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Do you speak networks? (Italiano)

Più uso Internet, più mi affascinano le reti, perché si comportano in modo inaspettato, controintuitivo. L’ordine sembra emergervi dal caos in modo quasi magico. Considerate il web: grandi masse di persone che non si conoscono, prive di strutture di comando e di professionalità nel produrre e gestire informazione, dovrebbero dare luogo a una specie di blob, no? E invece, infallibilmente, persone e contenuti finiscono per autorganizzarsi in modo da essere a pochi clicks (spesso uno solo) le une agli altri. Costruire una mappa esaustiva di Internet è impossibile, ma trovarvi qualcosa è abbastanza facile. È come mettere una mano nel proverbiale pagliaio e tirarne fuori un ago al primo tentativo, tutte le volte che cerchiamo un ago.

Più studio le reti e più mi sorprendono per la loro capacità di organizzare l’informazione, apparentemente senza nessuno sforzo. Leggere la storia dell’esplorazione scientifica delle reti sociali dà quasi le vertigini. Stanley Milgram affida a cittadini americani scelti a caso lettere per altri cittadini americani, sempre scelti a caso, e un numero sorprendente di esse arriva a destinazione in pochi passaggi (i famosi sei gradi di separazione). Mark Granovetter scopre che i conoscenti casuali sono più efficaci degli amici intimi e dei familiari nel trovarci lavoro . Fredrik Liljeros studia le reti di rapporti sessuali e conclude che un piccolo numero di persone molto promiscue impedirà la scomparsa dell’AIDS. Nathan Eagle predice la prosperità delle comunità locali a partire da come i suoi abitanti dividono il tempo che passano al telefono (gli abitanti delle comunità più povere passano una quota alta del proprio tempo di chiamata con una o poche persone). Tutti questi risultati sembrano indipendenti dalle persone che compongono le reti: in quasi tutti i modelli i nodi sono identici tra loro. L’unica cosa che li distingue – e che genera le proprietà straordinarie dei modelli – è la struttura dei links. Roba che sembra uscita da un corso di laurea, sì, ma di Hogwarts.

Mi sono convinto che le proprietà delle reti possano contribuire a spiegare molti fenomeni di cui facciamo esperienza quotidiana, ma che non capiamo – e che spesso ci danno ansia. Perché abbiamo la sensazione di essere circondati da imprenditori di successo brillanti e creativi (sebbene numericamente queste persone non siano poi tante)? Perché il file sharing in peer-to-peer ha messo alle corde l’industria musicale? Perché Wikipedia funziona così bene?

Il mio Sacro Graal è di domare le reti sociali online, forgiandole in uno strumento potente e preciso per progettare e attuare le politiche pubbliche. L’ho già fatto con Visioni Urbane e Kublai, ma ho dovuto fare molte scelte sulla base del mio istinto. È andata bene, ma perché questo diventi un metodo generalizzabile ho bisogno di capirne molto, molto di più. E quindi studio la lingua delle reti: in questo periodo vado spesso all’European University Institute di Firenze per frequentare il corso di Complex Social Networks di Fernando Vega-Redondo. È un po’ dura (mi alzo alle cinque del mattino, perché Fernando fa quasi sempre lezione alle 8.45 precise), ma pazienza. Io questa cosa la devo assolutamente capire.

Do you speak networks?

The more I use the Internet, the more I grow fascinated with networks, because they behave in unexpected, counterintuitive ways. They seem to summon order from chaos as if by magic. Consider the web: large masses of amateurs who don’t know each other and have no command structure should produce some kind of shapeless informational blob, right? Wrong. Day after day, people and content inexorably self-organize in such a way that they are one or few clicks away from each other. Building an exhaustive map of the Internet is impossible, but finding any one thing in it is quite easy. It is a bit like sticking your hand in the proverbial haystack and finding a needle, every time.

The more I study networks and the more they amaze me for their ability to organize information, in an apparently effortless way. Reading the history of scientific exploration of social networks is almost dizzying. Stanley Milgram gives random American letters for other random Americans asking the former to deliver through an unroken chain of aquaintances, and a surprising number of them reaches home in very few steps. Mark Granovetter discovers that aquaintances are more effective than close friends or family in finding us jobs. Fredrik Liljeros looks at a network of sexual contacts, and concludes that the existence of a small number of very promiscuous people renders AIDS impossible to eliminate. Nathan Eagle finds that the prosperity of a small area can be predicted from the pattern of allocation of calling time across their contacts of that area’s inhabitants (in poorer communities people spend a higher share of their calling time with one or two contacts). All these results seem independent of the actual people in the networks: in almost all models nodes are identical. All the action is in the link structure. Network papers are academic, but somewhat alien: Hogwarts comes to mind.

I am convinced that the properties of networks can help explain many phenomena that we experience every day but don’t really understand – and give us anxiety. Why do we feel surrounded by young, successful entrepreneurs (though there’s not that many of them)? Why were peer-to-peer file sharing services fatal to the recorded music industry? How does Wikipedia work so well?

