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Wikicrazia in vendita su Facebook: storie dall’economia ricablata

L’avventura di Wikicrazia continua: siamo entrati nella fase in cui me ne vado in giro per il mondo a raccontare il libro. Ho tenuto la prima presentazione alla Social Media Week Milano (un estratto è nel video qui sopra, con tanto di colonna sonora dei Modena City Ramblers; c’è anche un resoconto su Wired), e la seconda al Personal Democracy Forum Europe a Barcellona. Saremo a Bologna il 27 ottobre (info), a Senigallia il 20 novembre e abbiamo già ricevuto parecchie altre richieste, che man mano andremo confermando. Non mi aspettavo tanto calore da parte di wikicratici e semplici lettori! Grazie davvero a tutti quelli che ci stanno sostenendo e aiutando in questo percorso.

Nel frattempo ho scoperto una cosa divertente. Il mio editore, Ottavio Navarra, è un utente forte di Facebook (ha oltre quattromila amici, e ha dovuto creare una pagina personale per evitare che Zuckerberg gli cancellasse l’account). Nelle settimane che il libro ci metterà a percorrere il circuito distributivo e arrivare alle librerie, Ottavio ha messo in vendita il libro sia dal sito che su Facebook. La vendita su Facebook funziona così: si manda un messaggio a Ottavio da qui, dicendo che si vuole il libro e indicando un indirizzo. La casa editrice spedisce il libro (accollandosi anche le spese di spedizione) insieme a un bollettino di conto corrente postale o per un bonifico, prima di ricevere il pagamento. E come fa a garantirsi che la gente non si tenga il libro e non paghi? Semplice: non si garantisce. Si fida. Ottavio non è preoccupato “Sono quasi tutti miei amici su Facebook” mi ha detto. E infatti pagano tutti. Un lettore ci ha addirittura scritto che “Il regalo più bello in quel pacco era la fiducia”.

Traduco nel linguaggio degli economisti: le transazioni di mercato non sono più anonime. Facebook e gli altri social network rendono molto più semplici e veloci gli effetti reputazione; commettere una scorrettezza naturalmente è ancora possibile, ma il colpevole perderà istantaneamente di credibilità. Dovrà ricostruire una nuova identità digitale con un altro nome, e questo non è nè semplice nè veloce: per i 15 euro del libro non ne vale la pena.

L’economia sta cambiando molto più in fretta di quanto noi economisti riusciamo a cambiare il nostro modo di pensare. E non va bene per niente, perché rischiamo di fare più male che bene consigliando ricette pensate per sistemi economici del tutto diversi. Bisognerà pensarci.

Wikicrazia on sale on Facebook: true stories from the rewired economy

Sorry, this post is in Italian only. As usual, clicking on the “Translate” link above will give you access to an automated translation. Executive summary: my book Wikicrazia is finished, and I am on the road to present it. While the book makes it through the dead tree distribution pipeline, I have learnt that my publisher is selling it on Facebook: the funny thing is that you give him your address and he sends you the book, trusting you to pay later. He is right too: he in seeing zero delinquency rate. Web 2.0 acts as a catalyzer on reputation effects, and erodes the anonimity of transactions at the basis of partial equilibrium theory in textbook economics. Are all our models wrong? Will we be able to reform them or drop them or are we too invested in them?

L’avventura di Wikicrazia continua: siamo entrati nella fase in cui me ne vado in giro per il mondo a raccontare il libro. Ho tenuto la prima presentazione alla Social Media Week Milano (un estratto è nel video qui sopra, con tanto di colonna sonora dei Modena City Ramblers; c’è anche un resoconto su Wired), e la seconda al Personal Democracy Forum Europe a Barcellona. Saremo a Bologna il 27 ottobre (info), a Senigallia il 20 novembre e abbiamo già ricevuto parecchie altre richieste, che man mano andremo confermando. Non mi aspettavo tanto calore da parte di wikicratici e semplici lettori! Grazie davvero a tutti quelli che ci stanno sostenendo e aiutando in questo percorso.

Nel frattempo ho scoperto una cosa divertente. Il mio editore, Ottavio Navarra, è un utente forte di Facebook (ha oltre quattromila amici, e ha dovuto creare una pagina personale per evitare che Zuckerberg gli cancellasse l’account). Nelle settimane che il libro ci metterà a percorrere il circuito distributivo e arrivare alle librerie, Ottavio ha messo in vendita il libro sia dal sito che su Facebook. La vendita su Facebook funziona così: si manda un messaggio a Ottavio da qui, dicendo che si vuole il libro e indicando un indirizzo. La casa editrice spedisce il libro (accollandosi anche le spese di spedizione) insieme a un bollettino di conto corrente postale o per un bonifico, prima di ricevere il pagamento. E come fa a garantirsi che la gente non si tenga il libro e non paghi? Semplice: non si garantisce. Si fida. Ottavio non è preoccupato “Sono quasi tutti miei amici su Facebook” mi ha detto. E infatti pagano tutti. Un lettore ci ha addirittura scritto che “Il regalo più bello in quel pacco era la fiducia”.

