Contro i beni di lusso (e Slow Food)

In quasi tutti i sistemi fiscali i consumi di lusso sono scoraggiati con una tassazione più pesante rispetto a quelli ritenuti “normali”, qualsiasi cosa questo significhi. In qualunque corso introduttivo di scienza delle finanze vi diranno che ci sono due ragioni per questo. Una è che la domanda di questi beni è meno reattiva al prezzo di quella dei beni non di lusso. Quindi un aumento della tassazione si tradurrà in una riduzione della domanda (quindi in una diminuzione del PIL), ma essa sarà minore di quella che si sarebbe avuta tassando allo stesso modo beni non di lusso. L’altra ragione è che sono in genere i ricchi a consumare maggiormente questi beni, e gli economisti sono addestrati a considerare l’equità distributiva un valore. A parità di altre condizioni, meglio tassare i ricchi.

Queste argomentazioni sono valide in un modello statico e in equilibrio. Di equilibrio, perché si concentra su quella condizione ideale (e di fatto non verificabile nella realtà) in cui tutti i consumatori hanno massimizzato la loro utilità, e tutte le imprese il loro profitto. Statico, perché in esso manca il tempo. In particolare, manca il progresso tecnico.

Per questa ragione sono contrario al movimento Slow Food, e alla presenza sempre più invadente della filiera enogastronomica nel discorso italiano sullo sviluppo locale. Hai presente il gnocco fritto? Le mie zie a Reggio Emilia lo facevano a primavera per tutti i nipoti. Potevi mangiarlo in certe trattorie dell’appennino a prezzi ridicoli. Era buono ed economico. Era un sapore di casa. Si friggeva (obbligatorio) nello strutto. Si annaffiava con il lambrusco fatto in casa, con le bollicine che scrostano il grasso di maiale dallo stomaco. Bene, dimenticatelo. Da oggi il gnocco fritto si mangia nei ristoranti infighettati con finti strumenti musicali appesi alle pareti e l’adesivo del Gambero Rosso (“cus’ela?” avrebbe brontolato mia nonna, una vera esperta in materia). Si frigge nell’olio, addensato e agglutinato per dargl la consistenza dello strutto. Costa 35 euro a coperto, e non è affatto più buono di quando costava cinquemila lire vino compreso.

Ma c’è di peggio. I marchi di garanzia che proliferano nella nostra tanto decantata filiera del gusto vengono concessi agli alimenti che vengono prodotti rispettando dei protocolli chiamati disciplinari. Nei disciplinari c’è scritto non solo cosa, ma come devi produrre. E questo è decisivo, perché blocca l’innovazione. Se vuoi il marchio devi fare tutto esattamente come tutti gli altri che hanno quel marchio. La conclusione è che i grandi prodotti veramente buoni per definizione non possono avere marchi; i grandi vini, per esempio, non sono Doc, perché mischiano vitigni di provenienze diverse per ottenere prodotti di eccellenza. Paradossale? No, perché i marchi di garanzia mica servono a fare prodotti buoni: servono ad alzare i margini. Se un genio dell’agronomia riuscisse a fare uno spumante buono come il Veuve Cliquot, ma che costa come il Tavernello, o un formaggio buono come il parmigiano reggiano con latte di cammello a cinque euro al chilo, non troverebbe nessuno disposto a dargli un marchio. Il marchio garantisce i prodotti esistenti contro la concorrenza di quelli nuovi.

Conclusione: Slow Food, come buona parte della filiera del gusto, spinge verso il mondo del lusso prodotti buoni ed economici, inventati dai nostri nonni con poco denaro e molta inventiva, e riduce il loro potenziale di raggiungere le masse. In più, disincentiva l’innovazione, facendo investimenti di marketing su marchi che garantiscono il processo di produzione e non il prodotto. Un equivalente nel mondo della tecnologia potrebbe essere un marchio di qualità per i giornali scritti a macchina anziché al computer (Slow Writing); uno nelle pubbliche amministrazioni un ufficio anagrafe che non rilascia certificati online, ma solo allo sportello (Slow Service). A me sembra una perdita secca per la società, e credo che le politiche pubbliche dovrebbero scoraggiarla, ma magari sbaglio io.

23 pensieri su “Contro i beni di lusso (e Slow Food)

  1. Tito

    Alberto, I agree with a lot of what you say and admire your independence of thought, so unique. However:
    Slow food may be a potentially wrong and distortive answer to a real problem, which you don’t seem to acknowledge. The problem is that there is a trade-off between the scale of production and its quality. When quality goods traditionally sold cheap start being demended in large quantities, either their price increases, which makes them luxury, or they become mass-produced, often at the expense of quality.
    The other purpose of quality brands is to convey information that non-local people may find useful, on the process of production. Also in this case it has to do with the expansion of production of a èproduct traditionally known and appreciated only at the local level.

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  2. Ida

    Mi pare di ricordare che i marchi servano soprattutto a preservare da contraffazioni ed imitazioni con materia prime diverse e scadenti 🙂 che poi l’effetto sia di fatto di bloccare l’innovazione è un rischio a cui non avevo mai pensato (e io adoro Alberto per questo)

    Concordo su Slow Food, invece, e sul fatto che il marchio comporti aumenti di prezzo 😉

    La pizza margherita (enorme, e strepitosa) + mezzo litro di minerale = 5.000 lire che a Napoli da Ciro Trianon nei primi anni ’80 mi ha salvato dall’inedia squattrinata da universitaria ora è Dop, costa 15,00 euro e – sarà l’età – non mi pare più così buona

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  3. Angelo

    Secondo me slow food è molto diversa da come viene dipinta. Dietro quella apparenza fighetta (diffusa dai media modaioli) dei ristoranti e dei prodotti col bollino c’è una riflessione che mette completamente in discussione gli attuali modelli di produzione e di consumo.
    Slow food non è assolutamente contrario alle zie che producono lo gnocco fritto, anzi!
    Io non ho mai letto Petrini scrivere di andare a mangiare nei ristoranti col bollino, ma ho letto spesso suoi incoraggiamenti a comprare le materie prime grezze e cucinarsele, per spendere meno e mangiare meglio. Quello a cui sono veramente contrari sono gli gnocchi fritti industriali surgelati da riscaldare al microonde (ammesso che esistano).
    Il discorso sarebbe lungo, e non credo di essere in grado di svilupparlo compiutamente, ma leggendo quello che scrivono Petrini ed altri membri del movimento slow food e terra madre secondo me ti ricrederesti.

    Angelo

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  4. Edoardo

    Non trovo molto corretta questa analisi.Sulla tassazione dei beni di lusso sono pienamente d’accordo,ma a rivoluzionare i mercati non sono i prodotti a basso costo bensì prodotti di nicchia che con il tempo diventano accessibili a tutti.Mi spiego:sistemi come abs,air bag o marmitta catalitica se non fossero stati sperimentati ed usati per anni su macchine costose,ora non sarebbero sulle utilitarie.Così per le tecnologie.Un mercato basato sul basso costo non porta innovazione e qualità e porta le aziende tutte in un unico calderone dove manodopera a basso costo (schiavismo) e bassa qualità (mancanza di sicurezza) dettano le leggi di mercato.

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  5. paolo

    Potrei averlo scritto io, ma io mi considero un vecchio brontolone fuori dal mondo; il pezzo iniziale sui beni di lusso non accozza tantissimo: noi vecchi brontoloni tendiamo a definire beni di lusso i beni relativamente costosi che non ci piacciono, ma questo non ha molto senso…
    Che, stai diventando un vecchio brontolone?

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  6. giulio

    ti consiglio due letture allora interessanti,
    Felicity Lawrence, NON C’E’ SULL’ETICHETTA ( quello che mangiamo senza saperlo)

    Piero Bevilacqua, LA MUCCA E SAVIA

    il primo la battaglia di una giornalista che mette luce sulla filiera dei prodotti venduti in larga scala a livello mondiale ( nei SUPERMERCATI)
    il secondo scritto da uno storico che focalizza i motivi principali sulla storia dell’ agricoltura e dell’allevamento fino ai giorni nostri (motivo di lotta di slowfood)

    forse possono essere d’aiuto per un’ ulteriore riflessione sui tuoi commenti che mi sembrano un po’ azzardati, che mantengono un concetto di fondo discutibile ma ne strumentalizzano il significato.
    Sappiamo bene che la moneta ha sempre due facce.
    Una lotta che deve avere un inizio e visto il sistema economico mondiale non credo possa cominciare da classi povere o dal terzo mondo ( che sono disarmate e soggette al sistema capitalistico che vende prodotti identici ormai privi di nutrienti ed a volte dannosi per la salute).
    Che rimedio si potrebbe proporre in alternativa?

    importante:
    http://www.greenpeace.org/international/campaigns/genetic-engineering/take-action/EU-Petition

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  7. Caerly

    Secondo me sbagli di grosso… Non hai conoscenze (a parte quella economica) per dire cose del genere…
    I tanto odiati disciplinari (che in effetti negli ultimi anni sono un po troppi) servono proprio a far friggere nel 2010 lo gnocco ancora nello strutto e NON negli oli esausti delle patate fritte del mese prima!
    Le DOP esistono perché in italia abbiamo più di 200 varietà di oli , + di 300 vitigni (e mi fermo perché sarebbe una bibbia infinita solo per l’Italia…) che sono diversi tra loro. Facendo un esempio sull’olio, che io produco… Come potremmo combattere i mercati esteri (spagna, australia e usa) se non con la qualità? come si fa a vincere sul prezzo? Essendo anche agronomo ti assicuro che i marchi non servono a fare MARGINE… ogni bollino Dop, DOCG, DOC costa un euro a me che lo richiedo (spese di certificazione, analisi e controllo) e lo vendo a 1,5 euro in più dell’olio extravergine. Ti assicuro che, qualitativamente parlando, un olio è molto diverso dall’altro, ogni anno fatico a vendere l’olio extravergine, e fatico di più ad arrivare a metà stagione con qualche bottiglia DOP rimasta in magazzino per la vendita.
    In un mondo agroalimentare che si sta trasformando in un supermercato, dove conta solo il prezzo, la vera GENIALITà sta nel credere nella qualità. I bimbi delle città (più del 50% del totale) non sanno più da dove nascono le cose, e non è una mia opinione.
    Puntare sulla qualità è l’ultima mossa (di marketing) che ci rimane per sopravvivere, perché la PAC finirà nel 2013 e nessuno ci salverà più, se non la qualità, le certificazioni e i suoi disciplinari. L’innovazione tecnologica nel campo alimentare ha portato ad un abbassamento dei costi… è vero… ma anche ad un quadruplicamento delle intollerante alimentari, un triplicamento delle allergie dovute all’alimentazione, alla crescita del 100% in 20 anni della celiachia e alla nascita di malattie e scompensi come la fenilchetonuria e il moltiplicarsi di morbi, come quello di kron. VIVA LA TECNOLOGIA!
    Se Petrini è stato votato uomo dell’anno nel 2007 dal New York Times, non è certo perché fa piacere ai ricchi…
    Oltre alla perdita di cultura che la tecnologia e la specializzazione sta portando nelle nostre case (dai preparati di puré alla pasta per pizza già lievitata..) c’è una enorme perdita di biodiversità ambientale (in 50 anni abbiamo perso il 96% delle specie di mais dolce, il 92% delle insalate, l’87% delle specie di mele.. e mi fermo qui per non tediarti…)
    La perdita riguarda anche il piacere, evidentemente vivi in città e non sai che un pomodoro ha un sapore, non come quelli del supermercato, un buon vino ha centinaio di odori (perché ha un know how, un terroir, e UN COSTO), non come quelli del supermercato. La stessa cosa per gli oli rancidi che ti vendono e per i prodotti falsati LEGALMENTE… per EX. lo Yogurt della marcuzzi (che parla di un lactobacillus actiregularis) CHE NON ESISTE! Dovrebbero essere arrestati!
    Continua a credere a chi ti dice che Slow Food è una cazzata e i tuoi figli mangeranno CARTONE tutta la vita pagandolo un prezzo esorbitante rispetto ad un prezzo maggiorato, ma di un prodotto reale. (i guadagni industriali su un prodotto si aggirano attorno ad un 100-400%, quelli di un prodotto certificato vanno dal 50 al 100%, ci sono altri costi di produzione, legati alla quantità come bene sai da economo…..)
    Sulla terra fino a 100 anni fa c’erano + di 30 tipi di pere per ogni mese dell’anno (solo in Italia), e ora 3 tipi per tutto l’anno… ti sembra un’innovazione questa?
    Leggi prima di scrivere…..

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  8. Carlo Alberto

    In questi anni ci siamo adoperati nella ricerca di materia e sulla materia utilizzando metodi ancestrali e metodi futuristici a volte anche poco leciti almeno dal punto di vista etico. Inizialmente era piuttosto facile imbattersi nelle novità, bastava evitare i parcheggi degli ipermercati e imboccare un senso unico in salita che l’uovo cambiava colore e consistenza, il vino sapeva di vino etc.
    Poi sono nati i cercatori professionisti, gente che aveva molto tempo a disposizione e denaro da investire che ha ben pensato di sostituirsi ai manager dell’alimentazione e di svolgere questa missione di “educare il mercato”.
    Chiaramente però affinchè il parere e le scelte di detti professionisti potesse veramente veicolare i consumi, occorreva istituire premi e creare Guide gastronomiche che dessero la giusta rilevanza a detti premi. E bisognava altresì ingolosire i produttori a rispettare norme (come non ce ne fossero a sufficienza) in nome della Qualità Suprema e dell’Unicità di quel microclima che tutti i contadini del mondo avevano fino ad allora maledetto. E quindi i cuochi ad utilizzare quella materia e non l’altra, perchè i gourmet di tutto il mondo li avrebbero “sgamati” e sarebbero stati tacciati di truffa o, peggio di incompetenza.
    Tutto ciò a chilometri di distanza dal cliente, che semplicemente vedeva aumentare i conti e mica per via dell’euro…
    Anomalie del sistema (questa per tutte):
    Olio Extra Vergine di Oliva di Brisighella D.O.P. (non vi cerco la data del decreto ma è di pochi anni fa).
    In Romagna, come quasi in tutta Italia, l’olio si fa in casa utilizzando solo le olive di proprietà o comperandole dal vicino che ne ha in esubero. Mai un romagnolo avrebbe pensato di comprare olive in Grecia o in Spagna. Il prezzo del genuino olio romagnolo oggi si attesta intorno ai 3 euro al litro, esibendo un rapporto qualità-prezzo invidiabile.
    Da quando Brisighella si fregia della DOP l’olio che viene da lì costa intorno ai 16 euro. Ora, dovessi tu contadino finire le olive o le tue piante contrarre la mosca e dover quindi buttare l’intera produzione, ti verrebbe mica voglia per 16 euro al litro di far arrivare un TIR dalla Spagna? (e non mi dite che è vietato che sennò telefono al Capo).
    Secondo caso: il consumatore non vuole spendere quei soldi e si crea invenduto. Pieni gli scaffali di tutte le enoteche trendy della città, il produttore decide di vendere all’estero e contatta un importatore giapponese. La trattativa è semplice: l’olio d’oliva extra vergine è sul mercato a 3 euro. Un container di Olio di Brisighella parte per il Giappone e là viene rimesso in vendita al triplo del prezzo pagato: 9 euro. Miracoli di e-bay!
    In realtà ho capito che in qualsiasi ricetta tentare di impreziosire ingredienti comprimari per farli assurgere a protagonisti, o fingere che lo siano per citarlo sul menù serve solo ad allontanare il produttore dal cliente, frapponendovi figuri che avrebbero potuto continuare a girare l’Italia a spese proprie.
    Grazie dell’attenzione
    Carlo Alberto, cuoco

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  9. Alberto Autore articolo

    Wow, grazie a tutti dei vostri commenti, sto imparando molte cose che non sapevo.

    Giusto per tenere la barra dritta sul problema:

    1. il post è sull’innovazione di processo, non su quella di prodotto. Se si riesce a fare lo stesso prodotto in modo diverso, rendendolo più economico, perché non farlo? Obiezioni del tipo “mangerai il cartone!” come quelle di Caerly non si applicano qui, perché ipotizzano che cambiare il processo cambi anche il prodotto (cioè la sua composizione fisico-chimico-batteriologica), mentre il mio post ipotizza l’esatto contrario. Per capirci, non mi propongo come alfiere del mangiare il cartone; piuttosto mi è simpatico l’olio extra vergine di Brisighella, buono, sano, 3 euro al litro. Lo stesso olio messo a 16 mi pare esattamente un aumento del margine e una diminuzione dell’efficienza del sistema. L’economia sarà una scienza triste, ma funziona. 😉

    2. in generale non è vero che l’innovazione nasce nel settore del lusso e poi si propaga ai mercati di massa, come scrive Edoardo. Esempio: Fuss paga Gutenberg per inventare la stampa a caratteri mobili mica per sostituire i manoscritti, ma per stampare degli attestati di vendite delle indulgenze, che andavano a finanziare le casse dell’arcivescovo elettore di Magonza. Era un’innovazione “better, faster, cheaper” che solo dopo ha generato innovazione di prodotto.

    3. l’innovazione non è un pranzo di gala, ma un campo di battaglia, con i cosacchi che abbeverano i loro cavalli alle fontane del Palazzo d’inverno e pisciano nel prezioso vasellame di Murano dello zar. Ci sono morti e feriti, e spesso sono proprio i campioni del vecchio regime. La nobile cultura degli amanuensi, i monaci-scribi che mantennero accesa la fiaccola del sapere dopo le invasioni barbariche e la caduta dell’Impero romano, venne spazzata via degli imprenditori come Manuzio e da libri low cost. IBM perse il treno del personal computer. Se qualcuno inventerà processi produttivi per fare roba buona a prezzi bassi, probabilmente chi oggi ci rifornisce di cibo dovrà saltare. Non a caso Schumpeter parlava di “distruzione creativa”. Del resto, come ci ricorda Caerly, l’agricoltura europea non è assolutamente competitiva, e sta in piedi grazie ai sussidi pubblici. Assorbe l’85% del bilancio dell’UE, e occupa il 2% della forza lavoro europea. Quindi è facile prevedere che se parte la distruzione creativa rimarrà dalla parte della distruzione 🙂

    4. @Paolo: ok, sono un vecchio brontolone :mrgreen:

    5. Carlo Alberto è troppo signore per farsi pubblicità, ma è un signor chef, figlio di chef, fortissimamente radicato nella tradizione culinaria dell’Emilia, ma in grado di pensare piatti nuovi straordinari. La pubblicità la faccio io: il suo ristorante è La Lumira, a Castelfranco Emilia. Provate e sappiatemi dire se non sa scegliere gli ingredienti!

