8. Parlare con voce umana

Nel 1997, il ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini riesce a fare approvare in Parlamento la prima di quattro leggi, che insieme costituiscono una riforma della macchina amministrativa dello Stato italiano. Il testo preparato da Bassanini e dai suoi collaboratori è molto ambizioso: contiene norme per una riorganizzazione ad ampio spettro della macchina statale, dal numero dei ministeri alla semplificazione dei rapporti Stato-Regioni all’istituzione dell’autocertificazione – sulla quale il ministro è così determinato da pubblicare il numero di fax del suo ufficio, a cui segnalare eventuali abusi. La riforma, che entra nel linguaggio comune con il nome di legge Bassanini, introduce anche l’obbligo, per le autorità, di istituire uffici di relazione con il pubblico e di abbandonare il burocratese come mezzo di comunicazione con i cittadini. Quando il settore pubblico si rivolge ai cittadini deve farlo in italiano corrente. Le istruzioni per usare i trasporti pubblici, per esempio, dovranno dire che i passeggeri “devono timbrare il biglietto” e non che “hanno l’obbligo di obliterare il titolo di viaggio”1.

A prima vista la legge Bassanini sembra contenere un salto logico: cosa c’entrano i massimi sistemi dell’organigramma dello Stato con le istruzioni stampate sui biglietti del tram? I media si concentrano sulla scomparsa delle code agli sportelli dell’anagrafe – conseguenza della sostituzione di molti documenti ufficiali con autocertificazioni – e non dedicano a questa disposizione più di quelli che in gergo giornalistico si chiamano pezzi di colore, una rassegna dei più astrusi termini burocratici che la nuova legge consegna definitivamente all’estinzione. Ma questa valutazione è superficiale: la lotta al burocratese è una parte importante del new deal tra cittadini e istituzioni, obiettivo strategico della riforma. Il linguaggio, infatti, sottintende una struttura di potere: ne è la conseguenza e, allo stesso tempo, la riproduce costantemente. Allo stesso Bassanini è attribuita una battuta secondo cui “il linguaggio astruso serve a mantenere il cittadino in condizioni di inferiorità”2. Il ministero della Funzione pubblica lancia corsi di formazione alla comunicazione con i cittadini, e produce un manuale di stile da usare per scrivere in modo più chiaro e conciso3.

Cluetrain Manifesto: partecipare alla conversazione in rete

Nello stesso periodo in cui l’amministrazione pubblica in Italia cerca di liberarsi dal burocratese, un’altra rivoluzione inizia a dispiegarsi. La diffusione di internet negli anni Novanta ha aumentato moltissimo la velocità di circolazione delle informazioni sui prodotti di consumo; nascono mailing list, forum, siti web in cui consumatori e utenti condividono informazioni sui loro telefoni, automobili, televisori, riproduttori audio e così via. Per la prima volta, i consumatori hanno a portata di mouse un canale di informazione sui prodotti industriali molto ricco, alternativo a quelli aziendali e di questi molto più attendibile e amichevole. Il contrasto è stridente: da una parte, i numeri verdi del customer care lasciano i clienti per ore ad ascoltare messaggi registrati che invitano a “rimanere in linea per non perdere la priorità acquisita”; dall’altra, persone intelligenti e informate pubblicano in rete esperienze, recensioni, istruzioni per risolvere problemi di funzionamento che sono immediatamente a disposizione di tutti. Se un prodotto funziona male, naturalmente, i suoi difetti vengono esposti senza mediazioni: il telefono X va malissimo, non compratelo, non vale il suo prezzo.

Nel 1999 un gruppo di intellettuali molto influenti in rete4 pubblica il Cluetrain Manifesto, in cui si sostiene che internet ha abilitato nuovi modi di condividere informazione. Questo rende i mercati molto meglio informati e più difficili da ingannare, e sposta in modo decisivo i rapporti di forza tra consumatori e imprese a vantaggio dei primi. Il manifesto è scritto in un linguaggio semplice e diretto, e articolato in 95 tesi – un riferimento alle 95 tesi che Lutero affisse nel 1517 alla porta della cattedrale di Wittenberg, dando il via alla riforma protestante. Ecco le prime cinque:

1. I mercati sono conversazioni.

2. I mercati sono fatti di esseri umani, non di settori demografici.

3. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. Si portano avanti con voci umane.

