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Perché creare un servizio open government sarebbe un errore

A giudicare dai segnali che mi arrivano dall’Italia, il nuovo governo è deciso ad adottare pratiche di governo aperto. È plausibile: molti ministri sono abbastanza curiosi per indagare nuove strade, e abbastanza attrezzati intellettualmente per stare in questo spazio da protagonisti. Fabrizio Barca, per esempio, ha scritto una recensione del mio libro Wikicrazia che mostra una comprensione profonda e non acritica del tema. Il più convinto è forse Francesco Profumo, che nel 2011, appena nominato presidente del CNR, si stava già muovendo per aprirne la governance. Non a caso, Profumo ha rivendicato e ottenuto la delega all’innovazione.

Il problema interessante è come realizzare l’apertura della pubblica amministrazione italiana, superandone le inevitabili resistenze. Semplificando al massimo, consideriamo due possibilità: una strategia top-down, imperniata sulla produzione di norme e linee guida, e una bottom-up, imperniata sulla costruzione di capacity nelle varie amministrazioni non solo dello Stato, ma anche e soprattutto delle Regioni.

La strategia top-down consiste nel costituire un forte nucleo tecnico per l’Open Government presso il Dipartimento per l’innovazione. Questo nucleo scrive regole che impongono l’adozione di pratiche di trasparenza radicale e collaborazione con i cittadini; e produce strumenti perché le altre amministrazioni possano incamminarsi su questo percorso (per esempio linee guida, definizioni, allegati tecnici). Se ha successo, questa strategia costruisce una nuova istituzione al centro, che sa fare open government.

La strategia bottom-up consiste nell’infiltrare l’agire delle diverse amministrazioni dello Stato e delle Regioni di progetti e politiche aperte e trasparente. L’obiettivo non è accentrare le competenze, ma piuttosto decentrarle; e non è strutturare l’apertura e la trasparenza come una specie di aggiunta a valle del modo normale di costruire policies, ma piuttosto incorporarle in tutto il ciclo di vita delle policies stesse, dalla progettazione alla valutazione ex post. Se ha successo, questa strategia costruisce, nelle istituzioni esistenti, nuova capacità di fare in modo aperto pubblica istruzione, sanità, infrastrutture, e così via.

È chiaro che le due strategie non sono alternative, ma complementari. Servono strumenti nazionali: per esempio, ci vuole un Freedom of Information Act italiano, una garanzia di trasparenza di ultima istanza, e questo non si può fare che dal centro. Ma io credo che la strategia che ho chiamato bottom-up dovrebbe essere quella principale. La ragione è questa: un nucleo tecnico che “possiede” l’open government rischia di essere vissuto con fastidio dalle amministrazioni operative; e queste possono fare fallire le politiche di governo aperto semplicemente non cooperando, o considerandole come un adempimento, un dovere burocratico. Sarebbe un disastro. Ascolto e collaborazione non si possono fare controvoglia. Il governo aperto per forza si capovolgerebbe in una triste mascherata.

Un consiglio non richiesto a Profumo: ministro, resista alla tentazione di concentrare le intelligenze intorno a sé. Promuova piuttosto una comunità di pratica degli amministratori italiani che fanno governo aperto; organizzi una conferenza annuale, rilanci Innovatori PA, apra canali per mandare i funzionari desiderosi di imparare a lavorare un anno con le amministrazioni all’avanguardia mondiale in questo capo; usi l’autorevolezza della sua delega per premiare chi fa bene, a qualunque livello; apra spazi per la società civile. Non crei un altro silo verticalmente separato dagli altri; lasci piuttosto che gli uomini e le donne dell’open government stiano in trincea, dove le politiche pubbliche vengono fatte davvero e non solo dibattute o valutate. Cerchi, insomma, di stimolare la domanda di apertura da parte delle amministrazioni operative, piuttosto che imporgliela. Si rischia che il risultato sia la solita situazione “a macchia di leopardo” italiana, con alcune amministrazioni all’avanguardia e altre no. Ma tutto sommato, meglio questo che una mancanza di trasparenza uniforme.

