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Perché abbiamo e-trasferito la nostra impresa in Estonia: vi presento Edgeryders Osaühing

“Lo sappiamo, il pitch è più attraente della realtà.” – dice Marten Kaevats – “Ma ci stiamo lavorando.” Mi guardo intorno. Ci stanno lavorando, e come.

Marten, Henri Laupmaa e io stiamo cenando insieme a Telliskivi Loomelinnak (“Creative City”). È una grande ex-fabbrica di componenti elettronici dell’era sovietica, nella parte nord di Tallinn. Durante il boom dei primi anni 2000, un’impresa immobiliare aveva programmato di farci appartamenti di lusso. Con la crisi, ha tirato fuori un piano B: trasformarla in un hub per piccole imprese creative. Oggi è la casa di 200 tra imprese e associazioni: studi di designers, startups, spazi di co-working, locali notturni. È ariosa, colorata nella luce obliqua della primavera nordica. Dà un senso di speranza.

Marten è il Chief Innovation Officer del governo estone. Henri è uno dei più importanti imprenditori Fintech del paese. Sono amici: entrambi vengono da un’esperienza di attivismo sociale e organizzazione dal basso. Sono venuti a cena per darmi il benvenuto, e per aiutarmi a orientarmi. Sono loro grato per i consigli e la compagnia. Ne ho bisogno: sono venuto in Estonia per rilocalizzarvi la mia società, Edgeryders

Edgeryders è piccola, high-tech e globale, un tipico prodotto dell’età di Internet. Siamo nati come progetto di un’istituzione sovranazionale, il Consiglio d’Europa. Siamo cresciuti come comunità online, i cui membri vivono in cinquanta paesi. Quando abbiamo costruito un’impresa su quella comunità online, i suoi sei soci erano cittadini di sei paesi diversi. Anche i nostri primi clienti sono stati internazionali: il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, UNESCO, Banca Mondiale.

Siamo leali al pianeta Terra, e gli uni agli altri. Dal punto di vista legale, però, questo atteggiamento non funziona: un’impresa deve avere la sede sociale in un solo paese (e praticamente nessun paese ha fatto le sue leggi per imprese come la nostra). Nel 2013, abbiamo scelto di fondare Edgeryders nel Regno Unito. Sembrava una scelta naturale, e lo era. Ha tutto un ecosistema di servizi di ottimo livello per le imprese. I servizi pubblici sono ben progettati, ben documentati e online, dal fisco alla protezione dei dati. Il difetto principale è il banking: servizi cari e disfunzionali, e banche dall’etica discutibile. Ma anche così, i vantaggi superavano gli svantaggi.

E poi è arrivata Brexit.

Non è questa la sede di discuterne i come e i perché politici, né io sono qualificato per farlo. Voglio, però, guardare a Brexit e al dopo Brexit in una prospettiva di gestione del rischio. Ci sono due tipi di rischi qui, ed entrambi erano evidenti anche prima del voto.

Rischio numero uno: diventare merce di scambio. Agli oltre tre milioni di europei che risiedono in UK non è stato permesso di votare. Non sono stati nemmeno consultati. Nel gergo politico del tempo, il ruolo loro assegnato è quello di “merce di scambio” (bargaining chip). Il Regno Unito ritiene di dovere tutelare solo i suoi cittadini. Noi non siamo cittadini britannici. Cosa succede se il governo decide di agire in modo spregiudicato nei confronti dei beni delle aziende possedute da cittadini stranieri? Se blocca i nostri conti correnti, per esempio? Cosa potremmo fare se ci trovassimo a essere a nostra volta una merce di scambio da gettare sul tavolo dei negoziati?