4. Che trasmetta informazioni, opinioni, prospettive, argomenti di dissenso o battute di spirito, la voce umana è generalmente aperta, naturale, libera da costrizioni.

5. Le persone si riconoscono a vicenda come tali dal suono delle loro voci.

Alle persone impegnate a conversare con voce umana, il Cluetrain Manifesto contrappone il mondo monotono, falso e in definitiva disumano delle imprese:

14. Le aziende non parlano con la stessa voce di queste conversazioni in rete. Per coloro che esse vorrebbero rendere il loro pubblico online, le imprese suonano vuote, piatte, letteralmente disumane.

26. Gli uffici pubbliche relazioni non hanno relazioni con il pubblico. Le imprese hanno molta paura dei loro mercati.

27. Parlando in un linguaggio distante, poco invitante e supponente esse costruiscono muri per tenere a bada i loro mercati.

74. Siamo immuni alla pubblicità. Non provateci neanche.5

Nonostante lo stile barricadero, gli autori del manifesto non vogliono distruggere le imprese, ma aiutarle a restare al passo con i tempi. E il contributo che danno è questo: dati i complessi rapporti tra linguaggio e struttura di potere, i nuovi rapporti di forza tra consumatori e imprese richiedono un nuovo linguaggio. Quello vecchio, fatto di gergo aziendalese e slogan pubblicitari, cucinato da professionisti delle pubbliche relazioni e del copywriting, è diventato inaccettabile. Il manifesto ha un immediato successo in rete, e può essere considerato il punto di origine dei nuovi metodi di comunicazione aziendale attraverso i media sociali e conversazionali.

Umani e non-umani

Sono evidenti le rassomiglianze tra il Cluetrain Manifesto americano e la legge Bassanini italiana. In entrambi i casi, sul banco degli imputati c’è il linguaggio. Il tono di voce artificiale, gestito da una casta di tecnici, diventa all’improvviso inadeguato, messo in crisi dai nuovi rapporti di forza all’interno della società. E questo crea problemi a chi lo utilizza, azienda o autorità pubblica che sia. C’è anche una differenza, però: mentre Bassanini cerca di indurre le autorità pubbliche a parlare italiano, il Cluetrain teorizza che solo le persone possono partecipare alle conversazioni. Le aziende no: le aziende sono organizzazioni, macchine, costrutti disumani. Non si può parlare con un’azienda più di quanto si possa parlare con uno scaldabagno o un bulldozer. Questo ci riguarda, perché nemmeno le autorità pubbliche sono persone, e certamente – malgrado i migliori sforzi di Bassanini e di molti altri – non parlano con voci umane.

Per costruire azioni di governo wiki è indispensabile prendere il Cluetrain Manifesto molto sul serio. I suoi autori, come i suoi destinatari, sono esattamente le persone che possono far funzionare le politiche pubbliche in modalità collaborative, quelle educate all’uso attivo dell’informazione su internet. Intelligenti, colte e connesse, esse non accettano di essere trattate come soggetti passivi dalle aziende che vendono loro prodotti e servizi, e non si capisce perché debbano accettare di essere trattate come serbatoi passivi di consenso dalle autorità pubbliche. Le politiche wiki devono costruire un ambiente che queste persone trovino accogliente, o esse si ritireranno dal partecipare. E questo significa anche parlare con voce umana.

C’è però un problema: lo stile comunicativo di un’autorità pubblica può essere certo reso comprensibile, ma la sua personalizzazione può spingersi solo fino a un certo punto. Le amministrazioni, fin dai tempi di Weber, sono infatti per definizione impersonali. Una Regione o un Comune possono usare i media conversazionali, ma non sarebbe opportuno che il funzionario responsabile usasse gli account dell’istituzione in modo troppo personale. Un’azienda può forse identificarsi con un imprenditore carismatico, ma un’istituzione è per definizione un “noi” al di sopra dei singoli interessi. La Commissione europea, per esempio, ha creato un proprio profilo su YouTube; sarebbe imbarazzante se vi postasse video di gatti – sebbene i video di gatti siano un genere molto popolare. Le autorità pubbliche non possono parlare con voce umana nel senso del Cluetrain Manifesto. Come, allora, partecipare alla conversazione in rete su cui appoggiano le politiche wiki?

