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La mappa degli immobili comunali inutilizzati, le residenze di unMonastery, Il database degli hotspot wi-fi: tre punti per gli smart citizens

Come in tutte le città, anche a Bologna la riduzione del personale addetto all’amministrazione comunale e altri fattori più contingenti hanno lasciato in eredità una serie di immobili di proprietà del Comune che il Comune non ha idea di come utilizzare (nè, avendo l’idea, ne avrebbe le risorse). Circa una settimana fa la città ha prodotto un elenco degli immobili inutilizzati e pubblicarlo in formato aperto sul sito di open data del Comune. Questo consente e incoraggia tutti i cittadini a scaricare i dati, visualizzarli su una mappa della città, immaginare modi per riutilizzarli. Il Comune ha anche attivato un indirizzo email per raccogliere eventuali suggerimenti o proposte che dovessero venire da cittadini, imprese o altri soggetti.

Un’altra città italiana, Matera, ha lanciato da pochi giorni una call internazionale per hackers e innovatori sociali. La proposta è molto radicale: diventare “innovatori residenti”, per un periodo minimo di un mese, vivendo in città e interagendo con la comunità locale per identificare soluzioni per una città migliore. Chiunque può partecipare, senza limiti di titoli, provenienza o età. Gli innovatori residenti vivranno e lavoreranno in unMonastery (ne abbiamo già scritto su CheFuturo), uno spazio di vita e lavoro di nuovo tipo ispirato alla vita monastica del decimo secolo e pensato, dice il fondatore Ben Vickers, per “mettere saperi globali in connessione stretta con un contesto locale”.

Contemporaneamente la rivista online CheFuturo ha lanciato una app gratuita che rende accessibili ventiquattromila punti di accesso al wi-fi su tutto il territorio italiano. Migliaia di cittadini italiani hanno contribuito a individuarli mediante semplici segnalazioni sui principali social network; verifica, mappatura e sviluppo dell’app sono stati realizzati dal gruppo di CheFuturo. Il dataset verrà custodito e aggiornato da Wikitalia, una non profit per il governo aperto (disclaimer: sono un membro del suo direttivo).

Queste tre storie italiane si sono sviluppate indipendentemente l’una dall’altra. Si svolgono in luoghi diversi; cercano di risolvere problemi diversi; i loro promotori – l’assessore all’agenda digitale Matteo Lepore a Bologna; il direttore del Comitato Matera 2019 Paolo Verri; il direttore di CheFuturo Riccardo Luna, ciascuno con il proprio gruppo di collaboratori – non si sono coordinati. Eppure, esse condividono uno stesso approccio, un’idea comune di come si fanno le cose. Di più: un’idea comune di come vivere insieme nelle nostre città. Questa: di fronte alle sfide più difficili, la carta migliore da giocare è l’intelligenza collettiva dei cittadini. Occorre quindi trasferire loro informazioni e potere di iniziativa, perché questa intelligenza possa dispiegarsi al meglio.

Si tratta di iniziative piccolissime, che – saggiamente – cercano di ottenere risultati con poche o nulle risorse. Eppure, contengono il germe dell’inversione di una tendenza millenaria nell’idea di cosa vuol dire “governare”. Dalla burocrazia ereditaria degli scribi nell’antico Egitto alla collettivizzazione forzata “scientifica” dell’Unione Sovietica di Stalin, passando per la repubblica dei re-filosofi di Platone e per il servizio civile meritocratico inventato dalla Cina imperiale, l’arte di governare si è quasi sempre basata sull’idea che i governati non sono in grado di prendere decisioni sagge. Questa tradizione immagina il buon governo come una decisione lungimirante, presa nell’interesse del popolo da un’élite attentamente selezionata. Lepore e Verri, invece, decentrano: non cercano di immaginare soluzioni ai rispettivi problemi; non cercano nemmeno di individuare a priori persone o organizzazioni che potrebbero costruire queste soluzioni (“apriamo un tavolo con l’università e le imprese”). Si limitano a informare e abilitare i cittadini, e non solo i propri, ma quelli di tutto il mondo. Internet rende quest’ultimo passaggio ovvio e gratuito. Perché no? È del tutto possibile che un materano abbia una buona idea per uno degli immobili del comune di Bologna, o che un ghanese se ne esca con una genialata realizzabile a Matera. Non ha senso tagliare fuori a priori quelle che potrebbero essere idee vincenti. Dall’altra parte di questo gioco ci sono cittadini come Luna, in grado di trasformare bisogni generici (“servono canali per rimanere connessi in mobilità”) in azioni speficiche (“facciamo una mappa degi hotspot wi-fi! Se li metti tutti insieme hai reso visibile una rete nazionale che abbiamo già, e neanche lo sappiamo”), e di farlo senza aspettare il permesso di nessuno.