Rischio numero due: subire danni collaterali a causa dell’incompetenza del governo. Nessuno sa davvero cosa succederà in caso di hard Brexit. Cosa succede ai trattati sulla doppia tassazione del reddito, intra- o extra-UE? Come si pagherà l’IVA sulle transazioni UK-UE? Quali sono le conseguenze della decadenza del Regno Unito da membro del WTO (UK è membro del WTO attraverso la membership UE)? Queste domande sono difficili anche per il più competente dei governi. Ma la classe dirigente britannica sembra scoprire le conseguenze di Brexit in modo più o meno casuale, di solito perché un giornalista o un diplomatico straniero porta alla sua attenzione un problema in particolare. Aspetta un attimo, come gestiamo il confine con l’Irlanda? Aspetta un attimo, e Gibilterra? Aspetta un attimo, come teniamo in piedi le università che perdono i fondi di ricerca europei? Cosa succede ai camion in coda a Dover e a Calais il giorno di un’eventuale hard Brexit? Se hai interessi nel paese, queste scene non sono proprio rassicuranti.

Questo è l’argomento razionale per cui Edgeryders, un’impresa britannica posseduta da non britannici, non è a suo agio in un Regno Unito post-Brexit. Abbiamo anche ragioni del cuore, e la principale è questa: non ci piace il nazionalismo. Durante la seconda guerra mondiale ha ucciso cento milioni di persone in Europa. Crediamo, invece, nella pace; pace e prosperità attraverso il commercio. Il commercio è comunicazione: per vendere qualcosa, devi metterti nei panni del tuo cliente, devi empatizzare con lui. Il progetto politico che meglio di tutti incarna questa visione è quello di un’Europa unita, e più è unita e meglio è. In Edgeryders le nostre culture così diverse non ci dividono, ma ci attirano gli uni verso gli altri. Siamo felici di essere uniti nella diversità, e non permetteremo a nessuno di metterci gli uni contro gli altri.

Ragione e cuore, questa volta, sono allineati. Siamo diventati profughi di Brexit. Dobbiamo fare ciò che fanno i profughi: spostarci.

Abbiamo aderito al programma di e-residency dell’Estonia prima ancora del voto per Brexit. Abbiamo scelto l’Estonia perché:

  1. È nell’UE e usa l’Euro. Non corriamo il rischio di perdere l’accesso al nostro mercato principale. Siamo protetti contro il rischio di cambio.
  2. È esplicitamente progettato per imprese location-independent, come noi. È normale che gli e-residents siano non-estoni, o estoni della diaspora.
  3. La teoria dei giochi funziona. L’Estonia è un paese molto piccolo, con solo 1.3 milioni di abitanti. IL governo spera di avere dieci milioni di e-residents per il 2025. Gli e-residents, cioè noi, non sono merce di scambio, ma l’intero business plan del paese, perché dieci milioni di e-residents vuol dire centomila posti di lavoro ben pagati in finanza, assicurazioni, contabilità, servizi immobiliari. Se gli e-residents non si trovano bene se ne vanno, e questo l’Estonia non se lo può permettere. L’equilibrio di questo gioco è che loro ci danno un buon servizio, e noi lo usiamo e teniamo in piedi il loro business plan.

Il sistema è tutt’altro che perfetto. Per esempio, le banche della Repubblica sono sì in Estonia, ma pur sempre soggette alle regole internazionali anti-riciclaggio. Queste regole non sono pensate per imprese location-independent, quindi impongono obblighi costosi se la banca o il commercialista sono in un paese lontano da quello in cui abiti. In Estonia, il governo ti permette di creare un’impresa da una pagina web, ma poi il tuo commercialista ti chiederà una bolletta dell’elettricità (in traduzione estone giurata) come prova di residenza. Le banche sono ancora più ferme: se non ti presenti di persona non ti aprono un conto (anche se il governo sta lavorando per rimuovere la restrizione). In più, i professionisti estoni stanno ancora imparando a lavorare con gli e-residents, e può essere difficile ottenere informazioni.

Ma Marten ha ragione: migliorerà. L’Estonia vuole essere una nazione “apripista” (pathfinding). Viste le dimensioni, giocarsi questo ruolo ha più senso qui che non in Germania o UK. I dirigenti estoni hanno visione (“country as a service”, “zero-legacy policies”, “accounting 3.0”). Hanno una classe dirigente giovane ed energica. Possono farcela. E noi vogliamo fare con loro questo percorso.

