La fine della musica 2: altri tre chiodi nella bara del music business

I miei amici musicisti sentono una crisi che va molto al di là della Grande Crisi del 2008, che è brutta ma si può sperare che a un certo punto passi. Quella del music business non credo proprio che passerà in tempi brevi, e neppure medi. Ecco tre segni del declino che ho trovato in rete negli ultimi mesi:

  1. Il grafico qui sopra. Il mercato della musica registrata negli USA ha perso oltre metà del suo valore, passando dai 15 miliardi di dollari del 1999 ai 6 del 2009. Dave Kusek, nel commentarlo, è perentorio: non c’è ripresa da questo declino. Ed è un’ammissione bruciante da un blog che si chiama “the future of music”.
  2. Questa infografica. Per guadagnare il salario minimo vigente negli USA (cioè 1.160$, meno di mille euro), un musicista dovrebbe generare 1.229 download di album da iTunes, 849.000 ascolti in streaming su Rhapsody e quattro milioni e mezzo di ascolti in streaming su Spotify. Sarebbe interessante calcolare quanti ascolti in streaming servono per raggiungere il reddito degli U2, che hanno 70 dipendenti a tempo pieno e una società immobiliare.
  3. Questo post di Dave Kusek, in cui alle aspiranti rockstar viene proposto di coltivare il circuito degli home concerts. Sensatissimo, per carità, ma è proprio la descrizione della situazione che rende appetibili gli home concerts ad essere deprimente:

    la maggior parte degli artisti, a prescindere dal talento, è fortunata se attira 30-40 persone quando suona in un posto nuovo. Le risorse necessarie per superare questi numeri sono sempre più costose e meno efficaci […] chiedete a qualunque artista quanti spettatori paganti vale un bell’articolo sul giornale: pochi o nessuno.”

    Il problema, spiega Kusek, è che i locali notturni sentono la concorrenza dei videogiochi e degli altri sistemi di home entertainment, e reagiscono diversificando: cioè riempiendo i locali stessi di macchine da videopoker, tavoli da biliardo e altre attrazioni, che competono con il concerto per l’attenzione del pubblico.

    I musicisti (che sembrano non avere altra scelta) sono contenti di venire [nei locali], montare gli strumenti e suonare per un pubblico distratto e ingrato, constringendo i loro fans a sentirsi un concerto mentre gli altri clienti, ubriachi, gridano per l’ultimo touchdown.

    Se Kusek ha ragione, gli home concerts non sembrano un rimedio all’altezza del problema: sono un modo divertente di passare una serata con gli amici, non un nuovo mercato che rimpiazza quello vecchio.

La musica in quanto espressione culturale – sebbene io la senta in crisi, come ho già scritto – è stata con la nostra specie per molto, molto tempo, e tutto fa pensare che resterà con noi. Ma il music business come l’abbiamo conosciuto a partire dalla fine degli anni 40, temo, è incamminato verso l’estinzione.

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