi e generosi. Aspirano al cambiamento di sistema, e non si sentono a loro agio né nelle istituzioni né nelle imprese; per loro innovazione non vuol dire inventare un nuovo gadget, ma attaccare i problemi di fondo di espansione dell’autonomia dell’individuo, giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Hanno percorsi che a molti di noi sembrano rischiosi e poco comprensibili (Ben si è pagato gli studi vendendo armi e armature magiche conquistate in un gioco online, poi lavorando in una delle prime società di data mining); sono tecnologicamente avanzati, idealisti e quasi sempre poveri. UnMonastery fa loro la stessa offerta dei monasteri antichi: un letto, tre pasti al giorno, e tempo per pensare e realizzare le proprie idee. Matera ci aggiunge una cosa che i non-monaci, trovano irresistibile: un’interfaccia con una comunità locale che vuole crescere e ha alcuni problemi da affrontare.

La scommessa di questa collaborazione è che, vivendo fianco a fianco, hackers e materani scoprano ed esplorino insieme nuove strade per rendere la città più bella, vivibile, sostenibile e low cost. Possiamo inventare sistemi (parzialmente) bottom-up per l’igiene urbana e la raccolta dei rifiuti? Cosa si può imparare facendo reverse engineering delle antiche tecnologie di raccolta dell’acqua piovana, in uso a Matera fino all’Ottocento? Come si risolve il problema di spostare cose e persone nei Sassi, dove ci sono più scalinate che strade, riducendo l’uso dell’auto privata?

Le imprese, finora, non hanno risolto questi problemi (anzi, hanno contribuito a crearli – basti pensare all’industria dell’automobile). Non possono permetterselo: hanno il dovere di fare profitti, e questo significa percorrere solo strade che conducono a flussi di reddito in tempi brevi e ragionevolmente prevedibili. I cittadini e i loro ospiti non-monaci non hanno questi problemi, e possono permettersi di esplorare soluzioni anche molto visionarie, e semplicemente scartarle se si rivelano non praticabili. Risultato: molti più tentativi, molti più fallimenti… ma, con ogni probabilità, più successi. Se poi si scopre qualche soluzione che può diventare un’impresa, beh, perché no? L’incubatore di Sviluppo Basilicata è, letteralmente, il vicino di cortile del futuro unMonastery. Saranno lieti di dare una mano.

È ancora presto per trarre conclusioni, ma Matera sembra avere l’attitudine di una smart city, nel mio senso preferito del termine: punta sulla decentralizzazione del sapere e delle decisioni, crea spazio e promuove la creatività di tutti i soggetti. Lo si è visto con il lancio di unMonastery, un bellissimo incontro tra hackers e città (Ben, commosso, ha parlato del “dono di Matera all’unMonastery”); anche le critiche al progetto (in parte giuste, secondo me) indicano una relazione sana e costruttiva.

La strada è lunga, e tutte queste mosse potrebbero benissimo fallire: ma siamo partiti bene. Buon viaggio a Matera e ai “suoi” non-monaci!

Se vuoi diventare unMonasterian leggi qui.

Disrupting learning III: scende in campo Clay Shirky

Sono da parecchi anni un lettore attento di Clay Shirky. Lo considero un pensatore profondo e originale, e ho imparato molto da lui. Il suo ultimo post è, come sempre, chiaro e coraggioso: ma, per la prima volta, non mi ha colto di sorpresa.

Shirky – che di mestiere fa il professore universitario – si occupa per la prima volta di come Internet impatta l’istruzione superiore; coglie l’occasione del lancio di Udacity e Coursera (“i Napster dell’istruzione”) per spiegare come quelli che chiama MOOCs (Massive Open Online Courses) hanno già cambiato il panorama del mondo accademico, anche se lo schianto non si è ancora fatto sentire.