Quindi, dite ciao a Edgeryders Osaühing. È una società estone a capitale privato e responsabilità limitata, fondata il 30 marzo 2017. Nel corso del prossimo anno vi trasferiremo le nostre attività e chiuderemo Edgeryders Limited By Guarantee.

Tradotta da Edgeryders. Foto: Troy David Johnson su flickr.com

The Reef, l’inizio. Reinventare la vita e il lavoro in comune (di nuovo)

Tradotto da Edgeryders

I servizi di cura sono entrati nel nostro radar qualche anno fa. Servizi sanitari e sociali alla portata di tutti e rapidi nell’intervento non erano e non sono disponibili. E non solo per sconosciuti, che vivono in paesi lontani. Per i nostri amici e parenti e vicini, qui. Bisognava fare qualcosa.

Dal nostro punto di osservazione, sono le persone che si mettono insieme per tamponare la falla. Le comunità assumono il ruolo di fornitori di servizi di cura, anche nelle tante situazioni in cui né lo stato né il settore privato hanno interesse a spingersi. Fanno cose grandiose. Hackers costruiscono sistemi open source per misurare la glicemia ai bambini diabetici, e trasmettere la misurazione in tempo reale ai genitori via rete. Psicologhe belghe esperte di traumi trasformano autobus in consultori mobili e li guidano fino in Grecia, per aiutare profughi traumatizzati dalla guerra. Pazienti di sindrome bipolare 1 si aiutano a vicenda a combattere le tendenze suicide.  Biologi e biohackers cercano insieme di inventare un sistema open source per produrre insulina umana a basso prezzo. Attivisti in America si incoraggiano l’un l’altro a mangiare in modo sano e fare esercizio, facendolo insieme.

Abbiamo lanciato un progetto di ricerca per studiare più da vicino queste storie, e molte altre come queste. Volevamo capire cosa queste iniziative hanno in comune, e come potremmo lanciarne altre. Quel progetto si chiama OpenCare: è nel suo secondo anno. I risultati stanno ancora definendosi, ma una cosa è già chiara:

Ciò che conta sono le persone.

Per produrre servizi di cura, le comunità hanno bisogno di persone. Più volontari, meglio preparati. Persone disposte a insegnare le une alle altre. Terapisti per aiutare volontari traumatizzati da un lavoro spesso disperato, in situazioni difficilissime. Quindi, le tecnologie a più alto impatto sono quelle che mettono insieme le persone. Condividono conoscenza. Distribuiscono risorse umane attraverso diversi contesti di cura. Queste tecnologie sono connettori: aiutano ad allineare e coordinare lo sforzo umano.

Questa intuizione è fondamentale. Va anche al di là del problema della cura. E ha molto senso: dopotutto, noi siamo il 99%. Abbiamo poco denaro, e quasi niente potere. Non abbiamo grandi aziende, fondazioni ricche, università prestigiose. Ma abbiamo gli uni gli altri. Possiamo prosperare, se sapremo collaborare. Purtroppo, la collaborazione è costosa, e difficile da monetizzare. Quindi, la tecnologia che la rende più efficiente fa la differenza.

A Edgeryders, abbiamo deciso di mettere in pratica questa lezione. Lo stiamo facendo hackerando la tecnologia connettiva più fondamentale in assoluto: la casa.

Sogniamo uno spazio di nuovo tipo, che possa essere un focolare per le nostre famiglie ma anche essere aperta al mondo esterno. In cui la porta non sia un cancello per tenere fuori i lupi, ma un ponte verso reti globali. Dove possiamo vivere, e lavorare, e qualche volta lavorare con le persone con cui viviamo, e vivere con i nostri colleghi. Dove le persone siano benvenute a fermarsi un giorno, o una vita. Dove passare anche solo un’ora, ma col cuore, assicuri che non saremo mai più degli estranei. Dove sviluppare il nostro talento, imparare abilità nuove, migliorare in ciò che facciamo. Dove creare gli uni per gli altri un ambiente sano, amichevole, cosmopolita e, certo, prenderci cura gli uni degli altri.

