Tag Archives: combat folk

Thousands are sailing: Il folk senza il popolo

Mi scrive David “Futsky” Wierma: (più oltre una risposta di Lady Jessica e altri commenti)

Ciao Alberto.
Il folk non è più quello di una volta e neanche questo paese è lo stesso. Il clima che tu hai vissuto alla mia età la gente della mia generazione, se lo conosce se lo sogna , nel migliore dei casi, mentre la stragrande maggioranza non sa neanche di che cosa si stia parlando. Il problema forse è anche questo. Il combat folk, la musica impegnata, ha ormai un pubblico di nicchia ed è una realtà con cui purtroppo bisogna fare i conti.
Riguardo al nostro paese e al suo futuro, beh sinceramente c’è da mettersi le mani dei capelli, il clima che tu come tanti altri artisti avete descritto e comunicato attraverso la musica, oggi è solo un ricordo. Ora ho 26 anni e molte meno speranze riguardo ad un risorgimento dell’Italia che sembrava ad un passo quando tu avevi la mia età. C’è l’amarezza per qualcosa che era iniziato e che non è andato avanti, qua come facciamo un passo avanti ne facciamo subito due indietro e così dopo “mani pulite” ci sono stati 5 anni di berlusconi e dopo ancora questo governo, che non è proprio partito benissimo. C’è un problema di fondo, un problema culturale, in Italia le cose non possono cambiare, molto probabilmente perché la maggioranza della popolazione semplicemente la pensa in maniera differente da me, da te e da tanta altra gente che le cose ha provato in un modo o in un altro a cambiarle. E’ come un muro. Allora semplicemente accetto che le cose vadano così e me ne vado, un paese che va in una certa direzione non lo si può fermare. Semplicemente credo che non ci sia niente da fare e allora è tanto meglio andarsene e lasciare stare; sono fortunato perché sono riuscito nonostante tutto a costruire nel mio piccolo qualcosa, in Spagna, dove ho la possibilità di fare qualcosa di concreto nel sociale, piuttosto che dover andare a lavorare in un callcenter per 3 euro l’ora, e lì andrò, perché la situazione in cui siamo oggi non è vivibile.
Ad ogni modo sarebbe realmente il caso che di queste cose se ne parlasse di più e fa piacere che ci sia ancora qualcuno che lo faccia, mettendo dello spazio a disposizione di tutti, anche se francamente siete rimasti in pochi.

La brusca recensione di Rumore all’ultimo disco dei Gang (ne ho parlato qui) ha sollevato in me (e, pare, in alcuni altri) il dubbio che ciò che chiamiamo folk si sia in realtà allontanato dal popolo. Vedo intorno a me molta angoscia; vedo un’intera generazione che non crede nel proprio futuro, e si prepara ad emigrare – Thousands are sailing, di nuovo , come cantavano i Pogues -; vedo un insieme completamente nuovo di priorità, problemi, fonti di gioia e opportunità, dalla nuova Italia multietnica alla senilità della classe dirigente. Temi e linguaggi del combat folk non mi sembra restituiscano un’immagine della situazione che sia utile per capire – ed eventualmente cambiare – il nostro mondo. Alcune canzoni, più vicine all’idea di ballad, evocano viaggi romantici in cui si suona il violino e ci si accampa sotto le stelle, tacendo invece di quelli in cui i giovani laureati italiani cercano una stanza in affitto a Berlino o a Manchester e si accampano in qualche ostello della gioventù. Altre, invece, combat-tono per un mondo migliore con un linguaggio che mi suona vuoto, freddo, preso a prestito da discorsi politici. Entrambe le cose mi fanno l’effetto di leggere un romanzo fantasy: non c’entrano con il mondo, non lo cambiano. Esistono in una realtà diversa dalla mia.

Credo che il musicista folk debba raccontare la comunità in cui vive e che rappresenta, e indicare una via per il cambiamento. Forse noi, quelli della mia generazione e che suonano nei vari Modena City Ramblers, Gang, Fiamma Fumana, Casa del Vento, Folkabbestia, Ratti della Sabina, Bandabardò ecc., non siamo qualificati per fare questo nel mondo in cui viviamo. Del resto ci sta, siamo tutti maschi, bianchi, over 35, abbiamo comprato casa e qualcuno anche fatto soldi… semplicemente, non viviamo la realtà che vivono David e i suoi compagni. Che sia il momento di fare spazio a una nuova generazione?

Il folk senza il popolo / 2

Io di anni ne ho 31…32 và! Sono una donna e ho deciso di fare un lavoro impossibile in Italia, la musicista. Rappresento con mio fratello e qualche cugino, la prima generazione di laureati in una famiglia di operai e, prima, di contadini. I miei genitori, che hanno vissuto nella loro giovinezza la crescita economica del paese, vedevano riflesse in noi le speranze del riscatto sociale, quello gridato in piazza dagli intellettuali degli anni ’70, che i miei la sera dopo il lavoro, vedevano in tv.
Io ho studiato, sono diventata comunista e atea, ho cercato di assimilare gli insegnamenti di mio padre: lavoro e onestà, ma ora ho le mani piene di sabbia.
Forse hai ragione Alberto, non potete cantare voi questo disagio, non é il vostro. Voi avete fatto quello che vi sembrava utile e chissà se lo é stato. Qualcosa dobbiamo inventarci, ognuno con i propri mezzi, restasse anche solo l’eco di un campanello di allarme.
Il problema é che la mia generazione ha le valige pronte e anche io avrei voglia, come David, di andare via da questo paese che delude e che corre, velocissimo, verso il basso. Per ora non lo farò, voglio vedere se riesco a resistere, se riesco a farlo da qui. Altrimenti partirò come David per cercare di fare cose belle e intelligenti lontano da qui.
Perché lo sguardo di mio padre sia fiero.