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  10. lg

    discussione interessante e controversa (per questo è interessante 😉 — lasciamo stare un sec slow food. se uno prende alcune tech digitali degli ultimi 20-30 anni ci sono un po’ di controesempi al tuo discorso alberto. una serie di prodotti-servizi, dal tel cellulare al navigatore satellitare, si muovono su una curva che li rende via via più accessibili; come mi pare è stato detto bene prima sono affordable luxury e poi mass market (semplifico, non ho l’articolo davanti). il posizionamento iniziale sul lusso aiuta a innovare. può essere meno convincente il caso di chi fa il percorso apparentemente contrario, tipo impreziosire a forza di materiali un cell state-of-the-art (v i vertu ex nokia), ma questi sono fenomeni forse quasi solo di mktg, industrialmente poco rilevanti

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  11. Luca Perugini

    Ciao Alberto,
    se si inquadra Slowfood solo come “etichetta per ristoranti fighettosi”, beh… ti stai sbagliando alla grande. Prima di trarre conclusioni getta uno sguardo su Terra Madre http://www.terramadre.info . Il movimento Slowfood, si può criticare, si può snobbare, ma ha rappresentato e rappresenta un caposaldo nei confronti della industrializzazione alimentare.

    Merita uno sguardo e una riflessione anche tutto il lavoro dei Presidi Slowfood.
    http://www.presidislowfood.it/ che tanto stan facendo per preservare tradizioni alimentari in tutto il mondo. 🙂

    Luca

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  12. Alberto Autore articolo

    Non intendevo fare il processo alle intenzioni di nessuno. Volevo solo riflettere sul fatto che, in una società che (almeno a parole) venera l’innovazione, l’insistenza di Slow Food che “alla vecchia maniera” sia uguale a “buono” fa un po’ effetto. Del resto, io sono come al solito un moderato: il libro di Luca Simonetti citato nel primo commento a questo post definisce Slow Food “intrinsecamente antiprogressista, antiscientifico, idolatra delle società tradizionali, delle piccole comunità statiche e immutabili, dedite a usi e riti atavici, in cui il posto di ognuno è prestabilito e invariabile; incurante dei mutamenti epocali e della realtà dei rapporti di produzione, e quindi incapace di cogliere le contraddizioni inestricabili e le autentiche finzioni storiche di cui la propria visione è intessuta”. 😆

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  13. gialluca.greco

    1. Non dai una definizione di beni di lusso.
    1.1 La ford T era per certi versi un bene di lusso, se consideri che entra in produzione nel 1908
    1.2 L’innovazione di processo è innovazione di prodotto: la Ford T, a quanto mi risulta, non era una Rolls Royce.

    2. Slow Food.
    2.1 E’ vero la certificazione costituisce una barriera all’entrata. Ma non capisco perché uno si debba fregiare del termine “Barolo” se non risponde a certe caratteristiche.
    2.2 Citi Schumpeter e poi ti stupisci che Brisighella faccia pagare il proprio olio 16 euro. E’ il mercato bellezza!

    2.3 Slow Food é “anti progressista”? Beh, un po’ lo è.
    2.3.0 Ritenere che una cosa perché antica sia di per sé buona è da fanatici integralisti.
    2.3.1Tempo fa hanno spinto la ripresa della produzione di un vino sparito da oltre un secolo, quindi non era stato “ucciso” dall’industrializzazione. Probabilmente non era più considerato buono e nessuno lo beveva più. Eppure Slow Food ne ripreso la produzione.

    2.4 Quasi tutti gli Innovatori sono dei fanatici.
    2.4.1 Oltre le innovazione di Prodotto, di Processo esistono innovazioni che spesso hanno effetti molto più profondi: quelli delle idee: Adam Smith o Marx tanto per rimanere in ambito economico.
    2.5 Il movimento SlowFood e iniziative analoghe stanno spingendo ad una maggiore attenzione verso ciò che mangiamo. E nei prossimi anni, assisteremo ad una sempre maggiore attenzione in questa direzione.