Abbiamo già fatto questo sogno in passato. Nell’iterazione precedente lo abbiamo chiamato unMonastery. Ne abbiamo fatto un prototipo nel 2014, a Matera. Quell’esperienza ci ha insegnato molto. La lezione più importante è questa: uno spazio di vita e lavoro non può essere troppo vicino al bisogno di un singolo cliente. Né può dipendere dal ciclo dei finanziamenti. Deve essere finanziariamente sostenibile, e supportare diversi progetti e linee di lavoro. Abbiamo imparato anche quanto sia importante essere aperti alla diversità, e cercare, al di fuori del nostro spazio, aria fresca e idee nuove da fare circolare, sempre.

2014: pranzo nel sole all’unMonastery

Ma c’erano anche molte cose che funzionavano bene nell’esperienza unMonastery. Quella di cui sono più orgoglioso è questa: ci abbiamo provato sul serio. La pianificazione e la due diligence sono necessarie, ma un prototipo permette un apprendimento più ricco.

Quindi, ora non è il caso di continuare a sognare uno spazio nuovo. Stiamo già collaudando una seconda iterazione.

La chiamiamo The Reef. Le barriere coralline sono strutture costruite da piccoli animali, i coralli. Servono come casa, punto di ancoraggio, nascondiglio o terreno di caccia a migliaia di specie. Alghe, pesci, vermi e molluschi cooperano, competono, si nutrono e si mangiano a vicenda. Ne beneficiano i coralli, che guadagnano l’accesso a sostanze nutrienti (le barriere coralline sono tipiche di acque tropicali povere di nutrienti).

Come le barriere coralline, il nostro nuovo spazio trarrà forza dalla diversità e dalla simbiosi. Persone diverse porteranno abilità diverse, accesso a reti diverse, personalità diverse. E Edgeryders (un’impresa sociale) vivrà in simbiosi con lo spazio e le persone che ci vivono. Pagherà un affitto, sussidiando chi abita nel Reef; in cambio, potrà usare lo spazio per i suoi scopi: ufficio, spazio per il coworking e per piccoli eventi.

Come le barriere coralline, il nostro nuovo spazio sarà un’ecologia – una rete. Non avrà confini netti tra “dentro” e “fuori”, piuttosto un gradiente di “più vicino” e “più lontano”. Ci sono molti modi di esserne parte. Alcuni vorranno abitarci a tempo pieno, altri si faranno vedere una volta o due al mese, o all’anno. Alcuni lo useranno più per lavoro, per montare progetti con noi o gli uni con gli altri. Altri si concentreranno sull’imparare insieme e sullo sviluppo personale. Naturalmente, abbiamo già una rete: la comunità online di Edgeryders stessa. E non sparirà, anzi diventerà ancora più importante. Ma ora The Reef le darà una presenza offline permanente. I membri di The Reef saranno il cuore della comunità di Edgeryders. E come sempre, ciascuno è libero di entrare in questo cuore o no; ciascuno è libero di giocare il ruolo in cui si sente meglio.

Abbiamo fatto un po’ di conti, e siamo sicuri che possiamo farlo funzionare. Cominceremo con un prototipo su piccola scala: un loft a Bruxelles, con quattro camere da letto, un’area comune, un ufficio e un cortile. Noemi, Nadia ed io saremo residenti permanenti: un’altra stanza ospiterà residenti temporanei. Il prototipo comincia il 1 maggio 2017 e durerà un anno. Stiamo già cercando uno spazio (molto) più grande in cui trasferirci nella primavera 2018 se l’esperimento funziona.

Ti piacerebbe essere parte di questo esperimento, o vorresti saperne di più? Ci sono tre cose che puoi fare.

  1. Puoi partecipare a un evento di OpenVillage Festival dedicato a The Reef. Lo useremo per progettare lo spazio fisico, il suo modello di finanziamento e le attività che ci faremo dentro. Sarà riservato ai membri di The Reef: stiamo progettando la nostra casa, e sta a chi ci vivrà e la frequenterà prendere decisioni in merito. Info qui.
  2. Puoi partecipare al primo momento di auto-formazione e sviluppo personale a The Reef, il 26-27 maggio. Impareremo a essere più bravi a parlare in pubblico con il Power Pitch Weekend. Info qui.
  3. O puoi metterti in contatto. Scrivi, o partecipa a una delle community calls di Edgeryders, o vieni a trovarci per un caffè.

