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Disrupting learning III: scende in campo Clay Shirky

Sono da parecchi anni un lettore attento di Clay Shirky. Lo considero un pensatore profondo e originale, e ho imparato molto da lui. Il suo ultimo post è, come sempre, chiaro e coraggioso: ma, per la prima volta, non mi ha colto di sorpresa.

Shirky – che di mestiere fa il professore universitario – si occupa per la prima volta di come Internet impatta l’istruzione superiore; coglie l’occasione del lancio di Udacity e Coursera (“i Napster dell’istruzione”) per spiegare come quelli che chiama MOOCs (Massive Open Online Courses) hanno già cambiato il panorama del mondo accademico, anche se lo schianto non si è ancora fatto sentire.

C’è poco da dire. Sono d’accordo con tutto: che i corsi funzionano mediamente bene, quando non addirittura molto bene (qui c’è la mia prova su strada della Khan Academy); che scalano magnificamente, e che non minacciano le grandi università ma mettono a rischio quelle di provincia (qui trovate un resoconto della mia esperienza con Coursera – sto preparando proprio adesso l’esame finale – alla fine trovate le riflessioni su Harvard vs. Università di Camerino). Avevo perfino usato il parallelo tra istruzione e industria musicale (un anno fa). Shirky scrive meglio di me ed è più lucido, come al solito; al di là di questo, la differenza principale è che io sono uno studente, mentre lui vede l’accademia dall’interno e può fare una previsione sul come reagirà al cambiamento. Ed è questa:

rischiamo di essere gli ultimi ad ammettere che il nostro mondo è cambiato.

Disrupting learning II – La resa dei conti

Internet – sia in quanto tecnologia che in quanto vettore di una cultura della condivisione – ha reso disponibili alternative credibili all’istruzione tradizionale, basata sull’aula scolastica e universitaria. In quasi tutte queste alternative, le lezioni vengono spostate su video, con vantaggi evidenti: il bottone per mettere il prof in pausa, la risistemazione in pacchetti da 6-20 minuti e la possibilità di assistervi da qualunque luogo e a qualunque ora. Inoltre il luogo dell’apprendimento non è tanto la lezione, quanto l’interazione peer-to-peer tra studenti, attraverso forum, wiki, liste Twitter, gruppi Facebook e così via, spesso auto-organizzati dagli studenti stessi. Tutto questo non è una novità: io stesso ne parlavo un anno fa su questo blog, e più recentemente su Che Futuro.

La novità (almeno per me) è che la disruption dell’istruzione è avvenuta in un anno invece che in dieci. In agosto mi sono iscritto a un corso di Social Network Analysis offerto da Coursera, un’impresa sociale fondata da due professori di informatica di Stanford che si associa con le università per fornire corsi liberi e gratuiti di qualunque materia. Lo tiene una giovane insegnante di University of Michigan che si chiama Lada Adamic: senz’altro una ricercatrice di valore, ma non un nome famoso come Duncan Watts o Fernando Vega-Redondo. Il corso è iniziato lunedì: ho già visto i video previsti per questa prima settimana e fatto i compiti (estrarre la mia rete Facebook e farne un’analisi). Mi sembra che funzioni tutto benissimo: gli studenti sono evidentemente collaborativi ed entusiasti. Molti sono anche già competenti sul tema, e fanno il corso più per conoscere nuove persone interessate all’analisi delle reti sociali. I forum sono pieni di progetti e di idee (qui c’è il mio post): ce n’è anche uno dedicato ai gruppi di studio, dove nei primi due giorni sono stati lanciati gruppi dedicati a studenti di tutto il mondo, dalla Svezia al Vietnam (ne ho contati 38, ce n’è anche uno in italiano).

Ma quanti sono gli studenti? Ho chiesto a Lada: si sono iscritti 55.000 studenti. Per fare un paragone, l’Università Statale di Milano, tutta, ne ha 57.000! Come sempre in Internet, molte persone si registrano ma poi non partecipano. A ieri, 11.000 studenti avevano visto il video della prima lezione. Ma anche se solo un decimo degli iscritti facesse veramente il corso, sarebbe un risultato straordinario: una classe planetaria, con migliaia di studenti di tutto il mondo (e di tutte le età, mi pare) che si contagiano gli uni gli altri con il loro entusiasmo e la loro voglia di fare – visto che gli svogliati, semplicemente, non si iscrivono. Il corso assegna compiti da fare: li presenti caricandoli sul sito in forma di files .txt, in modo che possano essere valutati non da Lada e dai suoi assistenti (come farebbero, con 50.000 studenti?), ma da un programma di computer. E alla fine, Coursera ti rilascia un certificato, con tanto di voto (il voto è la media dei voti degli otto compiti migliori).

