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IFPI dalla discussione alla propaganda

Il presidente FIMI, Enzo Mazza (profilo Linkedin), è un uomo intelligente e aperto. Abbiamo posizioni radicalmente diverse sul tema centrale del copyright, ma ci stimiamo, o perlomeno io stimo lui e lui mi tratta come se mi stimasse. Con la solita gentilezza, mi ha spedito la versione italiana del rapporto IFPI 2009 sulla musica digitale.

Si capiscono tre cose:

1. Le cose vanno male, molto male per l’industria discografica italiana. Il fatturato complessivo 2008 (178 milioni di euro) è calato del 21% rispetto al 2007. Il calo dura da otto anni, e ha riportato il fatturato (nominale, immagino, il che significa che quello aggiustato per l’inflazione sarebbe ancora più basso) al valore del 1989. Anche la crescita del fatturato sul digitale si è quasi fermata, appena il 4% nel 2008. In più ci sono le solite debolezze del sistema paese (ritardi nella diffusione della banda larga, dell’e-commerce etc. etc.)

2. IFPI (e per estensione FIMI, che ne è il pezzo italiano) non fa neppure più finta di partecipare alla discussione sulla società digitale da costruire, e si dà definitivamente a quella che una volta si chiamava propaganda. Il rapporto è sostanzialmente un pamphlet. Non c’è il minimo tentativo di discutere posizioni alternative, neanche per criticarle. Nokia Comes With Music viene citato 10 volte – le ho contate –  come modello di business emergente per la musica digitale, ma non si parla mai dell’esperienza Nine Inch Nails (ne ho parlato qui). Questa è davvero una mancanza macroscopica: ci si potrebbe aspettare che il rapporto sulla musica digitale guardasse con qualche interesse  all’album più venduto nel 2008 in download su Amazon, primo nella classifica di Billboard nella categoria “musica elettronica”. Allo stesso modo, la posizione degli autori letterari viene rappresentata dalla sola Tracy Chevalier (pro copyright) senza citare, chessò, Cory Doctorow (usa Creative Commons e fa un sacco di soldi)

3. In 32 pagine  (comprese copertina, indice, retrocopertina e pagine di foto) usano 38 volte la parola “pirateria”; 36 volte la parola “governo”, “governi” o “governativo”; 27 volte la parola “diritto” o “diritti”; 17 volte la parola “legge”; 16 volte la parola “copyright”, ecc. Techcrunch probabilmente ha ragione: la legge è tutto ciò che rimane alle etichette.

Questione di punti di vista

Distratto da tutt’altro, non ho ancora commentato il caso Nine Inch Nails – Ghosts I-IV. Per chi come me si fosse distratto, la storia è più o meno questa: Trent Reznor completa il suo contratto discografico con Interscope Records, decide di non rinnovarlo, e pubblica queste 36 tracce strumentali di “dark ambient” (!) con una propria etichetta. Decide di licenziarle in Creative Commons (attribuzione, non-commerciale, condividi allo stesso modo). Questo significa che:

  1. è legale scaricare “Ghosts” da Bit-Torrent o e-Mule
  2. è legale copiare il cd e distribuirlo in giro

L’album può essere ottenuto anche in molti altri modi, dal download a pagamento all’edizione limitata “Ultra-Deluxe” a 300 dollari al pezzo (2500 copie, esaurite in tre giorni secondo Arstechnica). I risultati sono stati notevolissimi: 1,6 milioni di dollari di ricavi generati nella prima settimana (fonte: Wired); album più scaricato (a pagamento) da Amazon; primo posto nella classifica Billboard nella musica elettronica e piazzamenti molto lusinghieri in altre categorie (compreso un 14° posto assoluto); 4° album più ascoltato nel 2008 su Last.fm, con oltre cinque milioni di ascolti.

Chris Anderson, che sta scrivendo un libro su “The economics of free”, commenta che “Un album gratuito è stato il più venduto come MP3!”. Ha ragione.

Joi Ito, impegnato su Creative Commons, fa notare che “Un album licenziato in CC è stato il più venduto come MP3!”. Anche lui ha ragione.

Ma perché la gente comprerebbe musica che può facilmente ottenere gratis? Il blog di CC: “I fans hanno capito che comprare gli MP3 avrebbe direttamente sostenuto la vita e la carriera di un artista che amano (traduzione mia)”. E, secondo me, lui ha più ragione di tutti. Nel mio piccolissimo, sostengo da un pezzo (per esempio in un articolo del 2001 su “Diario”) che i musicisti “vivono di mance”, cioè di un rapporto forte con la propria fan base, e che è su questo rapporto che occore costruire un modello di business per l’era digitale. Il diritto d’autore inteso nel senso classico è diventato un ostacolo all’innovazione sui modelli di business, e va superato (ne ho parlato nel 2007 a eChallenges e in altre sedi). Su queste cose mi scontro da allora (abbastanza affettuosamente) con ciò che resta della discografia tradizionale.

E anch’io avevo ragione, pare. 😉