Quindi: una simbiosi place-based tra alcune persone che “vivono al bordo”, una piccola impresa mutante, e nessun manuale di istruzioni. Non sarà facile. Ma ha il profumo che cercavo: l’eccitazione di costruire qualcosa di nuovo, e il piacere di farlo con persone brave, solide e generose. È ambizioso, ma realizzabile. Una cosa è sicura: mi ci impegnerò al massimo.

L’innovazione abita sulla frontiera: appunti da una conversazione con Fabrizio Barca

Fabrizio Barca è uno dei più interessanti policy makers italiani. Il suo nome è arrivato al grande pubblico nel 2011, quando Mario Monti lo ha nominato Ministro per la coesione territoriale. Chi si interessa di politiche pubbliche, però, lo segue da molto più tempo. Io mi confronto con lui da quasi vent’anni. Per i primi anni questo confronto è passato attraverso i suoi scritti, che io leggevo e discutevo con amici e colleghi (alcuni dei quali lavoravano con lui). In anni più recenti abbiamo cominciato a incontrarci di persona. Quando passo da Roma mi piace andarlo a trovare. Lui mi racconta cosa vede dal suo punto di osservazione e cosa sta facendo, io ci rifletto e cerco di dire qualcosa di intelligente. Qualche volta ci riesco, altre meno.

Dopo la fine del suo incarico ministeriale, Fabrizio ha dedicato molta energia alle aree interne. Le aree interne sono luoghi lontani da centri di offerta di istruzione (scuole) salute (ospedali) e mobilità (stazioni ferroviarie). Si tratta di circa quattromila comuni, che occupano il 60% del territorio nazionale e dove abita il 25% degli italiani. Sono borghi di collina e montagna, alpeggi, campi, pascoli. Sono spesso luoghi belli, ricchi di storia e di cultura locale. Altrettanto spesso soffrono di calo della popolazione, riduzione dell’occupazione, riduzione dell’offerta di servizi. I terreni meno produttivi vengono abbandonati, aprendo le porte a problemi ambientali come inondazioni o frane. L’innovazione ristagna.

È evidente: le aree interne sono importanti, e lo stato fa bene a occuparsene. In questi anni, però, non sono riuscito a capire perché Fabrizio sentisse il bisogno di occuparsene di persona. Negli ultimi quindici anni, gli economisti dello sviluppo hanno sottolineato piuttosto l’importanza strategica delle città. Nel 2014 il 53% dell’umanità viveva già nelle aree urbane; l’80% del PIL del mondo viene prodotto nelle città (Banca Mondiale). Per i paesi sviluppati queste percentuali sono molto più alte. Per esempio, nell’area euro il 76% della popolazione viveva in aree urbane nel 2014.

L’Italia è un po’ meno urbanizzata della media dei paesi sviluppati (“solo” il 69% della popolazione viveva in città nel 2014). Ma anche da noi le città hanno un’importanza strategica evidente. Per convincersene, basta considerare Milano. L’area metropolitana di Milano ha un po’ più di 5 milioni di abitanti: vi abita, quindi, un italiano su dodici. Nel 2004, quest’area aveva un PIL di 241 miliardi di euro: più alto di quello dell’intera Austria, e pari al 13% di quello italiano.