    2.6 Chiamale Esternalità. Il fast food è stata una grande innovazione, di prodotto e di processo, peccato che generi Esternalità Negative come l’obesità.

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  14. Alessandra

    Ammirevole l’atteggiamento di non voler essere vittima di idee stereotipate; credo che però si abbia il diritto all’alternativa: io vorrei poter scegliere cosa mangiare oggi e sempre. Un modo per non far soccombere le piccole realtà ai colossi industriali e all’appiattimento della globalizzazione sia quello trovato da Slow food che non trovo necessariamente radical-chic.

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  15. alessandra

    Mi spiace che si stiano diffondendo o cercando di diffondere tutte queste falsità su Slow Food. I disciplinari ad esempio (per info, si chiamano “Presidi”, proprio perché non vogliono bloccare un sistema produttivo contemporaneo, ma cercano semplicemente di preservare alcune produzioni preziose e antiche, buone, millenarie e che aiutano a vivere delle comunità “marginali”, dall’alta montagna al profondo sud agricolo) non impongono di produre/allevare come dice un qualsiasi Sig. Petrini, anzi! E’ proprio l’esistenza già assodata di tali tipi di produzione e la conseguente validità dimostrata dal risultato qualitativo a creare di per sé un modello a cui Slow Food tiene e che consiglia semplicemente di sostenere. Guarda caso quasi sempre sono produzioni che rispettano i tempi naturali di crescita di animali, spazi di coltivazione con impatto ambientale nullo o quasi, oltre alla conservazione di informazioni culturali-rurali preziosissime. E comunque SF promuove anche altre produzioni, i Presidi sono solo delle “chicche” che non avrebbero grande produzione lo stesso, per forza di cose, proprio perché il progresso raggiunto (e anche la qualità in molti casi) nel mondo alimentare-agricolo non lo consente e sarebbe assurdo che fosse diversamente! Sta diventando una moda a quanto pare cercare di tirare cacca su Slow Food e me ne rammarico; chi lo fa sta solo parlando superficialmente di luoghi comuni che si sono semplicemente posti in evidenza, ma non analizzati. Io sono “con Carlin” da vent’anni e ti assicuro che rendere un lusso i beni che prima erano economici è l’ultimo degli obiettivi dell’organizzazione da lui fondata. E’ tutto il contrario! Informati bene, vai nei ristoranti col tanto temuto “bollino” dove 35€ li spendi per una cena, non per uno gnocco fritto (anche perché per averlo, sto bollino, non devi risultare un oste speculatore), vai al SAlone del Gusto tra 2 settimane, ascolta, parla, chiedi, mangia. Scoprirai molte cose che non sai!

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    1. Alberto Autore articolo

      @Alessandra (commento del 9 ottobre): nel mio post non ci sono cose false e certamente non si tira cacca su nessuno. È una riflessione, puoi condividerla o no ma non ti è permesso darmi del bugiardo. Tra l’altro questo è il mio blog, sei in casa mia, e sarebbe bene che praticassi un po’ di Slow Insult.

      Il tuo commento mi ha incuriosito, e sono andato a cercare nel database di ristoranti del Gambero Rosso per la provincia di Modena, in cui sono cresciuto e ho abitato a lungo. Ho scoperto che giusto nell’ultimo anno ho appunto pranzato in uno di quei locali, che si chiama L’Erba del Re (euro 65, http://www.gamberorosso.it/restaurant?id=158427): buonissimo, ma è appunto uno di quei posti in cui il parmigiano viene chiamato “allenamenti sensoriali” (lo dice il sito del Gambero Rosso stesso) e la buona cucina modenese di tradizione (tortellini etc.) ricaricata a suon di marketing e user experience design. Quod Erat Demonstrandum.