Qualche mese fa mi chiedevo cosa volesse dire la parola “smart” nell’espressione smart cities. Mi rispondevo che ci sono due modi di intendere questo concetto. Uno considera che l’intelligenza delle città si concentri nelle sue università e nei laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi imprese, e assegna ai cittadini il ruolo di consumatori dei vari gadget che queste producono. L’altro, al contrario, considera che l’intelligenza delle città sia dispersa tra tutti i cittadini, e lavora per creare spazi in cui la creatività di tutti possa esprimersi. La prima concezione di smart cities fa auto elettriche; la seconda fa ciclofficine, hackerspaces e agricoltura urbana. Mi sembra evidente che le iniziative di Bologna, Matera e CheFuturo guardano proprio a questo secondo modo.

Da quanto ho capito, sia Matteo Lepore, sia Paolo Verri, sia Riccardo Luna hanno letto e meditato il post di CheFuturo che conteneva queste riflessioni. Ma che l’abbiano fatto o no poco importa: lo spirito di decentralizzazione radicale nelle loro scelte è una magnifica notizia per chi, come me, crede che la promozione della creatività dei loro cittadini sia la carta migliore oggi in mano alle città. Mentre nei tanti convegni dedicati all’argomento smart cities si continua a discutere di sensori, Internet delle cose e grandi investimenti da programmare, migliaia di smart citizens in tutto il paese si aggregano, sperimentano, falliscono, fanno progressi, spesso collaborando con le loro istituzioni. Gli uni hanno denaro e organizzazione; gli altri hanno tante persone e reti che le connettono. Sarà interessante, alla fine, vedere chi sarà stato più smart.

The road to the unMonastery: three low-cost moves towards becoming a smart community (Italiano)

photo: @nikoncolucci ©

Il tempio shinto Ise-jingū, in Giappone, ha funzionato ininterrottamente per milletrecento anni. Eppure, quando i monaci del tempio hanno chiesto che UNESCO, l’agenzia culturale delle Nazioni Unite, lo includesse nella sua lista di siti patrimonio dell’umanità, UNESCO ha rifiutato. Motivo: Ise-jingū è fatto di legno, un materiale non molto durevole. Ogni vent’anni circa, i monaci distruggono il tempio e lo ricostruiscono usando legno proveniente dallo stesso bosco da cui proveniva il materiale originale. Dal loro punto di vista, il tempio ha, in effetti, milletrecento anni – ma è costruito con materiale rinnovabile. Le linee guida di UNESCO, però, guardavano in tutt’altra direzione: in un sito patrimonio dell’umanità sono gli artefatti (come gli edifici o le strade) che devono essere antichi. La stabilità dei processi, invece, non era menzionata.

Questa storia è stata raccontata nel 2008 da Clay Shirky, che su di essa basa un’intuizione fulminante. Traduco qui le sue parole:

Wikipedia è un tempio shinto. Esiste non in quanto edificio, ma in quanto atto d’amore. Come il tempio di Ise, Wikipedia esiste perché c’è un numero sufficiente di persone che la amano, e, cosa più importante, si amano nel contesto che essa fornisce. Questo non significa che le persone che la costruiscono siano sempre d’accordo, ma amare qualcuno non preclude l’essere in disaccordo con lui.

Shirky ha ragione. Wikipedia – come tutte le comunità online – è un processo sociale. Se le persone che vi partecipano perdono la motivazione a parteciparvi, queste comunità si disintegrano quasi immediatamente.