Etnografia accresciuta: elaborare dati qualitativi da conversazioni massive


Sto lavorando su un progetto chiamato Edgeryders, un esercizio di collaborazione su larga scala per ridisegnare le politiche pubbliche sui giovani. L’idea è di fare in modo che i partecipanti condividano le loro esperienze su temi rilevanti: per esempio, come guadagnarsi da vivere in un mercato del lavoro precario, o come influenzare le decisioni politiche. Man mano che il progetto issa le vele, fa quello che fanno i progetti di crowdsourcing: aggrega un torrente di dati esperienziali. Nel mio libro e altrove ho sostenuto che le conversazioni rispettose convergono: si raggiunge un consenso e si passa oltre. Il problema è come trasmettere questa convergenza in modo verificable a osservatori esterni – nel caso di Edgeryders, ai governi europei e alla Commissione. Pretendere che essi si leggano i dati grezzi, anche in piccola parte, non è realistico. Cosa possiamo fare?

Io punto sull’etnografia. I metodi etnografici sono paticolarmente adatti a questo tipo di indagine, perché sono progettati per incorporare il punto di vista delle persone che studiano. I aggiungerei che sono anche adatti all’etica della rete: non siamo le cavie, siamo il laboratorio – così come non siamo i consumatori ma i protagonisti dei nostri luoghi di ritrovo online. L’etnografia moderna usa software come Atlas.ti la sua controparte open source Weft QDA per annotare le trascrizioni delle interviste.

I vantaggi di raccogliere i dati via social network online come Edgeryders sono due.

  • I dati sono già in forma scritta. Un costo molto significativo dell’analisi etnografica, la trascrizione delle interviste, viene quindi evitato (nel 2006 costava 100 euro per ogni ora di registrazione).
  • Decisivo: i dati sono connessi in una conversazione. I participanti commentano, contraddicono, lodano gli uni gli altri. Ciò che appare come “interviste” diverse (guardate questo esempio grandioso) sono in realtà collegate tra loro da una ragnatela di legami sociali, che sono codificati in un database e si prestano all’analisi quantitativa.

Per sfruttare queste caratteristiche, stiamo provando a sviluppare una metodologia che chiamo etnografia accresciuta. Dovrebbe funzionare più o meno così:

  1. per prima cosa, organizza il materiale per partecipante. In Edgeryders, questo significa raccogliere tutti i mission reports (una specie di blog post), i commenti e le informazioni del profilo utente associati a ciascun utente. Questo produce una specie di super-intervista per ciascun partecipante attivo. Annota il materiale, da bravo etnografo.
  2. poi, specifica una rete per rappresentare la conversazione. In prima approssimazione, io comincerei considerando l’intero social network online come un’unica grande conversazione, di cui i partecipanti sono i nodi. Un link viene creato tra due partecipanti, Alice e Bob, a seconda di una qualche interazione scritta nel database. La più intuitiva è che Alice e Bob sono connessi tra loro se almeno uno di loro ha commentato un mission report dell’altro, o se entrambi hanno commentato un mission report di una terza persona. Edgeryders è progettato con una ridondanza nel tipo di relazioni che i partecipanti possono intrattenere, per dare modo alla comunità di evolvere (per exaptation) diversi significati per diversi tipi di relazioni.
  3. computa le metriche della rete e cerca di interpretarle, cercando informazioni di struttura utili. Una delle prima cose che proverei è calcolare le misure di centralità per ciascun partecipante. Questo potrebbe aiutare a risolvere un classico problema dell’etnografia: il ricercatore arriva in un’isola remota per studiare una comunità che non conosce. Intervista una persona, e raccoglie molta informazione. Come interpretarla? Molto dipende da se questa persona è un membro rispettato della comunità o lo scemo del villaggio – e il ricercatore può non avere un modo semplice di capirlo, perché non conosce (ancora) la cultura che sta studiando. Ma in una conversazione rispettosa e orientata ai fatti, lo scemo del villaggio difficilmente è centrale.
    Certo, questo è solo un abbozzo. Non ho dubbi che si possano fare molti trucchi intelligenti con l'”etnografia su database”. Il problema è trovare ricercatori che possano avvantaggiarsi di questo tipo di analisi: etnografi competenti che possano assorbire anche i risultati dell’analisi di rete. Lettori: ne conoscete? C’è qualcuno interessato a continuare questa conversazione, e magari dare una mano a me e alla mia squadra?