Non tutto è perfetto. La struttura dei forum così anni 90 non mi convince; non è chiaro come usare il wiki del corso; c’è un po’ di confusione, con studenti diversi che usano i forum interni, Facebook, Twitter e perfino Skype, per cui molte interazioni potenzialmente preziose vanno perse. Ma questi sono problemi non troppo difficili da correggere, e sono largamente compensati dall’energia e dalla disponibilità di migliaia di persone che condividono con me la passione per l’argomento e il desiderio di padroneggiarlo meglio. Credetemi, è un motivatore formidabile.

In un certo senso è un ritorno a un approccio non industriale all’istruzione, cioè all’universitas studiorum del Medioevo: studiosi erranti, che inseguivano il loro desiderio di conoscenza imparando gli uni dagli altri. La differenza, però – oltre che nei numeri – è nella straordinaria permeabilità tra la condizione di studente e quella di praticante, molto adatta a un mondo in cui la spinta a fondare nuove imprese knowledge-intensive è sempre più forte. Invece di investire tre-cinque anni in istruzione a tempo pieno puoi imparare le cose mentre le fai, passando e ripassando da corsi come questo al lavoro sul campo e viceversa. Gratis. E con i tuoi tempi, e soprattutto in un modo che ti consente di incontrare persone con cui puoi lavorare e sviluppare nuovi progetti.

Siamo alla resa dei conti. A questo punto mi chiedo cosa ne sarà dell’istruzione tradizionale. Il suo ultimo baluardo è la laurea: il “pezzo di carta” che certifica che sappiamo fare una certa cosa. Ma anche questo verrà presto colonizzato dalle strutture come Coursera o edX del MIT. Una previsione ragionevole: dal prossimo anno accademico uno studente, poniamo, di Nocera Umbra, potrà scegliere tra un un percorso online che vi dà una laurea di un’università prestigiosa come Harvard o il MIT e una laurea tradizionale dell’Università di Camerino (con tutto il rispetto, si intende). Cosa farà? Cosa fareste voi? Cosa consigliereste ai vostri figli?

Racconto, divinazione, perdono: le mie abilità più importanti e come le ho imparate

Ho scritto questo post come una missione di Edgeryders sul come si impara. L’idea è di fare una specie di test sull’istruzione: quali sono le nostre abilità più importanti? E dove, come le impariamo? In teoria io dovrei dirigere Edgeryders, non giocarci, ma questa missione era così intrigante che non ho resistito. Se volete vedere come altri rispondono alla stessa domanda, guardate qui.

Sono un lavoratore delle conoscenza. Passo la maggior parte del mio tempo a interagire (per lo più online) con altri umani per produrre e manipolare informazione, e trasformarla in conoscenza. Quindi, in prima approssimazione, le abilità che uso ogni giorno sono leggere, scrivere, sintetizzare, ricercercare informazioni. Uso molto l’inglese, occasionalmente il francese. Leggo e scrivo budgets e contratti. In qualche caso uso la matematica (teoria dei giochi, teoria del grafi o calcolo differenziale o algebra lineare standard) per decodificare un modello teorico. Ma questo non dice molto: è solo un elenco di attività, non un modello di ciò che faccio. Credo che possa essere riassunto in tre “abilità composite”, i miei strumenti di lavoro più preziosi.

La prima è raccontare. Le scienze cognitive ci dicono che noi umani pensiamo in termini di storie, e risolviamo le incertezze collegate al fatto che viviamo in un mondo in rapido cambiamento immaginandoci come personaggi di una storia (presa da un repertorio abbastanza piccolo di storie archetipiche, tipo “lo straniero cavalca in città, risolve il problema e riparte al tramonto”). Immagina di dovere decidere tra un percorso professionale sicuro, magari un po’ noioso, e uno più rischioso, ma che può avere un impatto sociale rilevante. Calcolare probabilità è impossibile: semplicemente non puoi soppesare tutto ciò che potrebbe succedere lungo i due percorsi. Ma sai che sei come Neo in Matrix, e Morpheus è lì che ti guarda con in mano una pillola rossa e una blu, e a quel punto la scelta è ovvia. Sei l’Eletto, questo è il tuo percorso, e non c’è altro da dire.