My Holy Grail is to tame online social networks, forging them in a powerful, precise tool to design and deliver public policies. I have done it before in Visioni Urbane e Kublai, but a lot of time I had to steer by instinct. I was lucky, but for this to become a generalised method I need to understand it a lot better. So I study the language of networks: these days I am often at the European University Institute in Florence, to attend Fernando Vega-Redondo’s Complex Social Networks course. It’s a bit tough (I get up at 5 a.m., because Fernando usually lectures at 8.45 sharp), but so be it. I really need to understand this thing.

Top 3 (divertenti) errori matematici dei guru della rete

<disclaimer>NON intendo esprimere altro che i più profondo rispetto per gli intellettuali che nomino in questo post. Essi sono infinitamente più saggi e acuti di quanto io sarò mai, e io non sono che polvere sotto i loro piedi. Ma questa è internet, quindi bisogna pure editare e commentare, anche e soprattutto i Grandi. Ecco quindi la mia classifica degli errori matematici commessi dai guru della rete!</disclaimer>

1. Primo premio al grande Howard Rheingold, in Smart Mobs, dove ci descrive la legge di Reed e la paragona a quella di Metcalfe. Così:

[…] il valore di [una rete di] dieci nodi è cento (dieci alla seconda potenza) secondo la legge di Metcalfe e 1024 (due alla decima potenza) secondo la legge di Reed […]. [p. 60]

In realtà queste formule non rappresentano il valore di una rete. Una rete di dieci nodi varrebbe quindi 1024… cosa? Dollari? Pistacchi? Biglietti della lotteria? Ovviamente no. La risposta è che il numero 1024 non è affatto un valore, ma il numero di sottogruppi possibili in un grafo con dieci nodi tutti connessi tra loro. La formulazione corretta – usata infatti da David Reed stesso – è che il valore di una rete in cui si possono formare gruppi (group-forming network) di N nodi cresce proporzionalmente al numero dei sottogruppi in essa possibile, e quindi esponenzialmente a N. In più le formule usate da Rheingold – e quindi i risultati – sono proprio sbagliate: dieci nodi hanno 10x(10-1)/2 = 45 connessioni e non cento, e i sottogruppi possibili sono 2 elevato alla decima potenza meno 11, quindi 1013 e non 1024.

2. Secondo premio a uno dei miei autori preferiti, Clay Shirky. In Here comes everybody – libro splendido – Clay descrive in modo corretto la soluzione di equilibrio all’ultimatum game (buffo, ne avevo parlato qui). Poi racconta ciò che avviene giocandolo nei laboratori di economia sperimentale:

[…] in pratica, tuttavia, il secondo giocatore si rifiuta di accettare una divisione percepita come troppo diseguale (meno di $3 sui $10 totali) anche se questo significa che nessuno dei giocatori riceverà alcunché. Contraddicendo la classica teoria economica, in altre parole, abbiamo una volontà di punire coloro che ci trattano ingiustamente anche sopportando costi [..] [p. 134]

Questo non è proprio un errore matematico, ma omette una cosa talmente importante da mettere a rischio la conclusione, e cioè che questi risultati sperimentali sono viziati da un sacco di problemi, di cui il principale è che dipendono dai valori assoluti dei premi, e non solo dalla divisione proposta. Se giocate l’ultimatum game con 1 miliardo di dollari, e il primo giocatore vi offre un centesimo di quella somma, cioè dieci milioni di dollari, voi intascate i dieci milioni, non vi rinunciate per il gusto di togliere a lui 990 milioni! La questione è aperta, e sarebbe opportuno descriverla come tale.

3. Infine, premio simpatia al guru dei guru Chris Anderson che ha recentemente dedicato un post molto acuto al rischio di generalizzazioni. E scrive:

Ma ora stiamo entrando in un mondo di insiemi infiniti, e questo sconvolge le nostre abitudini linguistiche. Qual’è il numero di “scrittori” in un’era di blog, il numero di “fotografi” in un’era di Flick e di macchine fotografiche incorporate nei cellulari, o “videomakers” nell’era di YouTube?

Pura saggezza di guru. Il problema è nel titolo del post: “Tredici parole che perdono significato quando il denominatore tende all’infinito”. Le parole sono locuzioni che servono alla generalizzazione, come “la maggior parte” (“la maggior parte dei blog”, per esempio), o “la media” (“il video su YouTube medio”, per esempio) . Come i lettori di Chris hanno fatto notare (leggete i commenti, sono divertentissimi), è certamente vero che dire “i blog sono personali” è una generalizzazione insensata, ma questo non ci accucchia proprio niente con denominatori e infiniti. Una frase come “per la maggior parte del tempo passato e futuro, gli umani non sono esistiti e non esisteranno” è vera anche se il denominatore (l’età dell’universo al momento del Big Crunch) è quanto di più vicino all’infinito possiamo concepire. Dopo una raffica di commenti di questo tipo, Chris commenta a sua volta:

Sì, potete contarmi tra quelli che a volte usano il linguaggio matematico in modo approssimativo per esprimere un’opinione. Ma almeno io lo ammetto!

Come si fa a non volergli bene, a uno così? :mrgreen: