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The credibility singularity of institutions

So, I care about democracy, and dream about fixing it. For years, and in many different contexts, I have been weaving narratives of collaboration between citizens and their institutions towards the common good. These narratives have provided ideological scaffolding for creatives, radical changemakers and civil servants to work together, reaping the benefits of diversity and discovering that they can get stuff done.

This, however, is getting harder and harder. Global problems press humanity on (take your pick: climate change, feral finance, loss of biodiversity, mounting inequalities); a globally connected citizenry, fueled by the Steve Jobs-Obama ideology of change as desirable, possible, a moral imperative even, has raised their expectations levels. Institutions, while probably not moving any slower than they did twenty years ago, have failed to keep up with the acceleration. The result is a sort of (negative) credibility singularity: you can feel people getting more impatient by the week. And not without reason: the failure to take serious action on climate change after decades of talk is very hard to justify outside the institutions’ corporate walls. What could any government agency answer to Anjali Appadurai’s passionate call to action in the video above? “Give us ten years!” to which her answer is “You just wasted twenty”. “We must not be too radical”, to which her answer is “Long term thinking is not radical”. What is there to say? She’s right.

The singularity point itself is the place where people decide democratic institutions are not delivering, and route around them to get things done. I am not looking forward to it. In fact, I happen to think democratic government institutions are still humanity’s best asset towards cooking up a coordinated, global response to global threats. But if this is to happen, a lot more radical thinking needs to take roots in Brussels (and Rome, and London, and Washington D.C. etc.). And to do it fast, while credibility can still be restored.

(Thanks: Vinay Gupta and Jay Springett)

“Lo spazio per le istituzioni si riduce, torna la politica”

(Dopo una riunione al Ministero dello sviluppo economico, ascolto alcuni amici, economisti freelance molto esperti, parlare del futuro del paese in toni assai preoccupati. Chiedo spiegazioni; le ottengo; e mi preoccupo anch’io. Io avrò cento lettori, non conto niente. Però questo post lo scrivo come se fossi una superblogstar, perché credo nella capacità della discussione razionale e pluralista di contribuire a decisioni pubbliche migliori; non credo invece ci sia molto da aspettarsi dai media di massa quanto a stimolare questo tipo di dibattito. Restiamo noi, i bloggers, per quanto piccoli.)

I fondi europei sono divisi tra quelli a gestione regionale e quelli a gestione nazionale. Per decidere come spenderli, le Regioni si accordano con i ministeri competenti, decidono cosa fare e quanto denaro impegnare su ciascuna misura. Queste decisioni sono scritte in documenti che si chiamano accordi di programma quadro (APQ). Il processo di costruzione di un APQ è naturalmente lungo e difficile, ma ha un vantaggio: sviluppa rapporti tra istituzioni, genera e condivide conoscenza puntuale del territorio, anche perché prevede attività di accompagnamento alle Regioni nei casi di difficoltà. Prendere decisioni completamente fuori dalla realtà diventa più difficile. Questo modello è stato portato avanti in questi anni dal Dipartimento di politiche per lo sviluppo, un centro di eccellenza della pubblica amministrazione italiana promosso da Ciampi quando abbandonò la Banca dei Regolamenti Internazionali per venire a fare il ministro del Tesoro.

Con il disegno di legge Tremonti – che circola in bozza, e, insieme al decreto legge 112 del 25 giugno 2008, costituisce la manovra economica triennale del governo in carica – la situazione cambia del tutto. Tutti i fondi a gestione nazionale verrebbero spostati in un fondo unico istituito presso il Ministero dello sviluppo. I fondi a gestione regionale restano alle Regioni, che li destinano in totale autonomia, senza bisogno di passare per APQ. Naturalmente negli ultimi anni era stato fatto del lavoro su quelle risorse: riunioni, documenti, piani strategici, tavoli istituzionali. Tutto da buttare, uno spreco pazzesco.

Il segnale mi sembra molto chiaro. Dopo dieci anni in cui si è cercato di costruire rapporti tra istituzioni, lo spazio per le istituzioni si restringe, e ritorna la politica. Ci sarà una stanza a Roma in cui si deciderà, ad esempio, se fare la Napoli-Bari, e da dove farla passare. Chi vorrà fare udire la sua voce in quella discussione dovrà trovare un canale privato o di partito con un ministro o un sottosegretario: quelli istituzionali, che non sono mai stati molto tonici, si atrofizzeranno del tutto. Nelle Regioni, caduto il bisogno di confrontarsi nel merito con l’autorità centrale torna la politica locale, l’autoreferenzialità delle decisioni, l’attenzione spasmodica al campanile.

I media di questa cosa non si sono accorti, e preferiscono riempire le pagine di casta, fannulloni, segnalazioni per le attrici. Questi problemi ci sono, ma sono molto, molto meno importanti del funzionamento normale della pubblica amministrazione. Spostare l’attenzione dalla cattiva progettazione del sistema alle sue degenerazioni più grottesche permette di attribuire i fallimenti amministrativi a una causa facile da capire (il fannullone, il raccomandato), sollevando l’opinione pubblica dalla responsabilità di farsi un’idea vera di quello che vuol dire gestire un paese.

I cinghiali sono tosti

Mi sono piaciuti molto, davvero molto, i ragazzi di Balla coi cinghiali, conosciuti lunedì al seminario organizzato da Roberta all’Università di Savona. Idee chiarissime, una proposta ben caratterizzata (“a BCC portiamo solo birra artigianale di un produttore locale, e prepariamo da mangiare cose buone. Niente birre e panini industriali”), un’idealità forte e non trattabile (“stiamo lavorando per alimentare i palchi a energia da fonti rinnovabili, purtroppo la musica dal vivo ha impatto ambientale, e come”), molti amici (“Find the cure, Legambiente, Rockerilla, fanno parte dei buoni, come noi. Ci siamo detti: mettendo insieme due cose buone non può che venire fuori una cosa ottima. Alla peggio viene almeno buona!”), un bell’orientamento alla condivisione (“vorremmo spiegare come gestiamo le cose. L’abbiamo fatto noi, potete farlo anche voi”).

E’ evidente che BCC indica una traiettoria di sviluppo possibile, l’unica cosa concreta che Bardineto (SV) abbia da opporre all’invecchiamento della popolazione, allo spopolamento e infine all’abbandono. Ma evidente a chi? A un certo punto ho chiesto alla platea: “C’è qualcuno della Provincia, qui? Della Regione?” Silenzio. “Del Comune?” Nessuno. La cosa più vicina a un’istituzione che ci fosse nella stanza, paradossalmente, ero io, un semplice consulente su un progetto sperimentale. Mi sono sentito più che mai come il Marco Polo delle Città invisibili in uno dei suoi viaggi, in attesa di raccontare a Kublai Kan di un’altra delle città del suo impero, che l’imperatore stesso non conosce. E’ veramente urgente mettere in piedi una struttura di ascolto per valorizzare le esperienze come questa, che ci sono.

(Fatemi capire: un evento nato e cresciuto a Bardineto (ab. 660) viene presentato come un caso di successo all’università e il sindaco non ci va? Ma perché?)