Le autorità pubbliche nella conversazione: creare un’interfaccia

È troppo presto per dare una risposta definitiva a questa domanda: non ci sono abbastanza esperienze a cui fare riferimento. In via provvisoria, direi che le soluzioni possibili – almeno quelle che ho sperimentato direttamente – sono due. La prima, la più semplice, consiste nel creare un’identità separata dall’istituzione, che abbia un mandato a condurre una determinata conversazione. I creativi della Basilicata sono stati coinvolti da un gruppo di lavoro che issava la bandiera di Visioni Urbane e non direttamente quella della Regione; più tardi, il ministero dello Sviluppo ha avviato un dialogo con il mondo creativo attraverso il progetto Kublai – diretto da me, che non sono certo un funzionario pubblico – invece che avvalersi di un ufficio interno.

Visioni Urbane e Kublai sono interfacce, cioè sistemi che mettono in comunicazione un “fuori” (i creativi) con un “dentro” (la Regione, il Ministero). Il concetto di interfaccia acquista molto senso se pensiamo che una policy non è un’azione unilaterale di un ente pubblico che fa qualcosa, ma un processo con molti protagonisti: lo abbiamo argomentato nel capitolo 1. Per funzionare, una policy ha bisogno di comunicare continuamente. Prima di decidere alcunché, l’autorità ha bisogno di ricevere dai cittadini informazioni sulle situazioni che è chiamata ad affrontare; per decidere, deve convergere con molti altri attori sul modo di inquadrare il problema e negoziare una soluzione; una volte prese le decisioni, deve comunicarle per renderle efficaci (cittadini e imprese non reagiranno nel modo giusto alle decisioni di policy se non le conoscono o non le comprendono); e in fase di realizzazione, deve convogliare su di sé un flusso di informazioni che le consenta di monitorare il progresso della policy. L’informazione attraversa continuamente e in entrambi i sensi gli ingressi dei palazzi del potere; se i linguaggi tra il fuori e il dentro sono troppo diversi, amministratori e amministrati vivono in due mondi diversi, e la policy si avvita su se stessa e fallisce. Di qui il bisogno di interfacce che svolgano il servizio di traduzione. Le politiche wiki si rivolgono a una minoranza connessa la cui cultura è molto, molto diversa da quella della maggioranza delle autorità pubbliche. Hanno quindi bisogno di interfacce particolarmente sofisticate ed efficaci.

Costruire un’interfaccia significa gestire un paradosso. Da una parte essa deve essere libera di adottare il linguaggio, i codici di comportamento e i luoghi di incontro delle persone con cui vuole parlare: nel caso della minoranza connessa di cui sopra, si tratta di uno stile molto poco istituzionale: incontri fissati per l’ora dell’aperitivo nei locali anziché in orario lavorativo e nelle sedi di rappresentanza, blog anziché siti istituzionali, jeans anziché giacca e cravatta o tailleur. Dall’altra parte, però, l’interfaccia deve essere esplicitamente identificata con l’autorità pubblica di cui è emanazione: è proprio questo il suo valore aggiunto, quello di portare la voce delle istituzioni nella conversazione! Questo comporta gestire un’identità meticcia, a metà tra la comunità di riferimento e l’istituzione di origine: stare in conversazioni informali ma ribadendo continuamente che si è lì per favorire l’interesse della collettività, prendere le distanze da pratiche discutibili di altri pezzi della propria amministrazione ma stando attenti a non dare mai l’impressione di esserne schegge impazzite.

Dal punto di vista organizzativo, un’interfaccia funziona bene se ha al suo interno sia persone organiche all’istituzione madre che persone espressione della community a cui si rivolge. Le prime garantiscono il collegamento con l’istituzione in senso proprio, a cui riportano informazioni e consigli e da cui raccolgono input. Le seconde gestiscono naturalmente lo snodo con la community, e in genere provvedono un utile innesco del processo. Io, per esempio, con la mia presenza in Visioni Urbane segnalo un cambio di linea da parte della Regione. Se un musicista rock entra in un gruppo di lavoro istituzionale sulla creatività, manda un segnale forte che quell’istituzione sta facendo sul serio. Questa mossa contribuisce alla creazione di un capitale iniziale di fiducia reciproca tra Regione e creativi, in un contesto in cui essa scarseggia.

Più l’idea di policy e le regole di ingaggio sono innovative, più cresce il bisogno di un brand dell’interfaccia separato dall’autorità madre. Nella primavera 2009 mi è capitato di prendere parte a un’iniziativa esemplare in questo senso: la direzione generale sulla tecnologia e la società dell’informazione (DGTech) della Commissione Europea ha promosso un seminario sulla politica della tecnologia all’interno di una conferenza chiamata Reboot, che si tiene ogni anno a Copenhagen. Reboot è nato e si è sviluppato all’interno della cultura hacker6, e ne ha mantenuto l’informalità e la radicalità di pensiero. Non ha un vero programma: sono i partecipanti stessi a lanciare idee per tenere seminari e lezioni, che poi vengono votati attraverso il sito. Nel 2009, gli argomenti toccati andavano da temi tipicamente tecnologici a consigli per perdere peso e per sopravvivere all’esaurimento delle riserve mondiali di petrolio. Nell’edizione 2008 la festa finale con dj set è stata interrotta dalla polizia, perché gli organizzatori “non avevano pensato” a chiedere autorizzazioni. Uno stile così informale e imbevuto di controcultura è molto lontano dal normale modus operandi della Commissione: nate da un accordo tra stati sovrani, e quindi nell’alveo della diplomazia, le istituzioni europee ne conservano l’attenzione all’etichetta.

DGTech, d’altra parte, è chiamata a fare politica della tecnologia, e riconosce che i partecipanti a Reboot sono esattamente le persone che producono la tecnologia e la usano per cambiare il mondo; è necessario avere a che fare con loro. Il burocrate e l’hacker sono costretti a incontrarsi, volenti o nolenti. Siccome è evidente l’estraneità che gli hackers provano nei confronti dei linguaggi e delle modalità usati in ambito istituzionale, l’unico modo di costruire un rapporto è scendere sul loro terreno. Un funzionario intraprendente, il finlandese Bror Salmelin, decide allora di costruire un evento nell’evento, in cui DGTech entra in conversazione con la comunità di Reboot e si propone di lanciare un seminario dedicato alle politiche europee per la tecnologia. L’interfaccia prende il titolo di Wikicrats, perché l’idea è quella di editare le politiche come se fossero un wiki; è da questo progetto che questo libro prende il suo titolo. Salmelin affida il compito di gestire l’interazione tra DGTech e la comunità di Reboot a Nadia El-Imam, un’ingegnere svedese di 28 anni che è una totale outsider per la prima ma ha buoni rapporti con la seconda. Mentre El-Imam dialoga con la community e le fa accettare un’istituzione internazionale come interlocutore rispettoso delle radici controculturali di Reboot, Salmelin fornisce copertura istituzionale. DGTech dà un incarico a El-Imam e paga il viaggio di dieci persone attentamente selezionate dai due – la maggior parte outsider essi stessi, ma esperti di tecnologie e di innovazione – con il compito di animare la conversazione, e invia all’evento un giovane funzionario – quindi una persona organica alla DGTech, e che porta la sua bandiera. Questi ha un battesimo del fuoco un po’ ruvido: comincia il suo intervento raccontando la visione europea di un’interfaccia digitale tra cittadino e istituzioni e viene quasi immediatamente interrotto da uno dei partecipanti: “Sì, questa roba l’abbiamo vista vent’anni fa, si chiama e-government. Quello che vogliamo sapere è perché non l’avete realizzata. Se non ci siete riusciti in tutto questo tempo vuol dire che l’idea non era poi così buona, e allora scartiamola e non parliamone più; oppure che avete sbagliato qualcosa nel realizzarla, e allora cerchiamo di capire cosa. Ma non vendeteci altra propaganda.” La discussione che segue porta in pochi minuti alla conclusione che la Commissione non capisce e non condivide la cultura della rete. Il resto del tempo viene dedicato a elencare azioni semplici e realizzabili immediatamente per contribuire a risolvere il problema7. In altre parole, DGTech si rivolge alla comunità di persone che ritiene possano aiutarla; e si mette su un piano di parità con esse, accettando il rischio di essere criticata. In questo modo si caratterizza come un soggetto che vuole partecipare a Reboot senza colonizzarlo, con il necessario rispetto.

