L’innovazione abita sulla frontiera: appunti da una conversazione con Fabrizio Barca

Fabrizio Barca è uno dei più interessanti policy makers italiani. Il suo nome è arrivato al grande pubblico nel 2011, quando Mario Monti lo ha nominato Ministro per la coesione territoriale. Chi si interessa di politiche pubbliche, però, lo segue da molto più tempo. Io mi confronto con lui da quasi vent’anni. Per i primi anni questo confronto è passato attraverso i suoi scritti, che io leggevo e discutevo con amici e colleghi (alcuni dei quali lavoravano con lui). In anni più recenti abbiamo cominciato a incontrarci di persona. Quando passo da Roma mi piace andarlo a trovare. Lui mi racconta cosa vede dal suo punto di osservazione e cosa sta facendo, io ci rifletto e cerco di dire qualcosa di intelligente. Qualche volta ci riesco, altre meno.

Dopo la fine del suo incarico ministeriale, Fabrizio ha dedicato molta energia alle aree interne. Le aree interne sono luoghi lontani da centri di offerta di istruzione (scuole) salute (ospedali) e mobilità (stazioni ferroviarie). Si tratta di circa quattromila comuni, che occupano il 60% del territorio nazionale e dove abita il 25% degli italiani. Sono borghi di collina e montagna, alpeggi, campi, pascoli. Sono spesso luoghi belli, ricchi di storia e di cultura locale. Altrettanto spesso soffrono di calo della popolazione, riduzione dell’occupazione, riduzione dell’offerta di servizi. I terreni meno produttivi vengono abbandonati, aprendo le porte a problemi ambientali come inondazioni o frane. L’innovazione ristagna.

È evidente: le aree interne sono importanti, e lo stato fa bene a occuparsene. In questi anni, però, non sono riuscito a capire perché Fabrizio sentisse il bisogno di occuparsene di persona. Negli ultimi quindici anni, gli economisti dello sviluppo hanno sottolineato piuttosto l’importanza strategica delle città. Nel 2014 il 53% dell’umanità viveva già nelle aree urbane; l’80% del PIL del mondo viene prodotto nelle città (Banca Mondiale). Per i paesi sviluppati queste percentuali sono molto più alte. Per esempio, nell’area euro il 76% della popolazione viveva in aree urbane nel 2014.

L’Italia è un po’ meno urbanizzata della media dei paesi sviluppati (“solo” il 69% della popolazione viveva in città nel 2014). Ma anche da noi le città hanno un’importanza strategica evidente. Per convincersene, basta considerare Milano. L’area metropolitana di Milano ha un po’ più di 5 milioni di abitanti: vi abita, quindi, un italiano su dodici. Nel 2004, quest’area aveva un PIL di 241 miliardi di euro: più alto di quello dell’intera Austria, e pari al 13% di quello italiano.

Non è solo questione di PIL: Milano e le altre aree urbane producono la quasi totalità delle esportazioni italiane, cioè, alla fine, il nostro contributo all’economia mondiale. La chimica. Il tessile e abbigliamento. La gomma e la ceramica. I mezzi di trasporto. I macchinari industriali. L’Italia è un’economia manifatturiera, una delle più importanti al mondo. Anche l’agrifood si fa pubblicità con immagini di campi verdeggianti, ma alla fine vende prodotti trasformati. Nel 2014 abbiamo esportato prodotti alimentari (trasformati), bevande e tabacco per 28 miliardi, e ne abbiamo importati più o meno altrettanti. Nell’agro alimentare, quindi, abbiamo un saldo di bilancia commerciale pari a circa zero. Il settore macchinari e apparecchi meccanici, per contro, ha prodotto esportazioni per oltre 74 miliardi nel 2014, e ha registrato un saldo di bilancia commerciale attivo pari a oltre 50 miliardi (ICE). La grande maggioranza delle aziende di questo comparto si trova nelle aree urbane, non in quelle interne.

L’Italia non è un’eccezione. Le città producono più ricchezza pro capite delle campagne; e le città più grandi ne producono di più di quelle meno grandi.  Due fisici, Luis Bettencourt e Geoffrey West, hanno trovato una relazione matematica esatta tra le dimensioni della città e la sua produzione (PMAS). L’abitante medio di una metropoli produce di più e guadagna di più di quello di una città più piccola. Più precisamente, una città con abitanti produce un reddito pari a n elevato alla 1.12-esima potenza. Questo significa che, al crescere delle dimensioni cittadine, il reddito medio aumenta. A parità di altre condizioni, il reddito medio pro capite in una città di dieci milioni di abitanti è circa del 30% più alto rispetto alle città con un milione di abitanti; e circa del 75% più alto rispetto a quelle che ne hanno solo centomila.

Questo tipo di crescita  si chiama superlineare. Caratterizza molti fenomeni urbani, dai depositi bancari al consumo di elettricità, e lo fa in modo molto simile in tutto il mondo. Caratterizza in particolare le variabili legate all’innovazione, come il numero di brevetti depositati ogni anno o il numero di ricercatori.

Perché le città hanno tanto successo economico? Secondo Bettencourt, le città sono “reattori sociali”: somigliano alle stelle (che sono reattori nucleari) più che a organismi viventi (Science). La loro capacità di produrre innovazione e ricchezza dipende dal numero delle connessioni che sono in grado di attivare. Il commercio, la scienza, la produzione: tutti questi sono fenomeni di rete, perché dipendono dagli scambi tra persone e imprese. Intuitivamente, il numero degli scambi possibili cresce molto rapidamente al crescere delle persone coinvolte. Una sola persona non può fare scambi. Tra due persone, Anna e Bernardo, possono realizzare una sola connessione tra loro. Aggiungendo una terza persona, Chiara, le connessioni possibili sono tre: Anna-Bernardo, Bernardo-Chiara, Chiara-Anna. Aggiungendone una quarta, le connessioni diventano sei; aggiungendone una quinta,  diventano dieci. Quando si arriva a un milione, sono possibili quasi cinquecento miliardi di connessioni (divertitevi a verificarlo!).

La possibilità di molte connessioni permette la specializzazione; la presenza di persone e organizzazioni specializzate permette una produttività più alta. La matematica delle connessioni sembra indicare che il futuro dell’umanità appartiene alle città. I poveri del mondo sembrano essere d’accordo, perché vi si trasferiscono in massa. Secondo l’ecologo e pioniere digitale Stewart Brand, a guidarli è la possibilità di accedere a servizi migliori (soprattutto istruzione); e il netto aumento di libertà personale di cui gli abitanti delle città godono rispetto a quelli dei villaggi. Soprattutto se sono donne. Secondo Brand, questi benefici sono immediatamente a disposizione di tutti gli abitanti delle città, anche nelle peggiori favelas. I dati che cita mostrano chiaramente che chi arriva in città comincia ad arrangiarsi con attività semilegali. Nel giro di un paio di decenni, però, queste si trasformano in attività completamente legali. La seconda generazione di immigrati urbani ha quasi sempre un’istruzione, e aspira alla classe media.

Questo mi riporta alle mie discussioni con Fabrizio Barca: perché il più interessante policy maker italiano non si occupa di città? Perché questa fascinazione per i borghi di montagna e le vallate?

Qualche settimana fa, durante una lunga chiacchierata nel suo ufficio romano, gli ho fatto la domanda direttamente. Riassumo la risposta: Fabrizio pensa che le aree interne siano il futuro non del mondo, ma dell’Italia. Per tre ragioni:

  • Rappresentano la maggior parte del territorio nazionale, e sono abbastanza omogenee tra loro. La Val Basento in Sicilia e la Val di Vara in Liguria hanno problemi simili. I loro dirigenti si capiscono al volo tra loro, e possono collaborare, scambiandosi esperienze. Una policy per le aree interne ha buone possibilità di scalare al livello nazionale.
  • Per contro, le città italiane sono molto diverse tra loro, e diverse anche dalle altre città europee. Napoli è l’unica vera area metropolitana d’Italia. Milano ha alcune delle caratteristiche della grande città europea (design, finanza, creatività) ma non ne ha le dimensioni. Roma è un conglomerato turistico-burocratico-pastorale. Nessuna generalizzazione è possibile. Ciascuna grande città va affrontata come un problema a sé stante.
  • Ma soprattutto, in Italia, le aree interne danno segnali di vitalità. Vi nascono produzioni di eccellenza legate al turismo, alla cultura, all’agrifood. La scuola tiene, e in molti casi rilancia, arricchendosi di tecnologia. Lo stesso abbandono del territorio è a un millimetro dal rovesciarsi in una grande opportunità. Perché nelle aree interne c’è spazio. C’è attenzione delle comunità, c’è fame di innovazione, ci sono spazi a basso costo (e spesso molto belli) in cui portare nuove idee e nuove persone (Fabrizio: “Si offre diversità a un mondo che domanda diversità”).

Raccontata così, la storia di Barca mi sembra convincente – tanto più che ha una valanga di dati a suffragarla. Quindi il futuro è nelle aree interne, nelle loro colline e nei loro campanili. D’altra parte, anche la storia che emerge dagli studi di Banca Mondiale, Bettencourt-West e Brand è convincente, e anche quella è sostenuta da moltissimi dati. Quindi il futuro è nelle città, nelle loro università, nei loro laboratori, e anche nelle loro favelas. Come fanno queste due storie ad essere vere contemporaneamente?

La mia ipotesi è questa: l’innovazione territoriale ha bisogno di libertà, di luoghi dove provare a fare cose nuove senza troppi vincoli. Dove le norme sociali approvano, o perlomeno non condannano, chi prova a percorrere strade insolite. Dove lo spazio non è già tutto rivendicato da stakeholders potenti e strutturati. Se mi guardo intorno, mi sembra che tutti gli spazi innovativi siano spazi più liberi della media. La libertà si trova nelle favelas raccontate da Brand, perché lo stato rinuncia a mantenervi un controllo capillare. Si trova nelle web farm e nei data havens della Silicon Valley, perché quel mondo (finora) è stato velocissimo e impermeabile agli strumenti tradizionali di controllo dell’economia. Si trova nello spazio, dove Elon Musk e gli altri space billionaires costruiscono un loro pezzo di futuro. E si trova nelle aree interne, aperta proprio dagli spazi fisici e dalla bassa densità di popolazione, che ti mettono al centro della società locale se appena prendi un’iniziativa coraggiosa. Questi luoghi sono la frontiera della società contemporanea, il nostro West, il nostro spazio vitale.

Se è così, allora la narrazione unificante del 2016 è più o meno questa. Le persone intelligenti, ambiziose o soltanto irrequiete sono in fuga dagli spazi chiusi, dove organizzazioni potenti (politica, stato, grande industria) limitano il raggio d’azione dell’iniziativa individuale. Dove vanno? Vanno a colonizzare gli spazi di frontiera. Le frontiere sono luoghi pieni di contraddizioni, talvolta anche spietati, ma forniscono agli individui meccanismi di mobilità sociale, e alle società laboratori di sperimentazione. L’Italia ha una frontiera in più: le aree interne. Ci servirà soprattutto per innovare sull’ambiente, sul turismo, sul leisure, sul presidio del territorio. È una bella occasione. Giochiamocela bene.

Foto: Mauro Mazzacurati su flickr.com

Ripostato da CheFuturo

Un pensiero su “L’innovazione abita sulla frontiera: appunti da una conversazione con Fabrizio Barca

  1. Leonardo M.

    Ipotesi interessante, ma l’innovazione ha bisogno di investimenti e capitali che scarseggiano nelle cosiddette aree interne!

    Replica

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