4. Accettare il cambiamento

Telford, Inghilterra, dicembre 2006. Peter Roberts, 46 anni, libero professionista, si siede al suo computer e scrive queste parole:

Noi sottoscritti chiediamo al Primo Ministro di ritirare il piano di road pricing, cioè la tassazione dei veicoli a motore in base ai chilometri percorsi.

Tutto qui. Una riga e mezzo.

Il computer di Roberts è collegato con la pagina dedicata alle petizioni del sito web dell’ufficio del Primo ministro: qualcosa di simile alla nostra Presidenza del Consiglio dei ministri. Il sito è veramente semplicissimo: pochi clic consentono a qualunque cittadino britannico di creare una petizione, o di aderire a una petizione creata da altri1 .

Il governo laburista ha cominciato a parlare di road pricing nel 2005. Roberts è contrario, perché il piano prevede un controllo via GPS del movimento dei veicoli: questa, a suo modo di vedere, è un’invasione inaccettabile della privacy. Quando ha sentito parlare del sito di petizioni di Downing Street, messo online nel 2006, si è messo in contatto con l’associazione degli automobilisti britannici, di cui è socio, e ha proposto che l’associazione lanciasse una propria petizione tramite il sito. L’associazione non ha voluto compromettersi: quindi Roberts ha deciso di fare da solo. Dopotutto sono veramente pochi clic, un quarto d’ora di lavoro al massimo. Fissa la scadenza al 20 febbraio. Clicca su “Create petition”.

A questo punto le cose si muovono molto rapidamente.

  • L’11 gennaio 2007 la petizione ha raccolto più di 230.000 firme. Un anonimo portavoce del governo dichiara che “non ci sono ragioni per non prendere provvedimenti contro la congestione del traffico”, che sta aumentando e si prevede continuerà a farlo. Roberts è citato come iniziatore della petizione, che è di gran lunga la più votata del sito; ma il compito di rappresentare le ragioni degli automobilisti è affidato a un portavoce dell’associazione automobilisti 2.
  • Il 10 febbraio le firme hanno superato il milione. La posizione del governo, rappresentato dal segretario ai Trasporti Douglas Alexander, è che questi numeri mostrano che “ci deve essere più dibattito” sul tema. Viene di nuovo citato un portavoce dell’associazione automobilisti, ma questa volta viene intervistato anche Roberts, di cui viene pubblicata anche una foto3 .
  • Il 12 Alexander promette che il piano di road pricing non verrà applicato senza il consenso degli automobilisti. Nell’attesa di un sistema nazionale sono previsti diversi progetti pilota su scala locale, di cui uno a Manchester, ma le autorità di Manchester hanno già dichiarato che non avvieranno la sperimentazione senza il consenso del pubblico. Le firme sono 1.127.8174.
  • Il 19 – penultimo giorno utile per firmare – le firme sono oltre un milione e mezzo. La petizione di Roberts si è guadagnata una grande visibilità nell’agenda politica nazionale. Il Primo ministro Tony Blair afferma che risponderà personalmente. Il dipartimento dei Trasporti si dichiara soddisfatto dell’opportunità di ravvivare il dibattito sul road pricing (ma il segretario Alexander sarebbe “arrabbiato” secondo la stampa). Il Partito Verde e altre organizzazioni ambientaliste sostengono che la petizione “dà un quadro falsato del road pricing”. Il presidente della commissione parlamentare sui trasporti, Gwyneth Dunwoody, è più netto: “un’idiozia”. Statistiche e modelli di previsione vengono agitate da entrambe le parti5.
  • A mezzanotte del 20 la petizione chiude a 1.811.424 firme. Il 21 il sito pubblica la risposta del Primo ministro Tony Blair, che viene anche inviata in forma di e-mail ai firmatari. Blair ringrazia i firmatari per il loro impegno civile e afferma di non essere in grado di prendere una decisione sul road pricing per mancanza di dati. La cosa che il governo deve fare, invece, è avviare i progetti pilota locali, che permetteranno di inquadrare meglio il problema6.
  • Il 13 giugno Roberts abbandona l’associazione degli automobilisti di cui è membro per lanciare un proprio gruppo di pressione, la Drivers Alliance. Tra gli obiettivi della nuova organizzazione vi è la rinuncia del governo ai progetti pilota di road pricing, percepiti come un cavallo di Troia per fare passare lo schema nazionale inviso ai firmatari della petizione di Roberts. Nel frattempo le autorità locali dei territori soggetti ai progetti pilota puntano i piedi e, una dopo l’altra, si dichiarano indisponibili ad avviare una sperimentazione che percepiscono come fortemente controversa7.
  • Il 16 ottobre il governo annuncia il ritiro del piano di road pricing. La legge che avrebbe dovuto avviare le sperimentazioni locali, infatti, risulta impossibile da approvare in parlamento.8

La riga e mezzo scritta da Roberts ha portato all’azzeramento di un importante provvedimento di politica dei trasporti, pure incorporato nella piattaforma elettorale del governo laburista; al coinvolgimento di un pezzo importante di opinione pubblica sul tema; alla creazione di un nuovo attore sulla scena della politica dei trasporti, la Drivers Alliance, con Roberts stesso come leader; tutto questo in meno di un anno. Inoltre, il successo della petizione sul road pricing ha stimolato altre persone a lanciare proprie petizioni. A fine 2008 il sito dell’ufficio del Primo Ministro ha raccolto 9 milioni di firme da oltre 5 milioni di utenti, cioè più o meno il 10% della popolazione britannica.

Chi ha il controllo?

Le petizioni hanno una tradizione antica nel sistema britannico: Internet le rende solo più facili, economiche, veloci. Questo salto di scala, però, genera un cambiamento di livello, più o meno nello stesso modo in cui un elevato numero di atomi – ciascuno dei quali, preso singolarmente, si studia con gli strumenti della fisica atomica e subatomica – dà origine a nuovi aggregati come molecole e cristalli, e a una scienza del tutto diversa, la chimica9 .

Gli studiosi delle forme organizzative descrivono questo salto di livello facendo riferimento al concetto di controllo distribuito10 . Processi come quello della politica britannica sul road pricing non sembrano essere controllati da nessuno in particolare: non dal New Labour, che pure teneva saldamente le redini del governo; non dall’opposizione; e naturalmente nemmeno dal signor Roberts, il quale – dopotutto – si è limitato a scrivere una riga e mezzo di testo su una pagina web. Ciascuno di questi agenti, e molti altri – dai media ai politici locali che nel 2007 si sono rifiutati di dare vita ai progetti pilota, fino al milione e passa di singoli cittadini che hanno firmato la petizione – partecipano al processo; ma è il complesso delle loro interazioni a determinarne il risultato finale.

Nell’era del web di massa, le decisioni sulle politiche pubbliche sembrano essere sempre più distribuite tra una moltitudine di agenti. La rivoluzione digitale ha aperto nuove vie alla partecipazione. Esistono nuovi mezzi per fare opinione pubblica, e si stanno dimostrando estremamente efficienti nel reperire e veicolare alle persone interessate le informazioni rilevanti. Milioni di cittadini comuni si sono trasformati in commentatori e reporter, dando vita al fenomeno del citizen journalism; la blogosfera continua a espandersi (i blog si contano ormai a centinaia di milioni) e a specializzarsi, attirando l’attenzione di centinaia di milioni di lettori e ponendo una sfida molto seria ai mezzi di informazione di massa. Per la pura forza dei numeri, milioni di blog si occupano di politiche pubbliche. Questo mette le amministrazioni sotto milioni di lenti di ingrandimento, attraverso le quali i cittadini le guardano e si formano un’opinione. Il caso più noto agli italiani è quello di Beppe Grillo, il cui blog ha oltre 200.000 lettori che partecipano in modo appassionato. Con i suoi post Grillo è in grado di influenzare il dibattito pubblico: e, grazie ai costi irrisori rispetto a quelli di un grande giornale, può permettersi di battere per mesi e mesi su una politica pubblica che gli interessa, tenendo sulla graticola l’amministrazione secondo lui inadempiente11 .

Lo straordinario sviluppo dei social network degli ultimissimi anni ha consentito alla discussione sul web un ulteriore salto di scala. Non soltanto per i grandi numeri di persone coinvolte (Facebook contava oltre duecento milioni di utenti registrati a inizio 2009, di cui nove erano italiani) ma anche per l’assiduità della frequentazione e per la facilità estrema con cui questi sistemi consentono di riprendere, diffondere e integrare contenuti presenti in rete. Il meccanismo è questo: qualcuno legge un articolo, o vede un video che considera interessante; lo condivide sul proprio profilo Facebook o FriendFeed, il che segnala a tutti i suoi amici sui social network che quella persona ha trovato un contenuto che considera degno di nota. Questi, a loro volta, possono commentare o segnalare quel contenuto ai propri amici – che non necessariamente conoscono la persona che ha dato il via al processo – e così via. Il sistema è disegnato proprio per consentire gli effetti valanga a cui internet ci ha abituati, in cui un gran numero di persone si ritrovano su un elemento di contenuto – che sia un video musicale o una petizione.