Non è solo questione di PIL: Milano e le altre aree urbane producono la quasi totalità delle esportazioni italiane, cioè, alla fine, il nostro contributo all’economia mondiale. La chimica. Il tessile e abbigliamento. La gomma e la ceramica. I mezzi di trasporto. I macchinari industriali. L’Italia è un’economia manifatturiera, una delle più importanti al mondo. Anche l’agrifood si fa pubblicità con immagini di campi verdeggianti, ma alla fine vende prodotti trasformati. Nel 2014 abbiamo esportato prodotti alimentari (trasformati), bevande e tabacco per 28 miliardi, e ne abbiamo importati più o meno altrettanti. Nell’agro alimentare, quindi, abbiamo un saldo di bilancia commerciale pari a circa zero. Il settore macchinari e apparecchi meccanici, per contro, ha prodotto esportazioni per oltre 74 miliardi nel 2014, e ha registrato un saldo di bilancia commerciale attivo pari a oltre 50 miliardi (ICE). La grande maggioranza delle aziende di questo comparto si trova nelle aree urbane, non in quelle interne.

L’Italia non è un’eccezione. Le città producono più ricchezza pro capite delle campagne; e le città più grandi ne producono di più di quelle meno grandi.  Due fisici, Luis Bettencourt e Geoffrey West, hanno trovato una relazione matematica esatta tra le dimensioni della città e la sua produzione (PMAS). L’abitante medio di una metropoli produce di più e guadagna di più di quello di una città più piccola. Più precisamente, una città con abitanti produce un reddito pari a n elevato alla 1.12-esima potenza. Questo significa che, al crescere delle dimensioni cittadine, il reddito medio aumenta. A parità di altre condizioni, il reddito medio pro capite in una città di dieci milioni di abitanti è circa del 30% più alto rispetto alle città con un milione di abitanti; e circa del 75% più alto rispetto a quelle che ne hanno solo centomila.

Questo tipo di crescita  si chiama superlineare. Caratterizza molti fenomeni urbani, dai depositi bancari al consumo di elettricità, e lo fa in modo molto simile in tutto il mondo. Caratterizza in particolare le variabili legate all’innovazione, come il numero di brevetti depositati ogni anno o il numero di ricercatori.

Perché le città hanno tanto successo economico? Secondo Bettencourt, le città sono “reattori sociali”: somigliano alle stelle (che sono reattori nucleari) più che a organismi viventi (Science). La loro capacità di produrre innovazione e ricchezza dipende dal numero delle connessioni che sono in grado di attivare. Il commercio, la scienza, la produzione: tutti questi sono fenomeni di rete, perché dipendono dagli scambi tra persone e imprese. Intuitivamente, il numero degli scambi possibili cresce molto rapidamente al crescere delle persone coinvolte. Una sola persona non può fare scambi. Tra due persone, Anna e Bernardo, possono realizzare una sola connessione tra loro. Aggiungendo una terza persona, Chiara, le connessioni possibili sono tre: Anna-Bernardo, Bernardo-Chiara, Chiara-Anna. Aggiungendone una quarta, le connessioni diventano sei; aggiungendone una quinta,  diventano dieci. Quando si arriva a un milione, sono possibili quasi cinquecento miliardi di connessioni (divertitevi a verificarlo!).

La possibilità di molte connessioni permette la specializzazione; la presenza di persone e organizzazioni specializzate permette una produttività più alta. La matematica delle connessioni sembra indicare che il futuro dell’umanità appartiene alle città. I poveri del mondo sembrano essere d’accordo, perché vi si trasferiscono in massa. Secondo l’ecologo e pioniere digitale Stewart Brand, a guidarli è la possibilità di accedere a servizi migliori (soprattutto istruzione); e il netto aumento di libertà personale di cui gli abitanti delle città godono rispetto a quelli dei villaggi. Soprattutto se sono donne. Secondo Brand, questi benefici sono immediatamente a disposizione di tutti gli abitanti delle città, anche nelle peggiori favelas. I dati che cita mostrano chiaramente che chi arriva in città comincia ad arrangiarsi con attività semilegali. Nel giro di un paio di decenni, però, queste si trasformano in attività completamente legali. La seconda generazione di immigrati urbani ha quasi sempre un’istruzione, e aspira alla classe media.

Questo mi riporta alle mie discussioni con Fabrizio Barca: perché il più interessante policy maker italiano non si occupa di città? Perché questa fascinazione per i borghi di montagna e le vallate?