Le interfacce hanno anche un altro compito, che è quello di ridurre il rischio politico delle operazioni di innovazione. Un’autorità pubblica accorta non colloca innovazioni radicali nel cuore di ciò che fa: le colloca invece ai margini, con piccoli investimenti sia finanziari sia politici. Se Visioni Urbane o Kublai avessero incontrato gravi difficoltà o contestazioni iniziali, avrebbero potuto essere rimodulati o cancellati senza che questi fallimenti intaccassero seriamente la credibilità della Regione o del Ministero. Solo dopo avere ottenuto i primi successi, i piani alti hanno cominciato ad associarsi in modo sistematico a questi due progetti.

Le autorità pubbliche nella conversazione: abilitare le persone-ponte

Un’altra soluzione per fare partecipare le autorità pubbliche alla conversazione in rete è di affidarsi a funzionari e dirigenti che padroneggiano i media digitali. Questa è la soluzione scelta, per esempio, dalla Banca mondiale: essa mantiene diversi blog ufficiali, che riportano il logo della Banca e sono ospitati dai suoi server. A scrivere i post sono singoli funzionari, che firmano con il proprio nome e scrivono con il proprio stile di argomenti su cui hanno individualmente competenze e interessi. Il blog Private Sector Development, per esempio, si occupa di come aumentare il grado di sviluppo dell’economia incoraggiando il settore privato ad agire piuttosto che effettuando direttamente investimenti pubblici. Il suo obiettivo è:

  • Commentare in modo meditato ciò che accade nel mondo intorno allo sviluppo trainato dal settore privato.
  • Diffondere siti web, libri e articoli che chi si occupa di queste cose possa trovare utili.
  • Essere un collegamento tra le risorse online del gruppo Banca mondiale e il mondo della blogosfera, sempre in evoluzione.8

Il blog PSD è multiautore, e ha chiaramente un mandato da parte della Banca mondiale a occuparsi di questo argomento e non di altri; nonostante questo, il tono è tutt’altro che impersonale. Il lettore impara presto a familiarizzare con i diversi autori, ciascuno dei quali ha un proprio stile e propri interessi. Mohammad Amin si occupa molto di regolamentazione del mercato del lavoro e come questa influenza lo sviluppo, e usa volentieri strumenti di analisi statistica ed econometrica; Ryan Hahn segue con attenzione l’evoluzione del “clima degli affari”, cioè quanto è semplice ed economico aprire e gestire imprese nei vari paesi; Giulio Quaggiotto si interessa dell’impatto dell’innovazione tecnologica sullo sviluppo, e così via. Una pagina del blog contiene brevi presentazioni degli autori. Quella di Giulio dice così:

Giulio Quaggiotto lavora come program officer per la conoscenza e l’innovazione nel Dipartimento ambiente e sviluppo sociale dell’International Finance Corporation. Prima di entrare al gruppo Banca mondiale ha lavorato all’Università delle Nazioni Unite a Yokohama, in Giappone, ed è stato knowledge manager al WWF internazionale. Oltre alle tecnologie più oscure e ai panda, gli interessi di Giulio includono la filologia slava e gli oggetti kitsch (avete, presente no? Le palle di vetro con la nevicata sul Colosseo e cose

Il tono informale è attentamente meditato. Come i suoi colleghi, Giulio Quaggiotto parla con voce umana dall’interno di un’istituzione, che prende a prestito i suoi panda e i suoi oggetti kitsch per inserirsi nel flusso della conversazione globale in rete.

Il blog PSD rappresenta la Banca mondiale? La risposta a questa domanda non è semplice come sembra. La pagina di presentazione del blog contiene questo paragrafo:

Tutti gli autori sono membri del gruppo Banca mondiale. I loro post sono personali, e non riflettono necessariamente i punti di vista e le opinioni del gruppo Banca mondiale, del suo consiglio di amministrazione e dei governi che esso rappresenta.

Quindi in un certo senso la risposta è no. D’altra parte è chiaro che gli autori vengono pagati per scrivere su un blog che porta il logo della Banca, e che un’opinione espressa in quella sede è in qualche modo più istituzionale di quelle che le stesse persone potrebbero esprimere nei loro blog personali. È chiaro anche che un codice di condotta regola e delimita lo spazio che gli autori coprono: Giulio non scrive mai di panda, né il suo collega Michael Jarvis si dilunga sulle band musicali underground che gli piacciono tanto. Almeno uno degli autori, David Lawrence, mantiene un proprio blog personale dove trovano posto considerazioni che su PSD sarebbero fuori contesto. In altri termini, PSD è a tutti gli effetti un organo ufficiale dell’istituzione che lo ha promosso. In questo senso la risposta è dunque sì, PSD rappresenta la Banca mondiale. Dunque:

  • PSD blog è un organo ufficiale della Banca mondiale, ma le opinioni espresse dagli autori sul blog non impegnano la Banca
  • gli autori devono rispettare regole molto precise circa lo stile, l’obbligo di rifarsi alle fonti e ai dati, gli argomenti da trattare: non scrivono in uno spazio privato, ma in uno istituzionale. Il responsabile del PSD blog ha prodotto un documento di linee guida: in mancanza di una prassi consolidata sul blogging da parte dei dipendenti pubblici, la presenza di linee guida scritte e approvate dal top management fornisce agli autori un terreno sicuro9. Il governo britannico ad esempio è tra le istituzioni più attive nel fornire linee guida esplicite per la partecipazione dei suoi dipendenti alla conversazione in rete; nell’estate 2009 alle linee guida per il blogging10 ha aggiunto anche quelle per l’uso della piattaforma di microblogging Twitter. All’interno di queste regole i singoli autori godono di notevole autonomia nell’esprimere le proprie opinioni.11

In altre parole, scrivere sul blog PSD richiede finezza intellettuale, sensibilità istituzionale, e anche una certa personale autorevolezza – è con la qualità dei post che si coltiva un pubblico, e in definitiva un ruolo nella conversazione. Mohammed, Ryan, Giulio e gli altri possiedono queste qualità e – cosa importantissima – un’autorizzazione esplicita da parte del loro datore di lavoro a usarle. Con questi strumenti, essi possono accreditare la Banca mondiale come un soggetto che partecipa alla conversazione globale. Riassumono in sé le caratteristiche delle interfacce descritte alla sezione precedente: sono persone-ponte tra la Banca e la blogosfera. E quindi il blog PSD funziona: leggerlo regolarmente (meglio ancora, commentarlo spesso) apre una finestra sul dibattito sullo sviluppo trainato dal settore privato. Inoltre, dà una buona idea della discussione che si svolge in merito all’interno della Banca mondiale, e del clima che vi prevale12.

Potere alle persone

Vi sono ovviamente differenze importanti tra le interfacce e le persone-ponte. Le prime sono particolarmente adatte all’azione, per esempio a realizzare un progetto; sono anche soluzioni in qualche modo più radicali, e meno identificate con l’autorità che le promuove, quindi riducono i rischi politici associati al loro fallimento. Le seconde sono più adatte alla comunicazione pura; interne alle istituzioni, ne mantengono tutta l’autorevolezza.

