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Perché abbiamo e-trasferito la nostra impresa in Estonia: vi presento Edgeryders Osaühing

“Lo sappiamo, il pitch è più attraente della realtà.” – dice Marten Kaevats – “Ma ci stiamo lavorando.” Mi guardo intorno. Ci stanno lavorando, e come.

Marten, Henri Laupmaa e io stiamo cenando insieme a Telliskivi Loomelinnak (“Creative City”). È una grande ex-fabbrica di componenti elettronici dell’era sovietica, nella parte nord di Tallinn. Durante il boom dei primi anni 2000, un’impresa immobiliare aveva programmato di farci appartamenti di lusso. Con la crisi, ha tirato fuori un piano B: trasformarla in un hub per piccole imprese creative. Oggi è la casa di 200 tra imprese e associazioni: studi di designers, startups, spazi di co-working, locali notturni. È ariosa, colorata nella luce obliqua della primavera nordica. Dà un senso di speranza.

Marten è il Chief Innovation Officer del governo estone. Henri è uno dei più importanti imprenditori Fintech del paese. Sono amici: entrambi vengono da un’esperienza di attivismo sociale e organizzazione dal basso. Sono venuti a cena per darmi il benvenuto, e per aiutarmi a orientarmi. Sono loro grato per i consigli e la compagnia. Ne ho bisogno: sono venuto in Estonia per rilocalizzarvi la mia società, Edgeryders

Edgeryders è piccola, high-tech e globale, un tipico prodotto dell’età di Internet. Siamo nati come progetto di un’istituzione sovranazionale, il Consiglio d’Europa. Siamo cresciuti come comunità online, i cui membri vivono in cinquanta paesi. Quando abbiamo costruito un’impresa su quella comunità online, i suoi sei soci erano cittadini di sei paesi diversi. Anche i nostri primi clienti sono stati internazionali: il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, UNESCO, Banca Mondiale.

Siamo leali al pianeta Terra, e gli uni agli altri. Dal punto di vista legale, però, questo atteggiamento non funziona: un’impresa deve avere la sede sociale in un solo paese (e praticamente nessun paese ha fatto le sue leggi per imprese come la nostra). Nel 2013, abbiamo scelto di fondare Edgeryders nel Regno Unito. Sembrava una scelta naturale, e lo era. Ha tutto un ecosistema di servizi di ottimo livello per le imprese. I servizi pubblici sono ben progettati, ben documentati e online, dal fisco alla protezione dei dati. Il difetto principale è il banking: servizi cari e disfunzionali, e banche dall’etica discutibile. Ma anche così, i vantaggi superavano gli svantaggi.

E poi è arrivata Brexit.

Non è questa la sede di discuterne i come e i perché politici, né io sono qualificato per farlo. Voglio, però, guardare a Brexit e al dopo Brexit in una prospettiva di gestione del rischio. Ci sono due tipi di rischi qui, ed entrambi erano evidenti anche prima del voto.

Rischio numero uno: diventare merce di scambio. Agli oltre tre milioni di europei che risiedono in UK non è stato permesso di votare. Non sono stati nemmeno consultati. Nel gergo politico del tempo, il ruolo loro assegnato è quello di “merce di scambio” (bargaining chip). Il Regno Unito ritiene di dovere tutelare solo i suoi cittadini. Noi non siamo cittadini britannici. Cosa succede se il governo decide di agire in modo spregiudicato nei confronti dei beni delle aziende possedute da cittadini stranieri? Se blocca i nostri conti correnti, per esempio? Cosa potremmo fare se ci trovassimo a essere a nostra volta una merce di scambio da gettare sul tavolo dei negoziati?

