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Photo: Marco Giacomassi

Perché non esiste (ancora) una community europea dei dati aperti

L’ultimo fine settimana di marzo abbiamo fatto SOD14, il secondo raduno annuale della mailing list di Spaghetti Open Data. È stato entusiasmante: abbiamo avuto 182 iscritti, con 139 persone contemporaneamente presenti alla conferenza di venerdì 28. Circa 100 persone hanno partecipato all’hackathon di sabato 29 e ai minicorsi di domenica 30. Abbiamo prodotto 12mila tweets (e, essendo geeks, li abbiamo archiviati tutti). Tutti sono venuti a proprie spese, ritagliandosi il tempo tra gli impegni quotidiani.

Ci sono già almeno dieci resoconti di SOD14 in rete (il mio preferito è quello di Ida Leone), quindi non sto a farne un altro. Mi interessa invece rilevare un punto critico.

Premessa: tutto, dal programma della conferenza alle tracce degli hackathon, è emerso in modo bottom-up. Per forza:  Spaghetti Open Data è una comunità. Non ha soldi, né capi, né personalità giuridica, nemmeno un codice fiscale. Quindi SOD14 è stato completamente organizzato da volontari: certo, la città e la Regione ospitanti – Bologna e l’Emilia-Romagna – ci hanno viziato con spazi gratis, caffè gratis, un wi-fi impeccabile e hanno perfino pagato due mini-corsi, organizzati e tenuti da membri della comunità stessa (grazie!), per un totale in cash di 1500 euro. La comunità ha fornito trailers videologhijingles e suoneriet-shirtsadesivi e perfino supereroi; c’erano persone di tutti i tipi (data geeks, giuristi, funzionari pubblici, attivisti, data journalists, sviluppatori, perfino un piccolo gruppo di open archeologi) con una forte presenza femminile. SOD14 ha avuto l’energia giocosa degli eventi veramente dal basso, quasi ruspanti. La comunità è così forte perché è “spessa” nel tempo e nell’interazione: gira sulla possente mailing list di SOD, che mentre scrivo ha 896 iscritti, 1.840 threads e 20.000 messaggi (stimati) accumulati in tre anni e mezzo – nel 2014 ha buttato fuori oltre 20 messaggi al giorno di media. È di gran lunga la più grande risorsa sugli open data in lingua italiana.

Quindi, un evento perfetto, di una comunità in salute. Ma con una mancanza: a SOD14 non c’era l’Europa.

Abbiamo fatto il possibile per stare vicini ai nostri fratelli e sorelle d’arme europei. L’unico keynote della conferenza era in inglese, tenuto da Adam Shorland di Wikimedia Germania a parlarci di Wikidata. Ho chiamato personalmente EPSI, l’iniziativa della DG CNECT per la promozione dei dati aperti nell’Unione Europea, e ho chiesto loro di sostenerci – non con soldi, che comunque non potremmo accettare (non abbiamo un conto in banca) ma con la presenza fisica di una persona che venisse a dirci “non siete soli, in Europa siamo contenti che voi ci siate”. Nonostante avessimo aggiornato e verificato la EPSI scoreboard per l’Italia a SOD13, nessuno si è fatto vivo a SOD14 per ringraziare di persona la comunità. Inizialmente mi hanno promesso di mandare qualcuno, ma poi hanno deciso di farsi rappresentare da Matteo Brunati, il corrispondente EPSI per l’Italia, presente a SOD14.

Cara Commissione Europea, in quanto patriota europeo e attivista open data, sento che è mio dovere farti sapere che hai perso un’occasione, e consigliarti di non farlo mai più. A SOD14 non abbiamo discusso di problemi degli open data italiani; tutti i problemi che abbiamo davanti hanno almeno una dimensione europea. Per esempio, abiamo avuto una sessione affascinante sui dati aperti generati dall’archeologia e dai beni culturali in generale. L’Italia non è l’unico paese alle prese con i problemi e le opportunità che ne derivano! Qui abbiamo problemi con autorità pubbliche molto conservatrici, e ci aiuterebbe poterci confrontare con le nostre controparti in Grecia o in Francia. Qui tu potresti fare la differenza, ma a SOD14 non l’hai fatta. Potrei fare altri dieci esempi così solo da SOD14; potresti farli anche tu. Lo sai che questo è vero.

Matteo è un civic hacker di altissimo livello, e EPSI è molto fortunata ad averlo a bordo. Noi, però, siamo la sua comunità di origine, e parliamo con lui tutti i giorni o quasi. Non c’è nessun valore aggiunto a mettergli in testa un cappello europeo. Se vuoi dare valore all’impegno europeista di Matteo, mandalo a eventi come il nostro, ma in Estonia, in Belgio, o in Irlanda; e per aggiungere valore agli eventi italiani come SOD14 mandaci i tuoi corrispondenti danesi, spagnoli o austriaci. Sono le relazioni orizzontali che costruiscono comunità. So che lo sai, perché fai programmi come Erasmus da molto tempo e in molte varianti. Sai anche che costruire relazioni orizzontali al livello europeo richiede tempo e pazienza, e in questo momento nessuno ci sta lavorando, nemmeno tu. E così, cose che dovremmo poter dare per scontate non succedono. Perché non abbiamo civic hackers di tutto il continente che lavorano insieme su qualche progetto open data in vista delle elezioni europee? Perché i civic hackers europei non passano tempo insieme. Non si conoscono nemmeno. SOD è potentissima, ma assolutamente italocentrica. Perfino TweetYourMEP è stato costruito esclusivamente da italiani. Così, non c’è una community europea solida degli open data.

Non per questo devi arrenderti.  L’Europa ha giocato un ruolo chiave nello sbloccare il lato dell’offerta della scena open data. La direttiva EPSI è stata importantissima nell’incoraggiare governi con meno cultura sui dati, come il nostro, ad avviarsi sulla strada giusta. Europeana è una grande idea. Hai fatto bene su questi fronti: perché non dovresti fare altrettanto bene nell’aiutare a crescere il lato della domanda? Un anno fa, EPSI mi ha intervistato e mi ha chiesto: cosa pensi che dovrebbe fare l’Europa in tema open data? Ho risposto: investite nella comunità. Date loro spazi gratis, rimborsi spese per i viaggi e qualcosa da fare (questo video, 6:08). Penso ancora che questo sarebbe il modo migliore di usare la tua infrastruttura EPSI. E adesso che ci penso, perché non fai un passo in più e metti in piedi un Erasmus per gli Open Data? Qualche centinaio di scambi internazionali, con persone di tutta Europa che lavorano sui dati aperti, farebbe molto per creare la rete “small world” che ci serve per essere comunità a livello europeo. Spaghetti Open Data è pronta ad aiutarti. Ci stai?

Wikicrats strike back!

Nelle ultime settimane Wikicrazia, il mio libro del 2010, si è riaffacciato un po’ a sorpresa nel dibattito nazionale.  In particolare in due luoghi.

Cambiamo tutto, il “libretto rosso” del mio amico Riccardo Luna sulla rivoluzione degli innovatori, dedica al libro (e alle cose su cui io e altri, tra cui non pochi lettori di questo blog, ci siamo impegnati nel nome delle tesi sostenute nelle sue pagine) un terzo abbondante del capitolo intitolato “Civic hacker – Di coloro che pensano che con la rete la politica possa tornare a essere bella – a patto di non essere pigri.” Mentre scrivo, Cambiamo tutto  è primo nella classifica dei bestseller (saggistica). La prima tiratura è andata esaurita in due settimane, e il libro è già in ristampa. Bravo Riccardo!

Anche Un partito nuovo per un buon governo, la memoria politica del Ministro per la coesione regionale Fabrizio Barca, dedica diversi passaggi alla collaborazione tra cittadini in rete e istituzioni; e cita sia Wikicrazia che la recensione che lui stesso ne aveva scritto nel 2011, prima di accettare l’incarico di ministro. Il mondo politico sta discutendo l’analisi e le proposte di riforma avanzate nella memoria.

Forse il termine “wikicratico” sta assumendo un senso più ampio, ma per me i wikicratici sono e rimarranno le tante persone che mi hanno aiutato nel percorso di scrittura (e riscrittura… e riscrittura…) del libro. Li ho già ringraziati per nome più volte, ma vorrei condividere con loro, con l’editore Navarra e con i miei coautori di Wikicrazia Reloaded questa piccola soddisfazione. Abbiamo tutti lavorato per portare la discussione un metro avanti, fare un tratto di strada per condividerlo con altri, in modo che loro potessero andare più lontano e più veloci. Pare che ci siamo riusciti: Riccardo, il ministro Barca e probabilmente molti altri usano il nostro lavoro per innestarvi le loro riflessioni – e grazie al loro riflettere cresciamo tutti. Avanti così.

La fine della musica 2: altri tre chiodi nella bara del music business

I miei amici musicisti sentono una crisi che va molto al di là della Grande Crisi del 2008, che è brutta ma si può sperare che a un certo punto passi. Quella del music business non credo proprio che passerà in tempi brevi, e neppure medi. Ecco tre segni del declino che ho trovato in rete negli ultimi mesi:

  1. Il grafico qui sopra. Il mercato della musica registrata negli USA ha perso oltre metà del suo valore, passando dai 15 miliardi di dollari del 1999 ai 6 del 2009. Dave Kusek, nel commentarlo, è perentorio: non c’è ripresa da questo declino. Ed è un’ammissione bruciante da un blog che si chiama “the future of music”.
  2. Questa infografica. Per guadagnare il salario minimo vigente negli USA (cioè 1.160$, meno di mille euro), un musicista dovrebbe generare 1.229 download di album da iTunes, 849.000 ascolti in streaming su Rhapsody e quattro milioni e mezzo di ascolti in streaming su Spotify. Sarebbe interessante calcolare quanti ascolti in streaming servono per raggiungere il reddito degli U2, che hanno 70 dipendenti a tempo pieno e una società immobiliare.
  3. Questo post di Dave Kusek, in cui alle aspiranti rockstar viene proposto di coltivare il circuito degli home concerts. Sensatissimo, per carità, ma è proprio la descrizione della situazione che rende appetibili gli home concerts ad essere deprimente:

    la maggior parte degli artisti, a prescindere dal talento, è fortunata se attira 30-40 persone quando suona in un posto nuovo. Le risorse necessarie per superare questi numeri sono sempre più costose e meno efficaci […] chiedete a qualunque artista quanti spettatori paganti vale un bell’articolo sul giornale: pochi o nessuno.”

    Il problema, spiega Kusek, è che i locali notturni sentono la concorrenza dei videogiochi e degli altri sistemi di home entertainment, e reagiscono diversificando: cioè riempiendo i locali stessi di macchine da videopoker, tavoli da biliardo e altre attrazioni, che competono con il concerto per l’attenzione del pubblico.

    I musicisti (che sembrano non avere altra scelta) sono contenti di venire [nei locali], montare gli strumenti e suonare per un pubblico distratto e ingrato, constringendo i loro fans a sentirsi un concerto mentre gli altri clienti, ubriachi, gridano per l’ultimo touchdown.

    Se Kusek ha ragione, gli home concerts non sembrano un rimedio all’altezza del problema: sono un modo divertente di passare una serata con gli amici, non un nuovo mercato che rimpiazza quello vecchio.

La musica in quanto espressione culturale – sebbene io la senta in crisi, come ho già scritto – è stata con la nostra specie per molto, molto tempo, e tutto fa pensare che resterà con noi. Ma il music business come l’abbiamo conosciuto a partire dalla fine degli anni 40, temo, è incamminato verso l’estinzione.