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Innovazione finanziaria per l’impresa sociale: quali sono i rischi?

Antonella Noya all’OECD (grazie!) mi ha passato un loro rapporto, The Changing Boundaries of Social Enterprises, in cui si cerca di fare il punto sugli ultimi dieci anni di impresa sociale nei paesi industrializzati. Sono stati anni importanti per questo settore, da tutti i punti di vista: di crescita e strutturazione, legislativo e anche finanziario. Da quest’ultimo punto di vista un riassunto potrebbe essere questo: le imprese sociali sono sottocapitalizzate, e stentano in particolare ad accedere a strumenti finanziari diversi dal prestito (loan) e dal contributo (grant). Molta innovazione finanziaria ha cercato di risolvere questo problema.

Il rapporto OECD fa un elenco impressionante: venture philantropy, prestiti “pazienti”, piattaforme di crowdfunding à la Kickstarter, indici per misurare la performance sociale degli investimenti come i Dow Jones Sustainability Indices e così via. Tutto bene? Sì e no. Sì, perché il problema esiste e si sta cercando di affrontarlo. No, perché si stanno facendo cose che ricalcano un po’ troppo da vicino la precedente ondata di innovazione finanziaria — quella, tanto per capirci, che ha portato alla crisi globale del 2008.

Considerate Blue Orchard. La loro idea è semplice: mettere in comunicazione gli investitori istituzionali (per esempio i fondi pensione), che vogliono comprare prodotti finanziari etici, con il microcredito. E come si fa? Per cominciare si fanno molti microprestiti. Ciascun prestito corrisponde a un attivo nel bilancio del microcreditore. A questo punto il microcreditore prende tutti questi piccoli attivi di bilancio, e li usa per garantire l’emissione di un’obbligazione (cioè uno strumento finanziario derivato da quello primario, cioè il microprestito) che poi rivende all’investitore istituzionale. Fatto! Quest’ultimo ha fatto un investimento etico senza bisogno di imparare a distinguere tra loro i microprestiti e i microcreditori. Per contro, l’istituzione di microcredito ha reperito liquidità aggiuntiva, e può fare altro microcredito. Perfetto, no?

Non necessariamente. Questo processo in finanza si chiama cartolarizzazione: il suo effetto ultimo è quello di allontanare il debitore dal creditore finale. Prima della cartolarizzazione i mutui casa venivano concessi da banche locali, che conoscevano il debitore ed erano ragionevolmente in grado di valutarne l’affidabilità. Se quest’ultimo si trovava in cattive acque, la banca locale faceva il possibile per consentirgli di ristrutturare il debito: in fondo si trattava di un cliente e di un membro di quella comunità, ed era interesse della banca che la comunità che serviva fosse il più prospera possibile. Con la cartolarizzazione, però, il mutuo del signor Rossi viene impacchettato con altri in uno strumento derivato, e rivenduto a un investitore non locale: se va bene un fondo, se va male un hedge fund molto aggressivo. Appena Rossi ritarda con un pagamento, questo investitore non ha nessuna ragione di essere comprensivo: farà la cosa che gli conviene nell’immediato, visto che non partecipa alla comunità locale in cui Rossi vive. Cosa faranno i fondi pensione che comprano i prodotti Blue Orchard se dovessero trovare che i rendimenti sono troppo bassi? Se decidono che devono rientrare immediatamente dei loro crediti, quale sarà l’effetto di questo rientro sul microcreditore? Può essere costretto a rientrare a sua volta, compromettendo il beneficio sociale di avere investito sul proprio lavoro?

Discorsi simili si possono fare per i “mercati di capitale etico” in via di collaudo in diversi paesi, come ETHEX nel Regno Unito o la Bolsa des Valores Sociais in Brasile. Il mercato azionario che conosciamo ha portato molti capitali alle imprese for profit, al prezzo di indurle a una prospettiva di breve termine: un buon risultato trimestrale è fondamentale per non perdere la fiducia del mercato. Cosa succederebbe alle imprese sociali le cui azioni (sì, alcune emettono azioni) fossero scambiate alla borsa di Londra o New York?

Sono domande inquietanti. Ma fare finta di niente sarebbe peggio: non abbiamo scelta se non cercare le risposte.

Teaching online collaboration for social enterprise

The fine folks at Istituto Europeo di Design proposed me to join the faculty of a new Master course called Design for Social Business (D4SB) (info). It’s quite a visionary idea: they selected eight students from all over the world, found them scholarships and put them to work. The course is taught in English, and it includes two field trips to see social business in action, one in Bangla Desh and the other in Colombia. My contribution will be:

  1. teaching them to design and use online collaboration environment, an ever more important tool for social business and especially social innovators (they need it to compensate the competitivity deficit in other areas, like finance).
  2. dare loro un quadro su ciò che si muove nel loro ambiente competitivo, proprio nel momento in cui in Europa si stanno prendendo le decisioni strategiche sulle politiche per il welfare dei prossimi annigive them an overview on what’s cooking in their competitive environment, at a time when the strategic decisions are being made on redesigning the welfare state in Europe
  3. share methods for writing and evaluating business plans for social enterprise

I am grateful to course director Jürgen Faust, coordinator Massimo Randone and IED for the opportunity to structure my thinking around these issues in the forms of lectures and workshops, and run them in front of such a high level classroom.

Insegnare la collaborazione online per l’impresa sociale

L’Istituto Europeo di Design mi ha proposto di insegnare in un nuovo master che si chiama Design for social business (D4SB), organizzato in collaborazione con il premio Nobel Muhammad Yunus e il suo Grameen Creative Lab (info). L’idea è di quelle visionarie: hanno selezionato otto studenti provenienti da tutto il mondo, gli hanno trovato borse di studio e li hanno messi a studiare (in inglese) con un programma molto di frontiera che comprende anche visite sul campo in Bangla Desh e Colombia per vedere l’impresa sociale in azione. Il mio contributo consiste in:

  1. insegnare loro a progettare e usare ambienti di collaborazione online, strumento di lavoro sempre più importante soprattutto per gli innovatori sociali – che lo usano per compensare il deficit di competitività in altre aree, come quella finanziaria.
  2. dare loro un quadro su ciò che si muove nel loro ambiente competitivo, proprio nel momento in cui in Europa si stanno prendendo le decisioni strategiche sulle politiche per il welfare dei prossimi anni
  3. condividere metodi di scrittura e valutazione di business planning per l’impresa sociale

Sono grato al responsabile del corso Jürgen Faust, al coordinatore Massimo Randone e allo IED per l’opportunità di strutturare le mie riflessioni su questi argomenti in forma di lezioni o di seminari e collaudarli su una classe, per giunta di livello così alto.