Rischio numero due: subire danni collaterali a causa dell’incompetenza del governo. Nessuno sa davvero cosa succederà in caso di hard Brexit. Cosa succede ai trattati sulla doppia tassazione del reddito, intra- o extra-UE? Come si pagherà l’IVA sulle transazioni UK-UE? Quali sono le conseguenze della decadenza del Regno Unito da membro del WTO (UK è membro del WTO attraverso la membership UE)? Queste domande sono difficili anche per il più competente dei governi. Ma la classe dirigente britannica sembra scoprire le conseguenze di Brexit in modo più o meno casuale, di solito perché un giornalista o un diplomatico straniero porta alla sua attenzione un problema in particolare. Aspetta un attimo, come gestiamo il confine con l’Irlanda? Aspetta un attimo, e Gibilterra? Aspetta un attimo, come teniamo in piedi le università che perdono i fondi di ricerca europei? Cosa succede ai camion in coda a Dover e a Calais il giorno di un’eventuale hard Brexit? Se hai interessi nel paese, queste scene non sono proprio rassicuranti.

Questo è l’argomento razionale per cui Edgeryders, un’impresa britannica posseduta da non britannici, non è a suo agio in un Regno Unito post-Brexit. Abbiamo anche ragioni del cuore, e la principale è questa: non ci piace il nazionalismo. Durante la seconda guerra mondiale ha ucciso cento milioni di persone in Europa. Crediamo, invece, nella pace; pace e prosperità attraverso il commercio. Il commercio è comunicazione: per vendere qualcosa, devi metterti nei panni del tuo cliente, devi empatizzare con lui. Il progetto politico che meglio di tutti incarna questa visione è quello di un’Europa unita, e più è unita e meglio è. In Edgeryders le nostre culture così diverse non ci dividono, ma ci attirano gli uni verso gli altri. Siamo felici di essere uniti nella diversità, e non permetteremo a nessuno di metterci gli uni contro gli altri.

Ragione e cuore, questa volta, sono allineati. Siamo diventati profughi di Brexit. Dobbiamo fare ciò che fanno i profughi: spostarci.

Abbiamo aderito al programma di e-residency dell’Estonia prima ancora del voto per Brexit. Abbiamo scelto l’Estonia perché:

  1. È nell’UE e usa l’Euro. Non corriamo il rischio di perdere l’accesso al nostro mercato principale. Siamo protetti contro il rischio di cambio.
  2. È esplicitamente progettato per imprese location-independent, come noi. È normale che gli e-residents siano non-estoni, o estoni della diaspora.
  3. La teoria dei giochi funziona. L’Estonia è un paese molto piccolo, con solo 1.3 milioni di abitanti. IL governo spera di avere dieci milioni di e-residents per il 2025. Gli e-residents, cioè noi, non sono merce di scambio, ma l’intero business plan del paese, perché dieci milioni di e-residents vuol dire centomila posti di lavoro ben pagati in finanza, assicurazioni, contabilità, servizi immobiliari. Se gli e-residents non si trovano bene se ne vanno, e questo l’Estonia non se lo può permettere. L’equilibrio di questo gioco è che loro ci danno un buon servizio, e noi lo usiamo e teniamo in piedi il loro business plan.

Il sistema è tutt’altro che perfetto. Per esempio, le banche della Repubblica sono sì in Estonia, ma pur sempre soggette alle regole internazionali anti-riciclaggio. Queste regole non sono pensate per imprese location-independent, quindi impongono obblighi costosi se la banca o il commercialista sono in un paese lontano da quello in cui abiti. In Estonia, il governo ti permette di creare un’impresa da una pagina web, ma poi il tuo commercialista ti chiederà una bolletta dell’elettricità (in traduzione estone giurata) come prova di residenza. Le banche sono ancora più ferme: se non ti presenti di persona non ti aprono un conto (anche se il governo sta lavorando per rimuovere la restrizione). In più, i professionisti estoni stanno ancora imparando a lavorare con gli e-residents, e può essere difficile ottenere informazioni.

Ma Marten ha ragione: migliorerà. L’Estonia vuole essere una nazione “apripista” (pathfinding). Viste le dimensioni, giocarsi questo ruolo ha più senso qui che non in Germania o UK. I dirigenti estoni hanno visione (“country as a service”, “zero-legacy policies”, “accounting 3.0”). Hanno una classe dirigente giovane ed energica. Possono farcela. E noi vogliamo fare con loro questo percorso.