Qualche settimana fa, durante una lunga chiacchierata nel suo ufficio romano, gli ho fatto la domanda direttamente. Riassumo la risposta: Fabrizio pensa che le aree interne siano il futuro non del mondo, ma dell’Italia. Per tre ragioni:

  • Rappresentano la maggior parte del territorio nazionale, e sono abbastanza omogenee tra loro. La Val Basento in Sicilia e la Val di Vara in Liguria hanno problemi simili. I loro dirigenti si capiscono al volo tra loro, e possono collaborare, scambiandosi esperienze. Una policy per le aree interne ha buone possibilità di scalare al livello nazionale.
  • Per contro, le città italiane sono molto diverse tra loro, e diverse anche dalle altre città europee. Napoli è l’unica vera area metropolitana d’Italia. Milano ha alcune delle caratteristiche della grande città europea (design, finanza, creatività) ma non ne ha le dimensioni. Roma è un conglomerato turistico-burocratico-pastorale. Nessuna generalizzazione è possibile. Ciascuna grande città va affrontata come un problema a sé stante.
  • Ma soprattutto, in Italia, le aree interne danno segnali di vitalità. Vi nascono produzioni di eccellenza legate al turismo, alla cultura, all’agrifood. La scuola tiene, e in molti casi rilancia, arricchendosi di tecnologia. Lo stesso abbandono del territorio è a un millimetro dal rovesciarsi in una grande opportunità. Perché nelle aree interne c’è spazio. C’è attenzione delle comunità, c’è fame di innovazione, ci sono spazi a basso costo (e spesso molto belli) in cui portare nuove idee e nuove persone (Fabrizio: “Si offre diversità a un mondo che domanda diversità”).

Raccontata così, la storia di Barca mi sembra convincente – tanto più che ha una valanga di dati a suffragarla. Quindi il futuro è nelle aree interne, nelle loro colline e nei loro campanili. D’altra parte, anche la storia che emerge dagli studi di Banca Mondiale, Bettencourt-West e Brand è convincente, e anche quella è sostenuta da moltissimi dati. Quindi il futuro è nelle città, nelle loro università, nei loro laboratori, e anche nelle loro favelas. Come fanno queste due storie ad essere vere contemporaneamente?

La mia ipotesi è questa: l’innovazione territoriale ha bisogno di libertà, di luoghi dove provare a fare cose nuove senza troppi vincoli. Dove le norme sociali approvano, o perlomeno non condannano, chi prova a percorrere strade insolite. Dove lo spazio non è già tutto rivendicato da stakeholders potenti e strutturati. Se mi guardo intorno, mi sembra che tutti gli spazi innovativi siano spazi più liberi della media. La libertà si trova nelle favelas raccontate da Brand, perché lo stato rinuncia a mantenervi un controllo capillare. Si trova nelle web farm e nei data havens della Silicon Valley, perché quel mondo (finora) è stato velocissimo e impermeabile agli strumenti tradizionali di controllo dell’economia. Si trova nello spazio, dove Elon Musk e gli altri space billionaires costruiscono un loro pezzo di futuro. E si trova nelle aree interne, aperta proprio dagli spazi fisici e dalla bassa densità di popolazione, che ti mettono al centro della società locale se appena prendi un’iniziativa coraggiosa. Questi luoghi sono la frontiera della società contemporanea, il nostro West, il nostro spazio vitale.

Se è così, allora la narrazione unificante del 2016 è più o meno questa. Le persone intelligenti, ambiziose o soltanto irrequiete sono in fuga dagli spazi chiusi, dove organizzazioni potenti (politica, stato, grande industria) limitano il raggio d’azione dell’iniziativa individuale. Dove vanno? Vanno a colonizzare gli spazi di frontiera. Le frontiere sono luoghi pieni di contraddizioni, talvolta anche spietati, ma forniscono agli individui meccanismi di mobilità sociale, e alle società laboratori di sperimentazione. L’Italia ha una frontiera in più: le aree interne. Ci servirà soprattutto per innovare sull’ambiente, sul turismo, sul leisure, sul presidio del territorio. È una bella occasione. Giochiamocela bene.

Foto: Mauro Mazzacurati su flickr.com

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