Il successo della blogosfera e del citizen journalism si traduce nel fatto che molte più persone hanno un’opinione informata sulle politiche pubbliche, e si sentono qualificate a esprimerla. Se non si consente loro di farlo in sede di progettazione lo faranno in sede di protesta, e si può prevedere che la protesta diventerà sempre più specializzata e informata, mettendo così in difficoltà sempre crescenti le amministrazioni. Il successo dei social network aumenta la capacità di penetrazione di questi processi nella massa dei cittadini. Controllare il sistema politico tradizionalmente inteso garantisce sempre meno la possibilità di prendere decisioni di politica pubblica e realizzarle: il controllo di queste attività è sempre più sfuggente e distribuito, come il governo Blair ha scoperto a sue spese nel 2007. Il vaso di Pandora è stato aperto, e non si può tornare indietro.

Si può, però, andare avanti. Abbracciare il cambiamento. Usare le piattaforme digitali per costruire una community da coinvolgere sulle decisioni da prendere e presso cui acquisire una buona reputazione. Come si è detto, questa strategia ha grandi potenzialità per generare nuove idee e nuove soluzioni; inoltre, in una community ben funzionante i contestatori male informati o pretestuosi verranno travolti pubblicamente (per esempio nei commenti a un post di blog) da un’ondata di controargomentazioni. Se un decisore ha acquisito una buona reputazione e ha preso una decisione informata, onesta e trasparente è assai probabile che la community lo difenda dagli attacchi immotivati, delegittimando così le critiche e non la decisione stessa.

Visioni Urbane: ripensare le persone per ripensare le politiche

Come ho già accennato al capitolo 1, nel 2007 mi è capitato di occuparmi della realizzazione di una misura decisa dalla Regione Basilicata: la costruzione di un certo numero di spazi laboratorio creativi. Il gruppo di lavoro di cui facevo parte ha tentato proprio di abbracciare (e addirittura spingere) il cambiamento, intavolando un rapporto alla pari con le persone che erano interessate a questo processo e tentando di costruire con loro un rapporto di fiducia.

La storia comincia nell’estate 2007. Il punto di partenza è un atto amministrativo che stabilisce che la Regione dovrà fornire infrastrutture fisiche in cui i creativi locali possano esprimersi, e stanzia risorse per farlo. Le indicazioni, però, si fermano qui. Non è stato deciso quanti di questi spazi debbano essere costruiti, né dove farlo; non è chiaro quale tipo di attività creative vi si svolgeranno, che tipo di attrezzature richiedano, né chi le svolgerà (come si è visto nel capitolo 1, questo tipo di ambiguità è tutt’altro che straordinario nelle decisioni di programmazione). Inoltre, i fondi disponibili sono destinati alla spesa in conto capitale, cioè, essenzialmente, a costruire o ristrutturare edifici; non vi sono invece stanziamenti per le attività da svolgervi. Questo significa che l’espressione creativa da ospitare in quei luoghi deve necessariamente essere economicamente autosufficiente se si vuole che gli spazi laboratorio funzionino.

Viene costituito un gruppo che comprende esperti della Regione e del ministero dello Sviluppo economico; il suo compito è di costruire una proposta che impieghi questi fondi (4,3 milioni di euro) per dotare la regione di spazi laboratorio che funzionino bene dal punto di vista culturale e che siano economicamente sostenibili. Vengo coinvolto per guidare il piccolo gruppo del Ministero, che ha un ruolo di appoggio, mentre la Regione è titolare della policy. Il gruppo regionale è coordinato da Rossella Tarantino, che è una persona preparata e con una prospettiva internazionale (ha lavorato alla Commissione Europea).

Il problema non è semplice. Da un lato il mercato culturale è, in Basilicata, molto debole, anche a causa della bassa densità di popolazione (appena 600.000 abitanti in una regione di diecimila chilometri quadrati; le due città principali, Potenza e Matera, hanno solo 60.000 abitanti ciascuna) e della lontananza dalla grandi infrastrutture di comunicazione. Dall’altro i creativi locali soffrono dei problemi tipici delle aree in ritardo di sviluppo: autoreferenzialità e scarsa imprenditorialità. Risultato: il loro modo di lavorare è spesso appiattito sulla caccia ai finanziamenti pubblici. Sono in concorrenza tra loro, ma è una concorrenza in cui non vince quasi mai il più bravo, ma chi riesce a coltivare meglio i contatti con la classe politica locale.