L’abilità di raccontare consente di indirizzare la tua carriera e la tua vita. Per esempio, rende possibile il fundraising: a meno che tu non faccia cose standardizzate, per cui la decisione di acquisto è semplice, otterrai risorse per i tuoi progetti quando i tuoi finanziatori riconosceranno una storia, e il loro ruolo in quella storia è di aiutarti. Un mio vecchio progetto, Kublai, si basava fortemente sulla narrativa dello “Stato buono”, che usciva dalle mura del castello per lavorare insieme ai suoi cittadini e non contro di loro. Questa storia ha avuto, credo, una parte importante nella decisione del Ministero di affidarmi la responsabilità del progetto, e in quella di tanti creativi italiani di collaborare. Oggi cerco di costruire narrative su tutte le cose importanti che faccio: i progetti professionali, ma anche quelli personali come andare a vivere all’estero.

Chiamerò la seconda abilità divinazione. Con questa parola denoto un atteggiamento che combina analisi formale con un atteggiamento umile, attento a non sopravvalutare il ruolo di singole persone o organizzazioni nell’infuenzare gli eventi. Quasi tutte le persone che consideriamo potenti sentono invece di avere poca presa, di essere nelle mani delle organizzazioni che, in teoria, dovrebbero dirigere, o semplicemente di eventi esterni, incontrollabili e imprevedibili. Quindi, divinazione per me significa cercare le cause profonde delle cose, e le forze con cui mi voglio allineare, alla base della società, nelle innumerevoli interazioni in cui ci impegnamo ogni giorno, e non al suo vertice. Questa abilità consente l’analisi disincantata: quando la possiedi, non ti illudi che, se solo il ministro o il presidente cambiasse idea, tutto sarebbe diverso. In più, ti fa scartare le teorie della cospirazione e ti libera dal bisogno di trovare capri espiatori (i politici, le banche, i media).

La terza abilità è il perdono. Con questo intendo l’accettazione profonda che non ha senso spingere le persone a conformarsi a qualche standard: le persone sono quelle che sono, ed è più costruttivo capire cosa sanno fare bene e organizzare le attività in funzione di questo piuttosto che piegare loro per adattarle alle attività (che in genere è comunque impossibile). Anni fa ho lavorato con un giovane che era matto. Non intendo solo dire che è eccentrico: a un certo punto è stato ospedalizzato di autorità e messo sotto psicofarmaci, in seguito a una diagnosi psichiatrica piuttosto pesante. Eppure, questa persona è un collega brillante nel tipo di progetti in cui tendo a essere coinvolto. Lavora moltissimo, e con entusiasmo. È un grande connettore. Ha sempre tempo per tutti, e tende a stare online 16 ore al giorno. Attenzione: non è brillante nonostante la sua condizione psichiatrica. È brillante a causa di essa. È un ossessivo, e se incanali la sua ossessione diventa una persona felice, realizzata e ammirata per i suoi risultati. Non è bravo in tutto, ma del resto questo vale anche per me o per chiunque altro. Questa abilità consente il management: una volta che abbandoni gli standard puoi cominciare a fare il lavoro che conta davvero, cioè progettare ambienti in cui le persone (le persone come sono veramente, non come sarebbero in qualche mondo ideale) ottengono risultati. È anche utile nella vita personale: se non hai standard puoi godere della compagnia di persone molto diverse da te.

  • Ho imparato a raccontare soprattutto leggendo narrativa e fumetti. Un economista di nome David lane mi ha spiegato perché la narrazione è così importante in une seminario universitario sulla teoria dell’innovazione, molto tempo dopo che avevo terminato i miei studi. La scuola superiore mi ha in parte aiutato a sviluppare questa abilità, soprattutto attraverso lo studio della storia. In retrospettiva, se avessi avuto un buon insegnante di storia dell’arte avrei potuto imparare molto sulla narrazione dalla pittura del rinascimento, ma non ho avuto fortuna.
  • Ho imparato la divinazione dall’economia. Mi è rimasta in mente una frase di Albert Hirschman (presa dall’introduzione ad Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo: spiegava di avere preso parte all’esecuzione del piano Marshall, e che quella esperienza “gli aveva inculcato un sano rispetto nell’abilità del mercato di batterti in astuzia.” Un’affermazione così umile da parte di un uomo che partecipava al più grande successo di pianificazione economica di tutti i tempi mi è rimasto impresso in profondità. Più tardi, le scienze della complessità mi hanno dato un modo rigoroso per approcciare i fenomeni sociali in questo modo.
  • Ho imparato il perdono da un collega più esperto nel mio primo lavoro; collega che, più tardi, è diventato uno dei miei migliori amici.

Non vedo perché queste cose non si potrebbero imparare a scuola. Quando andavo a scuola (anni 70-80m, nella provincia italiana) l’approccio alla conoscenza era abbastanza ottocentesco: imparavi nozioni, non abilità. Ma forse le cose sono cambiate, e adesso le insegnano.