Quindi, dite ciao a Edgeryders Osaühing. È una società estone a capitale privato e responsabilità limitata, fondata il 30 marzo 2017. Nel corso del prossimo anno vi trasferiremo le nostre attività e chiuderemo Edgeryders Limited By Guarantee.

Tradotta da Edgeryders. Foto: Troy David Johnson su flickr.com

The Reef, l’inizio. Reinventare la vita e il lavoro in comune (di nuovo)

Tradotto da Edgeryders

I servizi di cura sono entrati nel nostro radar qualche anno fa. Servizi sanitari e sociali alla portata di tutti e rapidi nell’intervento non erano e non sono disponibili. E non solo per sconosciuti, che vivono in paesi lontani. Per i nostri amici e parenti e vicini, qui. Bisognava fare qualcosa.

Dal nostro punto di osservazione, sono le persone che si mettono insieme per tamponare la falla. Le comunità assumono il ruolo di fornitori di servizi di cura, anche nelle tante situazioni in cui né lo stato né il settore privato hanno interesse a spingersi. Fanno cose grandiose. Hackers costruiscono sistemi open source per misurare la glicemia ai bambini diabetici, e trasmettere la misurazione in tempo reale ai genitori via rete. Psicologhe belghe esperte di traumi trasformano autobus in consultori mobili e li guidano fino in Grecia, per aiutare profughi traumatizzati dalla guerra. Pazienti di sindrome bipolare 1 si aiutano a vicenda a combattere le tendenze suicide.  Biologi e biohackers cercano insieme di inventare un sistema open source per produrre insulina umana a basso prezzo. Attivisti in America si incoraggiano l’un l’altro a mangiare in modo sano e fare esercizio, facendolo insieme.

Abbiamo lanciato un progetto di ricerca per studiare più da vicino queste storie, e molte altre come queste. Volevamo capire cosa queste iniziative hanno in comune, e come potremmo lanciarne altre. Quel progetto si chiama OpenCare: è nel suo secondo anno. I risultati stanno ancora definendosi, ma una cosa è già chiara:

Ciò che conta sono le persone.

Per produrre servizi di cura, le comunità hanno bisogno di persone. Più volontari, meglio preparati. Persone disposte a insegnare le une alle altre. Terapisti per aiutare volontari traumatizzati da un lavoro spesso disperato, in situazioni difficilissime. Quindi, le tecnologie a più alto impatto sono quelle che mettono insieme le persone. Condividono conoscenza. Distribuiscono risorse umane attraverso diversi contesti di cura. Queste tecnologie sono connettori: aiutano ad allineare e coordinare lo sforzo umano.

Questa intuizione è fondamentale. Va anche al di là del problema della cura. E ha molto senso: dopotutto, noi siamo il 99%. Abbiamo poco denaro, e quasi niente potere. Non abbiamo grandi aziende, fondazioni ricche, università prestigiose. Ma abbiamo gli uni gli altri. Possiamo prosperare, se sapremo collaborare. Purtroppo, la collaborazione è costosa, e difficile da monetizzare. Quindi, la tecnologia che la rende più efficiente fa la differenza.

A Edgeryders, abbiamo deciso di mettere in pratica questa lezione. Lo stiamo facendo hackerando la tecnologia connettiva più fondamentale in assoluto: la casa.

Sogniamo uno spazio di nuovo tipo, che possa essere un focolare per le nostre famiglie ma anche essere aperta al mondo esterno. In cui la porta non sia un cancello per tenere fuori i lupi, ma un ponte verso reti globali. Dove possiamo vivere, e lavorare, e qualche volta lavorare con le persone con cui viviamo, e vivere con i nostri colleghi. Dove le persone siano benvenute a fermarsi un giorno, o una vita. Dove passare anche solo un’ora, ma col cuore, assicuri che non saremo mai più degli estranei. Dove sviluppare il nostro talento, imparare abilità nuove, migliorare in ciò che facciamo. Dove creare gli uni per gli altri un ambiente sano, amichevole, cosmopolita e, certo, prenderci cura gli uni degli altri.