      Poi per carità, ognuno cucina e mangia quello che gli pare, purché usi soldi propri. Se si concorre all’assegnazione di risorse pubbliche, e se si è molto vicini a una Regione importante come il Piemonte, allora occorre argomentare che queste risorse non siano spese meglio altrove.

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      1. alessandra

        Caro Alberto, mi spiace ma io non ti ho dato del bugiardo, non volevo che tra le righe trapelasse questa insinuazione. Mi scuso se ti sei sentito insultato in casa tua, colpa della veemenza che ci ho messo forse, perché vengo appunto da un articolo con Simonetti sul Mucchio Selvaggio (rivista rocchettara e sinistroide) dove proprio si vola con il paraocchi sul movimento di Slow Food, vedendo e capendo cose completamente sbagliate! Ho parlato invece e ne riparlo di superficialità, e aggiungo anche un po’ di fretta nell’analizzare le cose. Infatti ora capisco perché parli di certi prezzi che non ho MAI VISTO e che neppure esistono nelle trattorie che definisci “col bollino”: guarda caso, hai sbagliato il testo di ricerca a cui devi fare riferimento quando parli di Slow Food, che non è il “Gambero Rosso”, non lo è mai stato, poiché fino dalla nascita (’89) S.F. ha una guida propria, si chiama “Osterie d’Italia” e oltre alle segnalazioni, quasi sempre molto interessanti e dettate dalle scelte etiche e culturali degli esercenti (che assolutamente non devono fare determinate cose per apparire sulla guida, ma sono segnalati e recensiti proprio perché di per sé corrispondono a dei valori umanamente sostenibili, anche innovativi!), ci sono anche le spiegazioni minime indispensabili per poter comprenderne il valore. Ho letto così nelle tue seppur legittime considerazioni che non conosci Slow Food. Per cui, volerne parlare comunque in maniera negativa prendendolo come esempio da non seguire, lo reputo diffamatorio, o, in parole volgari “tirare cacca su…”, facendo coppia con Simonetti. Tutto qui e lo ribadisco ancora. Il mio invito ad approfondire è reale, non provocatorio. Parlo di realtà, di ascolto, di condivisione. Tutte cose che fanno di Slow Food un grande progetto, a detta mia, ma anche di molte persone che sanno che la strada dai campi alla tavola è costellata di insidie e veleni, veri e metaforici, primi tra tutti le corse al potere politico, economicamente sempre sbilanciato da una sola parte, sai già quale.
        Ricorda allora “Osterie d’Italia”, non “Gambero Rosso”! Sono davvero concetti radicalmente diversi, confonderli così è erroneo e leggero.

        Replica
        1. Alberto Autore articolo

          Alessandra, rileggiti la prima riga del tuo primo commento: “cercare di diffondere falsità”, nella mia lingua, vuol dire “mentire”, e chi mente è bugiardo.

          Nel merito, Gambero Rosso condivide la cultura di attenzione al buon cibo, alla tradizione e alle produzioni locali di Slow Food. A dirlo non sono io ma Slow Food stessa: il link a Gambero Rosso (“guarda caso”, come diresti tu) l’ho trovato nel sito di Slow Food, in una pagina che si chiama proprio “scopri il network di Slow Food”: http://www.slowfood.it/slow-food-network. Mi pare che siamo in due a doverci informare, e che non siamo d’accordo. Ce ne faremo una ragione.

          Replica
          1. alessandra

            Ok,viva l’informazione reciproca, ma la guida di S.F. e ciò che promuove non è nel Gambero, ma ne “Le osterie d’Italia”. Con Gambero avrà una sorta di gemellaggio, all’inizio anche Gambero collaborava, ma le guide sono sempre rimaste divise. L’idea di S.F. non è rappresentata da GAmbero. Ripeto: andare, vedere, ascoltare. Il mio consiglio è sempre quello, vai davvero in un ristorante di Osterie d’Italia! E a Terra Madre, al salone del gusto al Lingotto…è tutta un’altra storia!

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