Capiamo subito che non possiamo risolvere il problema con una decisione tecnocratica, per quanto illuminata. Per avere spazi creativi economicamente sostenibili bisogna inventarsi prodotti in grado di essere venduti su qualche mercato culturale, e non possiamo certo farlo noi: occorre mobilitare la conoscenza molto dettagliata dei mercati culturali in Basilicata che la scena creativa locale – e solo essa – ha. Inoltre, gli unici candidati credibili per gestire questi spazi sono i creativi locali stessi. Il loro coinvolgimento, dunque, è essenziale. Sono al tempo stesso le guide che ci accompagnano su un territorio a noi sconosciuto, e gli attori che dovranno vivacizzare questo territorio. Perché il progetto abbia successo, i creativi devono imparare un modo nuovo di pensare il loro lavoro, un modo più orientato alla sostenibilità di mercato e meno ai sussidi pubblici. Di più: abbiamo bisogno che lo vogliano imparare. Dobbiamo vendere loro un nuovo patto, in cui l’amministrazione regionale fornirà loro infrastrutture di alta qualità per le attività culturali e creative; in cambio, essi le trasformeranno in ambienti vivaci e sostenibili. Soldi e spazi in cambio di energia creativa. Perché questo accada, devono succedere quattro cose.

Per prima cosa, dobbiamo ripensare la policy. Una decisione razionale, basata sui dati raccolti sul territorio, non è sufficiente. Dobbiamo lasciare che i creativi lucani definiscano, almeno in parte, quali sono le cose da fare; e che propongano i propri criteri per decidere, oltre a fornirci informazioni. Dobbiamo accettare di cedere loro parte del controllo sulla policy, e condividere con loro ciò che sappiamo sul meccanismo politico-amministrativo che la governa. Dobbiamo, insomma, trattarli come adulti pensanti e degni di fiducia. La policy stessa si deve strutturare come un’iniziativa comune, in cui l’amministrazione regionale continui a essere un protagonista, ma non l’unico attore. Questo non è affatto semplice: le relazioni tra le amministrazioni locali e la scena creativa sono spesso tese nelle aree in ritardo come la Basilicata. Vista la debolezza del mercato culturale locale e la mancanza di una tradizione di mecenatismo privato, artisti e organizzatori culturali tendono a considerare le Regioni e le autorità locali come i loro unici clienti. D’altro canto, a forza di sentirsi chiedere denaro, i decisori politici e i funzionari hanno finito per considerare i creativi come soggetti poco autonomi, che sono nel migliore dei casi dipendenti dai sussidi pubblici, e nel peggiore persone che cercano di ricavarsi una rendita di posizione.

In secondo luogo, dobbiamo risolvere un problema di credibilità. Le amministrazioni pubbliche del Mezzogiorno d’Italia vengono in genere rappresentate come inefficienti e corrotte. Anche se riuscissimo a superare i nostri pregiudizi, e a ripensare i creativi lucani come una risorsa decisiva, resta da vedere se loro accetteranno di considerare noi come persone con cui possono lavorare.

In terzo luogo, abbiamo bisogno che i creativi della Basilicata si riconoscano a vicenda come colleghi degni di rispetto e alleati potenziali. La ragione è che gli spazi laboratorio dovranno essere gestiti da coalizioni di creativi: i costi fissi sono troppo alti, e i mercati culturali troppo poco sviluppati, perché una singola impresa o associazione possa gestire da sola uno spazio con un minimo di sostenibilità. Purtroppo, decenni di concorrenza a somma zero per i fondi pubblici per la cultura – per di più assegnati con criteri non sempre trasparenti – hanno sedimentato una profonda sfiducia reciproca tra i creativi locali, che si accusano a vicenda di ottenere finanziamenti più per la vicinanza all’assessore di turno che per la qualità del loro lavoro. Non è soltanto un problema di percezione: è vero che alcuni dei creativi della Basilicata sembrano dovere la loro fortuna alla benevolenza dei politici, ed è vero che essi drenano risorse che probabilmente potrebbero essere utilizzate con maggiore profitto altrove. Il problema che abbiamo è quindi tentare di stanare i creativi trincerati a difesa del proprio cortile; e convincerli a creare un’alleanza tra quelli di loro che mettono in primo piano la visione e le capacità, piuttosto che le amicizie politiche.