Abbiamo già fatto questo sogno in passato. Nell’iterazione precedente lo abbiamo chiamato unMonastery. Ne abbiamo fatto un prototipo nel 2014, a Matera. Quell’esperienza ci ha insegnato molto. La lezione più importante è questa: uno spazio di vita e lavoro non può essere troppo vicino al bisogno di un singolo cliente. Né può dipendere dal ciclo dei finanziamenti. Deve essere finanziariamente sostenibile, e supportare diversi progetti e linee di lavoro. Abbiamo imparato anche quanto sia importante essere aperti alla diversità, e cercare, al di fuori del nostro spazio, aria fresca e idee nuove da fare circolare, sempre.

2014: pranzo nel sole all’unMonastery

Ma c’erano anche molte cose che funzionavano bene nell’esperienza unMonastery. Quella di cui sono più orgoglioso è questa: ci abbiamo provato sul serio. La pianificazione e la due diligence sono necessarie, ma un prototipo permette un apprendimento più ricco.

Quindi, ora non è il caso di continuare a sognare uno spazio nuovo. Stiamo già collaudando una seconda iterazione.

La chiamiamo The Reef. Le barriere coralline sono strutture costruite da piccoli animali, i coralli. Servono come casa, punto di ancoraggio, nascondiglio o terreno di caccia a migliaia di specie. Alghe, pesci, vermi e molluschi cooperano, competono, si nutrono e si mangiano a vicenda. Ne beneficiano i coralli, che guadagnano l’accesso a sostanze nutrienti (le barriere coralline sono tipiche di acque tropicali povere di nutrienti).

Come le barriere coralline, il nostro nuovo spazio trarrà forza dalla diversità e dalla simbiosi. Persone diverse porteranno abilità diverse, accesso a reti diverse, personalità diverse. E Edgeryders (un’impresa sociale) vivrà in simbiosi con lo spazio e le persone che ci vivono. Pagherà un affitto, sussidiando chi abita nel Reef; in cambio, potrà usare lo spazio per i suoi scopi: ufficio, spazio per il coworking e per piccoli eventi.

Come le barriere coralline, il nostro nuovo spazio sarà un’ecologia – una rete. Non avrà confini netti tra “dentro” e “fuori”, piuttosto un gradiente di “più vicino” e “più lontano”. Ci sono molti modi di esserne parte. Alcuni vorranno abitarci a tempo pieno, altri si faranno vedere una volta o due al mese, o all’anno. Alcuni lo useranno più per lavoro, per montare progetti con noi o gli uni con gli altri. Altri si concentreranno sull’imparare insieme e sullo sviluppo personale. Naturalmente, abbiamo già una rete: la comunità online di Edgeryders stessa. E non sparirà, anzi diventerà ancora più importante. Ma ora The Reef le darà una presenza offline permanente. I membri di The Reef saranno il cuore della comunità di Edgeryders. E come sempre, ciascuno è libero di entrare in questo cuore o no; ciascuno è libero di giocare il ruolo in cui si sente meglio.

Abbiamo fatto un po’ di conti, e siamo sicuri che possiamo farlo funzionare. Cominceremo con un prototipo su piccola scala: un loft a Bruxelles, con quattro camere da letto, un’area comune, un ufficio e un cortile. Noemi, Nadia ed io saremo residenti permanenti: un’altra stanza ospiterà residenti temporanei. Il prototipo comincia il 1 maggio 2017 e durerà un anno. Stiamo già cercando uno spazio (molto) più grande in cui trasferirci nella primavera 2018 se l’esperimento funziona.

Ti piacerebbe essere parte di questo esperimento, o vorresti saperne di più? Ci sono tre cose che puoi fare.

  1. Puoi partecipare a un evento di OpenVillage Festival dedicato a The Reef. Lo useremo per progettare lo spazio fisico, il suo modello di finanziamento e le attività che ci faremo dentro. Sarà riservato ai membri di The Reef: stiamo progettando la nostra casa, e sta a chi ci vivrà e la frequenterà prendere decisioni in merito. Info qui.
  2. Puoi partecipare al primo momento di auto-formazione e sviluppo personale a The Reef, il 26-27 maggio. Impareremo a essere più bravi a parlare in pubblico con il Power Pitch Weekend. Info qui.
  3. O puoi metterti in contatto. Scrivi, o partecipa a una delle community calls di Edgeryders, o vieni a trovarci per un caffè.

Quindi: una simbiosi place-based tra alcune persone che “vivono al bordo”, una piccola impresa mutante, e nessun manuale di istruzioni. Non sarà facile. Ma ha il profumo che cercavo: l’eccitazione di costruire qualcosa di nuovo, e il piacere di farlo con persone brave, solide e generose. È ambizioso, ma realizzabile. Una cosa è sicura: mi ci impegnerò al massimo.

Perché l’open government sta fallendo (ma alla fine vincerà comunque)

Gli accordi di corridoio e le clientele sono strumenti classici di governo. Molte persone, però, non li amano, e non se ne fidano. Preferiscono una governance aperta e trasparente. Io sono tra queste, e probabilmente anche tu.

Ispirato da questi valori, ho guardato Internet diffondersi su tutto il pianeta, e ho visto un’opportunità. Ho dedicato parecchi anni di lavoro a esplorare come le forme di comunicazione che Internet rendeva via via possibili potessero rendere la democrazia migliore, più intelligente. Gran parte di questo lavoro era pratico. Consisteva di progettare e realizzare progetti di governo aperto (open government), prima in Italia (Kublai, Visioni Urbane), poi in Europa Edgeryders).

Circa dieci anni fa, le poche persone che, in tutto il mondo, lavoravano su questi temi hanno cominciato a entrare in contatto gli uni con gli altri. Abbiamo cominciato a scambiarci esperienze, a riflettere insieme, a costruirci luoghi di incontro. Continuiamo a farlo anche oggi. E c’è una novità: questo dibattito si sta spostando. Non stiamo più parlando degli argomenti che ci appassionavano nel 2009. Se hai a cuore la democrazia, questa è una notizia in parte buona e in parte cattiva, e comunque importante e eccitante.

Alla fine degli anni duemila, pensavamo che Internet avrebbe migliorato il funzionamento della democrazia abbassando i costi di coordinamento tra i cittadini. Questo funzionava in tutti gli ambiti. Rendeva tutto più facile. Trasparenza? Basta mettere le informazioni su un sito, e renderlo rintracciabile dai motori di ricerca. Partecipazione? I sondaggi online costano poco. Collaborazione tra governo e cittadini? Puoi usare wiki e forum online, e  avvantaggiarti dell’ubiquità della Rete per attirarvi le persone che hanno la conoscenza che serve all’azioen di governo. Avevamo la teoria. Avevamo (un po’ di) esperienza pratica. Cavalcavamo l’onda della diffusione inarrestabile di Internet. Con l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti nel 2008, avevamo anche il primo leader globale che sosteneva questi principi, sia a parole che nei fatti. Stavamo vincendo.

Ci aspettavamo di continuare a vincere. Avevamo un vantaggio strategico: il governo aperto non richiedeva un cambiamento culturale per essere messo in pratica. L’adozione delle sue pratiche non era una rivoluzione; era più un retrofit, un innesto di nuova tecnologia senza modificare l’infrastruttura esistente. Per spingerle usavamo parole familiari alla vecchia guardia: trasparenza, accountability, partecipazione. Erano come talismani. I dirigenti pubblici non erano sempre entusiasti di ciò che facevamo, ma non potevano certo dichiararsi apertamente contro questi valori. E, quando i nostri progetti venivano realizzati, causavano il cambiamento culturale. I servitori dello stato imparavano a lavorare in ambienti aperti e collaborativi; era difficile per loro ritornare al controllo dell’informazione e al need to know. Quindi, concludevamo, questa cosa può andare solo in una direzione: verso più Internet nelle pratiche di governo, più trasparenza, partecipazione, collaborazione. Il dibattito rifletteva questa posizione, e veniva riassunto in libri come The Wiki Government  di Beth Noveck'(2009) and il mio Wikicrazia (2010).