Ho ripensato molto a queste considerazioni nel contesto del dibattito sulle smart cities. E ho capito questo: esse non sono vere solo per le comunità online, ma anche per quelle fisiche, come le città. Una città non è le sue strade, i suoi palazzi, la sua infrastruttura fisica. Una città è tutte queste cose, più il sapere locale che consente di mantenere, adattare, evolvere, migliorare la sua infrastruttura. Di questi due elementi, quello fondante è il sapere locale. Se esso è intatto, una città distrutta da un cataclisma può essere ricostruita e mantenere la propria identità; ma se il sapere locale scompare, il tempo e l’incuria abbatteranno i palazzi, interromperanno le vie di comunicazione, disperderanno la popolazione. Quindi, la città – qualunque città – è soprattutto software. E le componenti di questo software risiedono nei cervelli dei suoi cittadini. La città, alla fine, siamo noi che ci viviamo. UNESCO ha raggiunto la stessa conclusione, e ha finito per accogliere Ise-jingū tra i siti patrimonio dell’umanità.

Con queste idee che mi girano in testa, da qualche mese provo a collaborare con una città che amo molto, Matera, che si è candidata ad essere capitale europea della cultura nel 2019. Una candidatura consiste in un iter formale: immagino sia  possibile compierlo come un adempimento burocratico, una specie di “lista della spesa” di cui man mano spunti le caselle. Matera, però, ha un approccio più interessante: quello di usare la scusa della candidatura per riflettere sulla direzione che la città vuole prendere nel medio e lungo termine, indipendentemente dal fatto che venga effettivamente scelta come capitale europea della cultura oppure no. Cioè, alla fine, per aggiornare il software di Matera.

La città si avvale di un pool di esperti di alto profilo, ma nessun esperto, per quanto bravo, può essere più efficace dello sforzo combinato dei seicentomila cittadini lucani (e dei tanti non lucani che, come me, amano Matera e la Basilicata). Più si riesce a mobilitare la riserva di informazioni, competenza e passione dei cittadini, e più il percorso futuro della città sarà creativo, intelligente, sostenibile. Tra tante azioni a sostegno della candidatura, la città sta provando a fare tre mosse anche in questa direzione. Sono piccole e poco costose, ma secondo me significative.

La prima è una community online aperta con il mandato di arricchire il lavoro di preparazione del dossier di candidatura. In una prima fase si cerca di fare scouting, incoraggiando i materani che hanno esperienze o punti di vista interessanti a condividerli (esempio). Questo serve a scoprire le tante cose creative e interessanti che sempre, dappertutto, i cittadini fanno e le istituzioni non conoscono. Nella seconda fase, gli esperti professionali produrranno proposte (per esempio, in merito al concept della candidatura), e le discuteranno con i cittadini online. Il patto sociale del sito di community è di collaborazione costruttiva: tutti ci impegniamo per una discussione del livello più alto possibile. Per le piazzate, il narcisismo o il cinismo a buon mercato c’è sempre Facebook. Il sito di community – animato da uno straordinario web team di giovani volontari – non è ancora stato presentato, ma funziona già – bel segnale: le cose prima si fanno, poi se c’è tempo si tagliano anche i nastri.

La seconda mossa è una politica di open data. Il rilascio di dati pubblici in formato aperto è un tema caldo in tutta Italia, e può contare su un piccolo ma combattivo pezzo di società civile che lo difende con passione. Rilasciare dati di buona qualità significa investire nell’intelligenza collettiva dei cittadini, che hanno bisogno di buone informazioni per fornire buoni contributi alle decisioni pubbliche. A gennaio, un drappello di civic hackers lucani e non lucani ha fatto a Matera un regalo: una giornata di ricognizione sullo stato dei database del Comune, che ha portato a individuare un percorso possibile verso un primo rilascio di dati già nel 2013. In questo percorso, Comune e società civile camminano insieme.