Entrambe le soluzioni, tuttavia, richiedono un elevato grado di autonomia. I project manager dei progetti interfaccia e le persone-ponte abilitate alla conversazione con l’esterno hanno bisogno di autorevolezza e indipendenza per generare la credibilità necessaria a svolgere bene i propri compiti. Essi, dunque, devono godere della fiducia dei loro superiori. Un’autorità pubblica che non si fida dei propri dipendenti e collaboratori non può parlare con voce umana: è condannata all’ostilità del burocratese, o al tono piatto e artificiale dei comunicati stampa. C’è di più: i dipendenti e i collaboratori più adatti alla conversazione tenderanno ad essere le persone con spirito libero, indipendenza di giudizio, attenzione ai contenuti, disposizione all’ascolto. Se all’interno della gerarchia un ruolo dirigenziale o l’anzianità possono assicurare ascolto e autorevolezza, l’unica possibilità per farsi ascoltare là fuori è partecipare alla discussione con integrità e contenuto di qualità.

La conclusione di tutto questo è che l’immersione nel flusso delle conversazioni è una grande occasione per le autorità pubbliche. Prendendovi parte, esse accedono a una straordinaria ricchezza informativa a costi trascurabili; allineano le proprie percezioni con quelle degli altri stakeholders; costruiscono credibilità; reclutano partecipazione e collaborazione. Perché tutto questo avvenga, però, è necessario che esse si accostino alla conversazione globale con il dovuto rispetto, accettandone le regole – in particolare quella di parlare con voce umana. Poiché solo gli uomini e le donne possono parlare con voce umana, sono loro che devono comunicare per conto delle istituzioni usando le proprie voci. Un’autorità pubblica che conversa con il mondo ha bisogno di uomini e donne autonomi e capaci, e non ha scelta se non dare loro fiducia. La conversazione globale allontana la tentazione di vedere le istituzioni come macchine e i dipendenti come i loro ingranaggi, ed esalta invece il ruolo – e la responsabilità – delle persone più credibili e carismatiche.

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Note

1 Un tentativo precedente in questo senso era stato fatto nel 2003 dal ministro Sabino Cassese.

2 http://it.wikipedia.org/wiki/Burocratese (ottobre 2009)

3 Alfredo Fioritto, Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, Bologna, il Mulino, 1997

4 Si tratta di Rick Levine, Cristopher Locke, Doc Searls e David Weinberger.

5 http://www.cluetrain.org (traduzione mia)

6 La parola hacker è usata qui nel senso originario di “persona che comprende a fondo una certa tecnologia, ed è quindi in grado di personalizzarla per ottenerne il massimo”; non, invece, nel senso derivato di “persona che viola consapevolmente le protezioni informatiche”

7 Il rapporto di Wikicrats è un bell’esempio di documento istituzionale che parla con voce umana. http://www.slideshare.net/cookiesncode/report-wikicrats-workshop-reboot2009-nadia-elimam-1803227

8 http://psdblog.worldbank.org/psdblog/about.html

9 Le linee guida del PSD blog si concentrano sulle qualità conversazionali che la scrittura sui blog deve avere: post brevi, un solo argomento per post, tono personale ecc. (Banca mondiale, documento interno, fornito all’autore da Giulio Quaggiotto nell’ottobre 2009)

10 http://www.civilservice.gov.uk/about/work/codes/participation-online.aspx. Il sito della NASA ha una pagina con link alle linee guida di diverse istituzioni di tutto il mondo: http://tinyurl.com/oh368u (ottobre 2009).

11 http://www.scribd.com/doc/17313280/Template-Twitter-Strategy-for-Government-Departments (ottobre 2009)

12 Il mio esempio preferito è un post in cui viene raccontato l’intervento dello statistico Nassim Taleb al forum Finanza e sviluppo del settore privato della Banca mondiale nel marzo 2009, sull’onda della crisi finanziaria iniziata nel 2008. Taleb non fa prigionieri, e critica pesantemente tutti, in sala e fuori. Il resoconto è divertente e indicativo del clima che si respirava in quel momento nei templi della grande finanza internazionale. http://crisistalk.worldbank.org/2009/03/black-swans-and-banking-regulations.html (marzo 2010)

8 pensieri su “8. Parlare con voce umana

  1. giulio quaggiotto

    Alberto, mi hai fatto arrossire 🙂

    un aggiornamento: la Banca ha adesso una social media policy con tanto di guidelines, anche se quelle del PSD blog continuano a valere.