Ora è cambiato tutto.

Me ne sono convinto leggendo due libri recenti. Uno è Smart Citizens, Smarter Governance, di Beth Noveck. L’altro è Complexity and the Art of Public Policy, di David Colander e Roland Kupers. Considero questi lavori un progresso rispetto a qualunque cosa sia stata scritta in precedenza.

Beth è un faro per chi si occupa di governo aperto. È stata tra i suoi pionieri, con un progetto che si chiama Peer2Patents. A causa di esso, il presidente Obama l’ha voluta nel suo transition team prima, e alla Casa Bianca più tardi. Ha moltissima esperienza a tutti i livelli, dalla teoria alla realizzazione a alla policy. E ha un messaggio per noi: l’open government sta fallendo. Ecco il passo più significativo:

Nonostante tutto l’entusiasmo per i benefici potenziali di una governance più aperta; il movimento open government ha avuto un impatto davvero modesto sul modo in cui prendiamo decisioni pubbliche, risolviamo problemi e allochiamo beni pubblici.

Perché? La causa immediata più importante è che le pratiche di governo sono scritte nella legge. Cambiare le leggi è difficile, e ha effettivamente bisogno di un cambiamento nella cultura dei legislatori incaricati di riformarle. La causa ultima è ciò che Beth chiama governo professionalizzato. Il ragionamento è questo:

  1. Per prendere decisioni sulla base dell’informazione disponibile, è necessario che quest’ultima sia filtrata, riaggregata, curata. Per fare questo servono esperti.
  2. Come facciamo a capire quando una persona è un esperto? Guardiamo se appartiene a una professione (medico, avvocato, biologo…). L’attività di governo è oggi completamente professionalizzata; solo il parere degli esperti è considerato utile (ma non è sempre stato così, anzi).
  3. Di conseguenza, “aprirsi significa esercitare muscoli civici che si sono atrofizzati”, e considerare i cittadini potenzialmente competenti a contribuire alla progettazione delle politiche pubbliche.
  4. Inoltre, le professioni sono esclusive per definizione. Ogni volta che prendono piede, si muovono per escludere i non-membri da quello che considerano il loro terreno. Oggi, tutte le persone importanti nei governi sono professionisti, e condividono l’idea che i cittadini comuni non hanno competenze utili. Interagendo tra loro, queste persone formano un ambiente di lavoro che rinforza questa loro convinzione. Risultato: “molti omaggi retorici all’idea di engagement, ma poca condivisione vera del potere”.

Oggi diamo per scontato che l’attività di governo sia professionalizzata. La consideriamo una specie di legge di natura. Ma non è così. Nel libro, Beth racconta in dettaglio come il governo si è professionalizzato negli Stati Uniti. All’inizio della loro storia, gli USA sono governati da agricoltori gentiluomini. L’amministrazione era guidata da un corpus di conoscenza chiamata citizen’s literature, che i servitori dello Stato imparano direttamente sul lavoro. Con il tempo, sempre più persone vengono assunte nell’amministrazione pubblica. Questo processo creato e fa crescere in numeri e potere una nuova classe di professionisti del governo – persone che non hanno mai fatto altro nella loro vita, né si aspettano di farlo. Questa classe usa il suo potere per consolidare la propria posizione, rendendo la burocrazia pubblica una professione. Codici di condotta vengono redatti. Le università creano dipartimenti di diritto e scienze sociali, luoghi di addestramento e reclutamento dei burocrati del nuovo tipo. Tutto questo accade in sintonia con un movimento di tutta la società verso la misurazione, la standardizzazione e l’ordine amministrativo.