La terza mossa è la più radicale: realizzare a Matera il primo unMonastery. Trainato da un gruppo fondatore prevalentemente nordeuropeo guidato da Ben Vickers, un londinese di 27 anni, unMonastery si ispira alla vita monastica del decimo secolo per incoraggiare forme radicali di collaborazione e innovazione: una specie di ordine mendicante laico per una società in grado di reggere meglio alle crisi di sistema presenti e future. Il senso è questo: nell’Europa della crisi – ma anche della diffusione della cultura hacker, in cui unMonastery è figlio legittimo – ci sono molti giovani scolarizzati, connessi e generosi. Aspirano al cambiamento di sistema, e non si sentono a loro agio né nelle istituzioni né nelle imprese; per loro innovazione non vuol dire inventare un nuovo gadget, ma attaccare i problemi di fondo di espansione dell’autonomia dell’individuo, giustizia sociale e sostenibilità ambientale. Hanno percorsi che a molti di noi sembrano rischiosi e poco comprensibili (Ben si è pagato gli studi vendendo armi e armature magiche conquistate in un gioco online, poi lavorando in una delle prime società di data mining); sono tecnologicamente avanzati, idealisti e quasi sempre poveri. UnMonastery fa loro la stessa offerta dei monasteri antichi: un letto, tre pasti al giorno, e tempo per pensare e realizzare le proprie idee. Matera ci aggiunge una cosa che i non-monaci, trovano irresistibile: un’interfaccia con una comunità locale che vuole crescere e ha alcuni problemi da affrontare.

La scommessa di questa collaborazione è che, vivendo fianco a fianco, hackers e materani scoprano ed esplorino insieme nuove strade per rendere la città più bella, vivibile, sostenibile e low cost. Possiamo inventare sistemi (parzialmente) bottom-up per l’igiene urbana e la raccolta dei rifiuti? Cosa si può imparare facendo reverse engineering delle antiche tecnologie di raccolta dell’acqua piovana, in uso a Matera fino all’Ottocento? Come si risolve il problema di spostare cose e persone nei Sassi, dove ci sono più scalinate che strade, riducendo l’uso dell’auto privata?

Le imprese, finora, non hanno risolto questi problemi (anzi, hanno contribuito a crearli – basti pensare all’industria dell’automobile). Non possono permetterselo: hanno il dovere di fare profitti, e questo significa percorrere solo strade che conducono a flussi di reddito in tempi brevi e ragionevolmente prevedibili. I cittadini e i loro ospiti non-monaci non hanno questi problemi, e possono permettersi di esplorare soluzioni anche molto visionarie, e semplicemente scartarle se si rivelano non praticabili. Risultato: molti più tentativi, molti più fallimenti… ma, con ogni probabilità, più successi. Se poi si scopre qualche soluzione che può diventare un’impresa, beh, perché no? L’incubatore di Sviluppo Basilicata è, letteralmente, il vicino di cortile del futuro unMonastery. Saranno lieti di dare una mano.

È ancora presto per trarre conclusioni, ma Matera sembra avere l’attitudine di una smart city, nel mio senso preferito del termine: punta sulla decentralizzazione del sapere e delle decisioni, crea spazio e promuove la creatività di tutti i soggetti. Lo si è visto con il lancio di unMonastery, un bellissimo incontro tra hackers e città (Ben, commosso, ha parlato del “dono di Matera all’unMonastery”); anche le critiche al progetto (in parte giuste, secondo me) indicano una relazione sana e costruttiva.

La strada è lunga, e tutte queste mosse potrebbero benissimo fallire: ma siamo partiti bene. Buon viaggio a Matera e ai “suoi” non-monaci!

Se vuoi diventare unMonasterian leggi qui.

Cosa vuol dire “smart” in “smart cities”?

Si parla moltissimo di smart cities. Per questa grande attenzione ci sono, a mio parere, due motivi.

Il primo è strutturale: le città sono il nostro futuro come specie. Già ora, e per la prima volta nella storia dell’umanità, oltre metà della popolazione mondiale vive in città. Ogni settimana, 1.3 milioni di persone si trasferiscono  in città dalle campagne del pianeta Terra. Ha molto senso che applichiamo la nostra intelligenza al nostro habitat numero uno.

Il secondo è contingente: il Governo ha messo sul piatto oltre 600 milioni di euro per progetti di ricerca e intervento volti a “risolvere problemi di scala urbana e metropolitana” in ambiti come sicurezza, invecchiamento, tecnologie per il welfare, domotica, smart grids eccetera.

L’interferenza tra i due fa sì che l’espressione “smart cities” venga intesa nei modi più diversi. Semplificando un po’, ma neanche troppo, le proposte più importanti sono due. La prima (anche nel senso che è stata la prima in ordine di tempo) è associata ad alcune grandi imprese: IBM, Cisco, ma anche Google con progetti come Latitude. L’idea è quella di usare sensori collegati in rete per aumentare la densità del flusso di informazioni che le città ci passano, adattandovi i nostri comportamenti e usandolo per riprogettare e migliorare i luoghi in cui viviamo. La riprogettazione doterà il territorio di nuove infrastrutture, ad esempio: le colonnine per la ricarica delle batterie delle auto elettriche, a loro volta collegate a nuovi sensori. I sensori più importanti sono a bordo dei nostri smartphone, che riversano in continuazione in grandi basi dati informazioni sul mondo che ci circonda. Al centro di questa visione stanno tecnologie e interdipendenza: il suo simbolo è la famosa Copenhagen Wheel del MIT.

La seconda proposta è associata alla cultura hacker e al mondo dell’innovazione sociale. L’idea è quella di riprogettare le città per renderle più comode, semplici, sostenibili anche economicamente. Qualche volta questo implicherà l’introduzione di tecnologie più avanzate di quelle attuali (per esempio il microsolare, illuminazione pubblica a LED); altre volte spingerà soluzioni low tech (la bicicletta, l’agricoltura urbana). Al centro di questa visione stanno relazioni sociali, costruzione di comunità e consapevolezza della fragilità dell’ambiente naturale che circonda le città costruite da homo sapiens. Il suo simbolo è la Ciclofficina.

La prima proposta schiera tecnologie avanzate, design curato, ricercatori di riconosciuta eccellenza. Tutti i pezzi, presi singolarmente, sono smart. Eppure accade una cosa strana: una volta messe insieme, le parti danno vita a un intero (la città) che a me non pare smart per niente. Prendete le auto elettriche. Sono silenziose e non emettono gas di scarico. Ma:

  • l’energia elettrica con cui ricaricarle deve venire prodotta in qualche modo. In un mondo in cui le sorgenti idroelettriche sono già sostanzialmente sfruttate e il nucleare è politicamente inaccessibile, aggiungere potenza installata vuole dire bruciare idrocarburi. Le emissioni delle auto, quindi, non vengono eliminate, ma solo spostate. Le emissioni possono diminuire o aumentare a seconda delle caratteristiche delle centrali esistenti e della rete; le centrali a idrocarburi disperdono in calore il 50% dell’energia derivante dalla combustione; un altro 5% viene disperso nella rete elettrica durante il trasporto (fonte). Dunque, di 100 KW imprigionati nel gasolio, solo 45 arrivano alla batteria dell’auto elettrica.
  • richiedono una costosa infrastruttura.
  • le auto elettriche sono auto: ripropongono l’idea che occorre associare a ogni essere umano una scatola di latta di quattro metri per uno e mezzo per uno, che viene usata in media un’ora al giorno e occupa prezioso territorio urbano per le altre ventitré. Quindi non risolvono i problemi di mobilità – anzi, li aggravano, visto che possono entrare nelle zone a traffico limitato.
  • sono una tecnologia non permissiva. Non puoi modificarle, non puoi caricarle in altro modo che non collegandoti alla rete elettrica. Ci confinano in ruolo passivo – lo stesso che abbiamo con le auto a combustione interna.

Prendiamo, invece, una soluzione alla mobilità apparentemente meno innovativa: le congestion charges, cioè quei provvedimenti che obbligano chi accede in auto al centro cittadino a pagare una tariffa. L’esempio italiano più noto è quello dell’Area C del Comune di Milano. I risultati di Area C parlano da soli: riduzione degli ingressi del 34% (49% per i mezzi più inquinanti), aumento della velocità commerciale dei mezzi pubblici del 5%; riduzione degli incidenti stradali del 24% dei ferimenti del 24%; riduzione dei principali agenti inquinanti dal 15% al 23% (fonte).

Ma il più grande vantaggio di Area C, a ben vedere, è che crea spazio invece di occuparlo. In prospettiva, rende disponibili le vie del centro come piattaforma per l’interazione sociale, il gioco, il commercio, la ristorazione, l’innovazione negli stili di vita. Non dovendo dedicare la maggior parte della loro superficie alle auto, veloci e pericolose, le persone possono provare a spostarsi con le biciclette, i rollerblade, di corsa. Hobbyisti di talento e artigiani della meccanica possono dare vita a nuovi ecosistemi attorno alla mobilità urbana leggera: nei paesi che hanno già fatto questa transizione si vedono biciclette con trailers, biciclette con pianali di carico per il piccolo trasporto merci. Si vedono bambini che possono andare a scuola da soli, liberi dalla minaccia delle auto.