C’è poco da dire. Sono d’accordo con tutto: che i corsi funzionano mediamente bene, quando non addirittura molto bene (qui c’è la mia prova su strada della Khan Academy); che scalano magnificamente, e che non minacciano le grandi università ma mettono a rischio quelle di provincia (qui trovate un resoconto della mia esperienza con Coursera – sto preparando proprio adesso l’esame finale – alla fine trovate le riflessioni su Harvard vs. Università di Camerino). Avevo perfino usato il parallelo tra istruzione e industria musicale (un anno fa). Shirky scrive meglio di me ed è più lucido, come al solito; al di là di questo, la differenza principale è che io sono uno studente, mentre lui vede l’accademia dall’interno e può fare una previsione sul come reagirà al cambiamento. Ed è questa:

rischiamo di essere gli ultimi ad ammettere che il nostro mondo è cambiato.

Come scalano le conversazioni online, e perché questo è importante per le politiche pubbliche

Ho a cuore le politiche pubbliche, e cerco di contribuire al loro miglioramento. Sto esplorando l’Internet sociale come strumento per collegare i cittadini tra loro e alle istituzioni, analizzare i problemi di governance, progettarne soluzioni e realizzarle – il tutto in modo decentralizzato. Ho scritto un libro per mostrare che è stato fatto, e argomentare che si dovrebbe farlo più spesso.

Non è una discussione facile. Molti decisori rimangono scettici: cosa ci garantisce che la discussione online converga verso un consenso basato su argomenti razionali e dati empirici? Un ristretto numero di persone con un metodo di lavoro comune possono formare un gruppo efficace, ma grandi masse di cittadini diversi tra loro e autoselezionati sono destinate a crollare sotto il peso di controversie, trolling e puro e semplice sovraccarico informativo. Abbiamo esempi di casi in cui questo non è successo, ma non abbiamo una teoria a guidarci nella progettazione di ambienti per la conversazione che producano i risultati voluti. Non è abbastanza.

Recentemente ho fatto un po’ di ricerche che potrebbero aprire uno spiraglio. Si tratta di un’analisi di rete della conversazione su Edgeryders. L’ho scritta in inglese – la trovate qui sotto. Per chi non legge l’inglese ma fosse interessato: non esitare a metterti in contatto con me, è facile trovarmi in rete (basta anche lasciare un commento qui). Nel video qui sopra (anch’esso in inglese) si trova un’analisi più dettagliata dei dati e una visualizzazione carina della crescita della rete.

How online conversations scale, and why this matters for public policies

I care about public policies, and try to contribute to their betterment. The road I am exploring is to take advantage of the social Internet to connect citizens among themselves and with government institutions to assess governance problems, design solutions and implement them – all in a decentralized fashion. I wrote a book to show it has been done, and to argue for it to be done more.

But it remains a tough sell. Many decision makers remain skeptical: why should online conversations converge onto evidence-based consensus? A few people who share a common work method can make an effective group, but a large number of very diverse and self-selected citizens – what I have been arguing for – is likely to collapse under the weight of trolling, controversy and sheer information overload. We have examples in which this did not happen: but we don’t have a theory to guide us in designing conversation environment which produce the desired results. Not good enough.

Some work I have been doing recently might provide a lead. As the director of Edgeryders, I marveled at the uncanny ability of that community to process complex problems – as I had done many times before in my years as a participant to online conversations. But this time I had access to the database, and – together with my colleagues at the Council of Europe and the Dragon Trainer project – I used it to reconstruct a full model of the Edgeryders conversation as a network. The network works like this:

  • users are modeled as nodes in the network
  • comments are modeled as edges in the network
  • an edge from Alice to Bob is created every time Alice comments a post or a comment by Bob
  • edges are weighted: if Alice writes 3 comments to Bob’s content an edge of weight 3 is created connecting Alice to Bob

I looked at the growth over time of the Edgeryders network as defined above, by taking nine snapshots at 30 days intervals, working backwards from July 17th 2012. For each snapshot I looked at four parameters:

  1. number of connected components (“islands” in the network)
  2. Louvain modularity of the network. This parameter identifies the network’s subcommunities and computes the difference between its subcommunities structure and what you would expect in a random network. Modularity can take any value between 0 and 1: higher values indicate a topology that is unlikely to emerge by chance, so they are the signature that some force is giving the network its actual shape; low values mean that the breakdown into subcommunities is weak, and could well have emerged by chance.
  3. for modularity values indicating significance (above 0.4), the number of subcommunities in which the network is broken down by the Louvain algorithm

These indicators for Edgeryders agree that there is no partitioning in the network. All active members are connected in one giant component, whose modularity values stay consistently low (around 0.3-0.2) throughout the period analyzed. This is not surprising: my team at Edgeryders had clear instructions to engage all newcomers into the conversation, commenting their work (and therefore connecting them to the giant component). From a network perspective, the job of the team was exactly to connect every user to the rest of the community, and this means compressing modularity.

Next, I looked at the induced conversation, the network of comments that were not by nor directed towards members of the Edgeryders team. It includes conversations that the Council of Europe got “for free”, without involving paid staff – and in a sense the most diverse, and therefore the most interesting. To do this, I dropped from the network the nodes representing myself and the other team members and recomputed the four parameters above. Results:

  • there is a significant number of “active singletons”, active nodes that are only talking to the team members, but not to each other. This might indicate a user life cycle effect: when a new user becomes active, she is first engaged by a member of the paid team, who tries to facilitate her connection to the rest of the community (by making introductions etc. My team has specific instructions to do this). The percentage of active singletons decreases over time, from about 10% to less than 5%.
  • not counting active singletons, there are several components in the induced conversation network. A giant component emerges in February; from that moment on, the number of components is roughly constant.
  • the modularity of the induced conversation network (excluding singletons) is high throughout the observation period (over 0.5),
  • the modularity of the giant component is also high throughout the period (over 0.5). Interestingly, modularity grows in the November-April period, indicating self-organization of the giant component. In February it crosses the 0.4 significance threshold
  • the number of subcommunities in which the Louvain algorithm partitions the giant component also grows over time, from 3 in April to 11 in July

The Edgeryders induced conversation network

Subcommunities are color coded. Knowing Edgeryders and being part of its community (and having access to non-anonymized data), I can easily see that some of those subcommunities correspond to subjects of conversation. For example, the yellow group in the upper part of the graph is involved in a web of conversation about the Occupy movement and how to build and share a pool of common resources. Also, looking at the growth of the graph over time, subcommunities seem to grow sequentially more than simultaneaneously. This might be related to the management structure of Edgeryders: we launched campaigns (roughly one every four weeks) to explore broad issues that have to do with the transition of youth to adulthood. Examples of issues are employment/income generation and learning. So, an interpretation could be this: each campaign summoned users interested in the campaign’s issue. These users connected to each other in clusters of conversation, and some of them act as “bridges” across the different cluster, giving rise to a connected, yet highly modular structure. The video above has some nice visualizations of the network’s growth and of the most relevant metrics.

This looks very much like parallel computing (except this computer is made of humans), and could be the engine of scalability. As more people join, online conversation does not necessarily become unmanageable: it could self-organize into clusters of conversation, increasing its ability to process a certain issue from many angles at the same time. Also, this interpretation is consistent with the idea that such an outcome can be helped by appropriate community management techniques.

Ten years ago, Clay Shirky warned us that communities don’t scale. He was right, by his own definition of community – which is what in network terms is called a clique, a structure in which everybody is connected to everybody else. I would argue, however, his definition is not the most appropriate to online communities. Communities do scale, by self-organizing into structures of tight clusters only weakly connected to each other.

If we could generalize what happens in Egderyders, the implications for online policies would be significant. It would mean we can attack almost any problem by throwing an online community at it; and that we can effectively tune how smart our governance is by recruiting more citizens. appropriately connected, into it. We at the Dragon Trainer project are following this line of investigation and developing tools for data-powered online community management. If you care about this issue too, you are welcome to join us onto the Dragon Trainer Google Group; if you want to play with Edgeryders data, you can find them on our Github repository.

Coming soon: posts about conversation diversity and community sustainability based on the same data.