Semi che germogliano: la lunga marcia di Visioni Urbane

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Era il 2007 quando ho iniziato a lavorare a Visioni Urbane, un progetto della Regione Basilicata che si proponeva di realizzare alcuni spazi per la cultura. Nel gruppo di lavoro rappresentavo il Ministero dello sviluppo economico; il mio compito era di spingere il progetto nella direzione di investire molto sulle competenze creative e imprenditoriali invece che nella costruzione di edifici.

I risultati di Visioni Urbane hanno superato le migliori previsioni. Il progetto – almeno per ora – ha avuto successo: la scena creativa lucana, in precedenza divisa da una cultura di sospetto reciproco, ha collaborato con generosità e competenza con la Regione per progettare una rete di nuovi centri per la cultura. Quattro di questi sono stati anche realizzati, non costruendo nuovi edifici ma recuperando edifici pubblici esistenti ma in decadenza e non utilizzati (in questo modo, circa 3 milioni di euro di nuovi investimenti in mattoni hanno messo a valore 10 milioni di euro di investimenti pubblici già effettuati), mentre un quinto, a causa di problemi strutturali insanabili, ha dovuto essere demolito ed è attualmente in corso di ricostruzione. La gestione di tutti e quattro i centri completati è stata messa a bando; in tre casi è già stata assegnata, mentre il quarto bando scade a gennaio. Due dei tre bandi già assegnati sono stati vinti da consorzi di associazioni e piccole imprese della comunità di creativi raccolta intorno al progetto.

Questi sono già ottimi risultati. Ma ancora più notevole è il fallout di Visioni Urbane: il piccolo gruppo di funzionari che lo ha condotto, e che risponde direttamente al Presidente della Regione, ha esteso l’approccio del progetto ad altre policies, parzialmente integrate con VU stesso. A quanto ne so io:

  • la rete di coordinamento tra i centri immaginata per Visioni Urbane si è evoluta in una fondazione di comunità, partecipata dalle associazioni e le imprese della comunità creativa, da diversi enti locali e dalla Fondazione per il Sud (che funziona da acceleratore, perché raddoppia la dotazione finanziaria raccolta dagli altri soci). La comunità appoggia energicamente questa operazione.
  • la linea di apertura a collaborazioni nazionali e internazionali di VU ha attecchito; i bandi per lo startup dei centri saranno aperti anche a soggetti esterni al territorio.
  • il gruppo di VU è stato protagonista nel lanciare la candidatura di Matera a capitale europea della cultura nel 2019. La responsabile del progetto e il direttore vengono entrambi dall’esperienza di Visioni Urbane.
  • la Basilicata ha costituito una film commission negli ultimi mesi del 2011. La comunità creativa ha chiesto più volte che il metodo molto partecipato di Visioni Urbane venisse applicato anche in quel caso. Non sono sicuro, però, che questo sia effettivamente accaduto.

Visioni Urbane è stato un progetto generativo. Nei primi tempi è stato necessario fare un investimento iniziale di attenzione, tempo e libertà. Attenzione ai dettagli, per imparare a fare fruttare al massimo ogni occasione e ogni euro di denaro pubblico; e tempo e libertà di azione per crescere, esplorare le alternative a disposizione, rimettere in discussione il proprio modo di pensare la policy (ne ho parlato nel mio libro). Questo ha ridotto, inizialmente, l’efficienza amministrativa misurata in velocità di spesa (ci abbiamo messo diversi anni a spendere quattro milioni di euro), ma ha lasciato all’amministrazione nuovi strumenti per analizzare e per fare. In tempi di crisi e di risorse calanti, è un pensiero che mi dà speranza.