Quindi, cosa vuol dire smart in smart city? Le due visioni che ho provato a raccontarvi si non sono chiaramente distinte nel dibattito corrente. A me, però, sembra che siano non solo diverse, ma contrapposte. La smart city del primo tipo ha una vocazione centralista: tutta l’intelligenza è concentrata nei tecnologi delle imprese e delle università, e ai cittadini resta il ruolo di consumatori dei vari gadget. Quella del secondo tipo guarda alla decentralizzazione spinta: crea spazio, e promuove la creatività di tutti. La smart city del primo tipo usa algoritmi di profilazione e il tuo smartphone per segnalarti che sei vicino a un negozio che vende abiti del tuo stilista preferito. Quella del secondo tipo è piena di gruppi di acquisto solidale, orti urbani, sewing café, hackerspace, fablab. La smart city del primo tipo fa grandi investimenti in telefonia cellulare ultraveloce. Quella del secondo tipo evoca quasi dal nulla reti wi-fi cittadine utilizzando come hotspot i router delle nostre case, dei bar, delle biblioteche (come fa a Milano GreenGeek). Nella smart city del primo tipo gli studenti vanno a scuola con i tablet. In quella del secondo tipo usano materiali didattici in creative commons – e probabilmente possono scegliere se ascoltare la lezione dal loro professore in aula o dalla Khan Academy o OilProject in video. La smart city del primo tipo delega le attività produttive (agricoltura, industria, finanza) a grandi imprese strutturate per sfruttare i vantaggi di scala. Quella del secondo tipo le distribuisce, almeno in parte, tra tante piccole esperienze: permacoltori, makers, community lending.

Si sarà capito che io trovo molto più smart e più moderna l’idea di decentrare. Ma c’è un problema: quasi tutto quello che è smart in questo senso riduce il PIL. Se i mezzi pubblici funzionano meglio, più gente li usa: il traffico si riduce, ma si riduce anche il consumo di automobili e di benzina. Se le persone fanno più sport e si ammalano di meno il PIL si riduce (la sanità è un business immenso). L’AreaC, riducendo gli incidenti stradali, riduce il PIL, riducendo il ricorso a medici, fisioterapisti, carrozzieri. Le smart cities del primo tipo non hanno questo problema: la Copenhagen Wheel costa 600 dollari, e per funzionare richiede anche un iPhone (oltre alla bicicletta), tanto che il Guardian si è chiesto cosa ci fosse di smart nel mettere oltre mille euro di elettronica sofisticata su una bicicletta, un oggetto facile da rubare.

La scelta di centralizzazione piace molto alle imprese. È comprensibile, perché consegna loro una forte centralità e modalità chiare per monetizzare. Non ho dubbi che saranno loro le protagoniste nella vicenda del famoso bando dal governo. Eppure, ho l’impressione che negli ultimi mesi si cominci a sentire anche la voce dei sostenitori di soluzioni decentralizzate – che viene, come al solito, dal più decentralizzato dei luoghi, cioè da Internet.

L’aspetto affascinante della discussione sulle smart cities è che ci costringono a farci le domande che contano davvero. Cosa misura davvero il PIL? Cos’è veramente questa crescita che cerchiamo di stimolare? Come vogliamo vivere insieme nelle nostre città? Comunque andrà a finire, spero che ci prenderemo il tempo e le energie mentali per andare a fondo della discussione. Non capita tutti i giorni di prendere decisioni collettive così ad ampio raggio, che ci costringono a chiederci davvero cosa vogliamo, e come vogliamo vivere insieme. Per cogliere pienamente questa occasione, spero che i primi sensori delle nuove smart cities saranno sensori di ascolto della voce dei cittadini (e intendo gli individui, non solo gli stakeholders); e che le loro prime tecnologie abilitanti siano ambienti accoglienti e orientati all’argomentazione razionale, collocati sia online che offline, in cui prendere insieme le decisioni del caso. Il primo spazio da decentralizzare è proprio quello della decisione pubblica, dove la decentralizzazione si chiama democrazia.