    sul tema di parlare con voce umana – o forse, piu` semplicemente – essere esseri umani (!), 2 dei miei “classici”:

    1) http://vimeo.com/11058447

    2) “Most “social media” strategies have one or more of three goals: to “push product,” “build buzz,” or “engage consumers.” None of these lives up to the Internet’s promise of meaning. They’re just slightly cleverer ways to sell more of the same old junk. But the great challenge of the 21st century is making stuff radically better in the first place — stuff that creates what I’ve been calling thicker value.
    Organizations don’t need “social media” strategies. They need social strategies: strategies that turn antisocial behavior on its head to maximize meaning. The right end of social tools is to help organizations stop being antisocial. In fact, it’s the key to advantage in the 2010s and beyond.
    Using the social to “build buzz” and “push product” is about as smart as using a warp drive to visit your local Wal-Mart. Social tools today are used mostly as a new “channel” to push the same old useless stuff of the industrial era at hapless “consumers.” That’s meaninglessness at it’s finest. It’s the least productive — and most soul-deadening — use of a formidably powerful tool.

    Social media strategy fits inside a marketing (business, corporate) strategy, and is shaped by it. Social strategy fits outside business and corporate strategies, and shapes them.”
    http://www.stoweboyd.com/message/social-strategy-and-social-architecture.html

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    1. Alberto Autore articolo

      Wow, Giulio, che citazione! Questa va dritta nel libro. Non tutta, però, così è troppo lunga. Che ne dici se la parafrasiamo in “usare i social media per “spingere i prodotti” o “costruire passaparola” è circa altrettanto intelligente quanto usare il teletrasporto per andare a fare la coda all’ufficio postale”?

      Mi passi un link alla social media policy della Banca Mondiale?

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  2. Simone De Battisti

    Trovo fondamentale il paragrafo umani/non umani.
    Meriterebbero maggiore approfondimento chiarezza, i passaggi logici sono rapidi e li dai per scontati, forse troppo. Del resto poche pagine più avanti metti diversi elementi che spostati qui arricchirebbero e sosterrebbero questo passaggio.

    Quando parli di interfaccia..mi viene in mente un esempio brillantissimo che usava Lanzara (in capacità negativa) quando raccontava di come durante la fase immediata post terremoto dell’irpinia la capacità di co ordinamento centralizzato delle forse dell’ordine e di soccorso fosse molto debole per ovvie problematiche logisiche, tecnologiche, locali, fisiche, burocratiche, di responsabilità, cognitive degli attori coinvolti… complessità dei problemi integrazione delle soluzioni, rapporti con la popolazione locale, interpretazione delle situazioni…invece risultava molto efficace il casuale ed informale trovarsi a prendere un caffè presso un bar “mobile” che si piazzava per alcune ore nella piazza del paese..tutti ci andavano a fare una pausa e le informazioni quelle utili, scorrevano copiose ed efficaci, oltre le barriere dei gradi, dei corpi, delle competenze…avrei anche qualche esempio di vita vissuta maturato in bosnia…ma non è il caso.

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  3. Francesco Silvestri

    Copywriting? Non si dice copyrighting (da copyright)? Domanda non retorica, mi hai fatto venire il dubbio.

    La nota 4 è inutile in sé; aggiungi i nomi, ma non sono Umberto Eco, Isaac Singer, Morgan (the pirate), insomma, gente che tutti sono tenuti a conoscere; o aggiungi due righe (tipo “sono gli ideatori di … tra i più importanti columnist del NYT, ecc…) oppure puoi fare a menoo anche dei nomi

    Notevole l’idea dell’interfaccia (VU e non regione), molto bello.

    Quasi all’ultima riga, utilizzi il termine “rispetto”; io lo eliminerei, dà l’impressione di ripetizione (hai trattato la questione rispetto in lungo e in largo al cap precedente), anche se è funzionale a quello che stai dicendo. Usa un sinonimo o un concetto sostitutivo (anche il semplice “attenzione” va bene).

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  4. robertina

    La presentazione di Giulio Quaggiotto sulla pagina del blog PSD che riporti nel testo sembra “tagliata”: è voluto?

    Replica

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