Traduco nel linguaggio degli economisti: le transazioni di mercato non sono più anonime. Facebook e gli altri social network rendono molto più semplici e veloci gli effetti reputazione; commettere una scorrettezza naturalmente è ancora possibile, ma il colpevole perderà istantaneamente di credibilità. Dovrà ricostruire una nuova identità digitale con un altro nome, e questo non è nè semplice nè veloce: per i 15 euro del libro non ne vale la pena.

L’economia sta cambiando molto più in fretta di quanto noi economisti riusciamo a cambiare il nostro modo di pensare. E non va bene per niente, perché rischiamo di fare più male che bene consigliando ricette pensate per sistemi economici del tutto diversi. Bisognerà pensarci.

Arte e mercato (a Modena)

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Mi sono divertito molto al seminario di Modena, ma credo di avere sovrastimolato parte della platea. Lo dico perché la discussione seguita alla presentazione del paper si è incentrata soprattutto su un aspetto “ideologico”, quello del rapporto tra arte e mercato. Antonella Picchio diceva di essere preoccupata per gli artisti trattati come merce; io ho provato a risponderle che il mercato siamo noi, ma per lei questo significa essere immersi nell’ideologia liberista del mercato come democrazia, dell’acquisto come voto ecc. Antonio Ribba, invece, mi ha chiesto se non penso che comunque l’arte non commerciale vada sostenuta, per evitare “di chiudere il Teatro San Carlo di Napoli”, che non è sostenibile in nessuno scenario a causa del morbo di Baumol.
Provo a chiarire la mia posizione:

  1. il problema del sostegno pubblico all’arte è un problema classico di fallimento del mercato, affrontato con il quadro teorico della microeconomia pubblica. Io di questo so poco, anche se prendo atto del fatto che Peacock [1993] sostenga che non esistono argomenti convincenti a favore dell’idea che lo stato debba sostenere l’arte.
  2. come ha detto Paolo Bosi il mio paper si occupa di un problema totalmente diverso, che è quello dell’uso delle industrie creative come asse di politiche per lo sviluppo economico (più in chiave di competitività nazionale che in chiave di coesione territoriale)
  3. comunque, il mercato visto dal mondo creativo (penso soprattutto alla musica, ma ho provato a fare anche un caso non artistico – ma forse creativo sì – quello di Ducati) non è la cosa che ha in testa Antonella. Mi sembra che sia un po’ finita l’era del consumo culturale passivo, che passa attraverso mezzi di comunicazione di massa ed è spinto da tecniche di persuasione occulta. Quando ero piccolo tutti guardavano Happy Days prima del telegiornale della sera e poi ne parlavano a scuola il giorno dopo: oggi i ragazzi partecipano a gruppi di interesse su internet in cui si interessano di manga giapponesi o di sport esoterici. Oggi, per parafrasare il Cluetrain manifesto, i mercati sono conversazioni umane, e parlano con voce umana. Il mercato del mio gruppo, i Fiamma Fumana, è fatto da gente come me: gente che ama la diversità, i suoni del mondo, le cornamuse, le voci delle mondine e le console dei dj e i loro omologhi mongoli o etiopi, e non ha nessuna voglia di stare dietro all’ennesimo idolo di plastica o al prossimo Grande fratello. E’ gente che rispetto e stimo. Se questa gente compra i miei dischi, mi onora e mi fa oggetto di mecenatismo; se smette di comprarli probabilmente è colpa mia, ho fatto un brutto disco. Nel rapporto con loro trovo la mia libertà artistica: se lo stato mi passasse uno stipendio fisso “perché sono un artista” ma mi impedisse di cercare il rapporto con queste persone non mi farebbe un favore. Anche l’arte è come una conversazione, o come il sesso: si può fare anche da soli, ma non viene altrettanto bene.
  4. l’utopia del Cluetrain manifesto non è più tale, perché la tecnologia ha abbattuto (e talvolta azzerato) i costi di distribuzione dei prodotti creativi; contestualmente ci ha dato il “web sociale”, le comunità come Myspace o Last.fm in cui possiamo ritrovarci con le persone che condividono le nostre stesse passioni e farci contagiare da passioni nuove. L’effetto di questa situazione è che puoi vivere di nicchie: anzi, secondo me succede che i progetti artistici acquisiscono una nuova radicalità, perché l’adesione tiepida e distratta di grandi masse non ti dà reddito (al massimo quelli scaricano i tuoi pezzi da eMule), mentre il sostegno convinto di una piccola minoranza sì.

Si capisce?

PS – Potete scaricare le slides della presentazione o l’intero saggio.