Beth ritrae questo movimento in un affresco ricco e convincente; è una delle parti del libro che preferisco. Poi, spiega che i nuovi modi di mettere le competenze degli esperti a disposizione dei policy makers sono illegali negli Stati Uniti. Perché? A causa del Paperwork Reduction ActQuesta legge non intendeva vietare la ricerca di esperti via Internet (è del 1995), ma è scritta in modo che la formazione di comitati che consigliano il governo sia strettamente regolamentata e tecnicamente difficile. Ma perché il Paperwork Reduction Act è sembrato necessario? Il legislatore americano stava tentando di proteggere la burocrazia da interferenze e pressioni da parte di coloro che la burocrazia deve regolare. Per fare questo, ha relegato chiunque non sia un professionista del governo al ruolo di rappresentanza degli interessi. Questo vuol dire che i cittadini sono importanti non per quello che sanno, ma per chi rappresentano, per “chi li manda”. È emersa un’architettura di governo professionalizzato che protegge sé stessa, senza bisogno di un architetto.

Architetture senza architetti? Questa è complessità. Il viaggio intellettuale di Beth l’ha portata alle dinamiche dei sistemi complessi. Lei non lo scrive proprio in questi termini, ma è chiaro. Questa storia ha feedback positivi, effetti di lock-in, emergenza. Beth ha dovuto imparare a pensare in termini di sistemi complessi per navigare le politiche pubbliche. La capisco bene, perché la stessa cosa è accaduta a me. Mi sono dovuto insegnare la matematica delle reti come strumento principale per pensare la complessità. E dovevo imparare a pensare la complessità, perché mi occupavo di politiche pubbliche, e quello era l’unico modo di farle funzionare.

L’altro libro che ho citato, quello di David Colander e Roland Kupers, parte direttamente dalla scienza dei sistemi complessi. La sua domanda è: come sarebbero le politche pubbliche se fossero progettate in una prospettiva di sistemi complessi? 

Le risposte sono affascinanti. La polarizzazione “libero mercato contro stato” sparirebbe. Sparirebbe anche il predominio della scienza economica, e le politiche economiche verrebbero considerate parte delle politiche sociali. Lo stato promuoverebbe norme sociali benefiche, così che i cittadini vogliano fare scelte vantaggiose per sé e per gli altri invece di essere costretti a farle dalla legge. Le agenzie governative sarebbero fortemente interdisciplinari. Sperimentazione e reversibilità sarebbero incorporati in tutte le politiche pubbliche.

Colander e Kupers hanno scritto il loro libro senza avere letto quello di Beth, e viceversa. Ma i due libri convergono alla stessa conclusione: fare politiche pubbliche nel ventunesimo secolo è un problema di sistemi complessi. Senza un approccio basato sulla complessità, le politiche falliscono. Condivido questa conclusione. In effetti, ho cominciato a studiare scienze della complessità nel 2009. Negli ultimi quatto anni ho approfondito in particolare la scienza delle reti. L’ho fatto perché anch’io progettavo politiche pubbliche; dovevo districarmi in situazioni intricate, e il potere esplicativo del pensiero della complessità era evidente. Nei primi anni il mio percorso è stato molto solitario: oggi sono sollevato e orgoglioso di trovarmi sullo stesso sentiero di gente intelligente come Beth, Colander e Kupers.

Ma c’è ancora un pezzo mancante. Pensare in termini di sistemi complessi ci aiuta a capire perché le politiche pubbliche non funzionano. Non sono ancora convinto che ci aiuti a farle funzionare davvero. Questo tipo di scienza ha funzionato bene nelle scienze naturali. La fisica e la biologia cercano di capire la natura, non di cambiarla. Non c’è policy qui. La natura non fa errori.

Quindi, capire un fenomeno in profondità significa rispettarlo, almeno in parte. Prova a indicare un problema sociale a uno studioso di sistemi complessi, per esempio la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Ti mostrerà la legge di potenza della distribuzione; lo spiegherà con una dinamica di feedback positivo, tipo success breeds success; aggiungerà che questo succede molto spesso in natura; e descriverà quanto è difficile allontanare un sistema complesso dal suo attrattore. Il pensiero della complessità funziona benissimo per individuare in anticipo politiche inefficaci e controproducenti. Per ora, non ha funzionato altrettanto bene a individuare cosa possiamo fare che, invece, sia efficace.

Gli autori di entrambi i libri hanno dei suggerimenti per i policy makers. Ma non sono particolarmente convincenti. 

La soluzione principale di Beth è una specie di database ricercabile per esperti. Un policy maker che ha bisogno di competenze potrebbe scrivere, per esempio, “open data” in un campo di ricerca, e connettersi con persone che sanno molte cose sugli open data. Questo dovrebbe funzionare bene per i problemi ben definiti, in cui il policy maker sa con certezza dove cercare una soluzione. Ma molti problemi di policy interessanti non sono affatto ben definiti. L’inquinamento atmosferico in città è un problema tecnologico? Allora dovremmo intervenire sul settore automobilistico per fargli produrre auto meno inquinanti. O è un problema di pianificazione urbana? Occorre modificare il piano regolatore, avvicinando i luoghi di lavoro a quelli di residenza per ridurre il pendolarismo. Un problema di organizzazione del lavoro, forse? Dovremmo incoraggiare i datori di lavoro a eliminare i loro uffici e dare ai dipendenti strumenti software perché possano lavorare da casa? Un momento, forse è un problema di mode: potremmo usare il marketing per rendere le biciclette più popolari. Nessuno lo sa. Probabilmente il problema è tutte queste cose, più chissà quante altre. Non è affatto chiaro a priori che tipo di esperto ti serve, tanto più che ogni mossa che fai in una delle dimensioni del problema influenzerà le altre.

Non è ancora finita, Le categorie stesse in cui raggruppare gli esperti sono socialmente determinate, e in continua trasformazione. Puoi immaginare un policy maker che cerca un esperto in  open data nel 1996? No, perché il concetto non esisteva. Il database di Beth può, oggi, aiutarci a trovare esperti in open data solo perché qualcuno ha ricombinato le componenti di ciò che oggi chiamiamo open data (tecnologie, standard, licenze etc.) in un modo nuovo, che risolveva certi problemi. Questo ha funzionato così bene che ha ricevuto un’etichetta, appunto open data, che oggi potete mettere nel vostro CV in modo che una ricerca nel database di Beth vi trovi. Quindi, la soluzione di Beth può trovare esperti di discipline già codificate, ma non quelli delle soluzioni in via di codificazione; ma sono questi ultimi quelli che contano, quelli che stanno sulla frontiera dell’innovazione.

Colander e Kupers hanno le proprie soluzioni, come racconto sopra. Sono soluzioni brillanti e sensatissime. Sono anche in netta rottura con il modo in cui il governo funziona oggi. È improbabile che emergano per caso. Chiunque abbia provato a fare innovazione in un’amministrazione pubblica sa quanto sia difficile fare passare qualunque cambiamento, anche piccolo. Come funzionerebbe la riprogettazione radicale auspicata da Colander e Kupers? Per diktat di qualche leader visionario? Possibile, ma ricorda: la modalità attuale di funzionamento della macchina governativa è emersa (“architettura senza architetti”). Entrambi i libri offrono resoconti sofisticati di questo emergere. Con tutta l’ammirazione che ho per i loro autori, mi pare incoerente che propongano, invece, una soluzione imposta dall’alto.

Quindi, dove vanno le politiche pubbliche del ventunesimo secolo? Al momento, non vedo alternative ad abbracciare il pensiero della complessità. È molto forte nell’analisi, e una volta che cominci a vedere le cose in questi termini è impossibile smettere di vederle. Inoltre, fornisce soluzioni implementabili localmente. Per esempio, in certi casi puoi convincere lo stato a fare cose coraggiose e innovative in via sperimentale, e sperare che quello che succede nell’esperimento venga imitato. Per ora, questo dovrà bastarci. Ma va bene così. L’età dell’innocenza è finita: oggi sappiamo che non c’è nessuna soluzione facile e veloce. Forse un giorno avremo soluzioni sistemiche non velleitarie: se mai ci arriveremo, è probabile che Beth Noveck, David Colander e Roland Kupers siano i primi a trovarle.

Photo credit: Cathy Davey on flickr.com