Infine, abbiamo bisogno che tutti i soggetti coinvolti riconoscano che il cambiamento è davvero possibile, almeno nei limiti ristretti di questa policy in particolare. Per aggiungere credibilità alla nostra posizione, dobbiamo fare in modo che persone estranee all’arena lucana, ma riconoscibili, la convalidino.

Insomma, quella iniziale è una situazione di impotenza: la Regione, pur avendo formalmente le leve del potere, non è assolutamente in grado di portare a termine il compito che si era prefisso, perché altri soggetti possono bloccarla semplicemente non collaborando. Compiendo questi quattro passaggi, accettiamo di ridurre il nostro grado di controllo formale, accreditando sia i creativi lucani che gli esperti esterni come coprogettisti (non solo destinatari) della policy; e proprio questa accettazione ci consente di rimettere in moto la policy stessa.

Segnalare per il riconoscimento reciproco

Per mettere in pratica questo sblocco, ci costruiamo un marchio, Visioni Urbane, e un’identità separati da quelli dell’amministrazione regionale, e lo connotiamo in modo da sradicare i luoghi comuni sulla pubblica amministrazione distante e incapace. Questo, del resto, è coerente con la struttura del progetto: è la prima volta che il ministero dello Sviluppo economico entra in rapporto con i creativi della Basilicata, e ci aiuta a sostenere che il cambiamento è davvero possibile, che questa volta si fa sul serio.

La parola chiave nel paragrafo precedente è “connotiamo”. Per rendere credibile la mossa di Visioni Urbane verso una situazione in cui il controllo della policy è condiviso con i creativi, il gruppo deve bruciarsi i ponti alle spalle, impegnandosi pubblicamente a uno stile trasparente, meritocratico, orientato alla condivisione della conoscenza. Non dobbiamo soltanto essere diversi dallo stile amministrativo prevalente nel Mezzogiorno. Dobbiamo anche sembrarlo.

Queste considerazioni portano il gruppo di Visioni Urbane a mosse che a prima vista sembrano piuttosto radicali. Per esempio:

  1. Ci rifiutiamo di adottare una definizione rigida di “creatività” e “creativi”. Costruiamo invece un processo che porta ad individuare i creativi nostri interlocutori in modo virale: partiamo da un elenco di una ventina di imprese e associazioni culturali che hanno collaborato in modo proficuo a una recente iniziativa regionale, e chiediamo loro di indicarci altre imprese e associazioni del territorio di cui hanno stima. Ci mettiamo in contatto con queste, e facciamo loro la stessa domanda, e così via. Dopo qualche iterazione ci accorgiamo che continuano ad affiorare gli stessi nomi, e possiamo terminare il processo a 91 organizzazioni di creativi. Questo metodo è estremamente inclusivo, perché l’interesse per il progetto e la volontà di collaborare finiscono per essere quasi gli unici criteri di accesso.
  2. Strutturiamo la relazione tra la scena creativa e il progetto in modo esplicitamente altruistico. Spieghiamo con chiarezza che Visioni Urbane non finanzia progetti culturali: il suo budget serve per costruire i centri culturali, non per attività da affidare – a pagamento – ai creativi. La Regione, il loro cliente principale, non è in Visioni Urbane per comprare, ma per cercare aiuto. Chi decide di aiutarci non ne ricaverà nessun vantaggio. Essere così espliciti serve ad allontanare dal progetto gli opportunisti e le persone che non sono interessate a questo tipo di rapporto, e funziona benissimo: molte delle organizzazioni culturali di più lunga tradizione abbandonano la sala a metà della prima riunione, e non ritornano. Viceversa, la parte più altruistica della scena creativa si autoseleziona per partecipare al progetto.
  3. Gestiamo la maggior parte del progetto attraverso un blog, di cui rinunciamo a moderare i commenti. Lanciato nel settembre 2007, ci consente di rivendicare la massima trasparenza: ogni volta che organizziamo un incontro usiamo il blog per annunciarlo, raccogliere le iscrizioni e informare chi non ha potuto partecipare di com’è andato, pubblicandone anche i materiali (slides, relazioni, video…). Consentendo i commenti non moderati mostriamo di non temere le critiche e dimostriamo fiducia nei nostri interlocutori. Quella del blog è una scelta particolarmente sofferta da parte del gruppo di Visioni Urbane: qualche mese prima il presidente della Regione ha aperto un proprio blog, e alcuni giovani lo hanno usato per criticarlo ai limiti dell’attacco, e anche un po’ oltre. Inesperti delle tecniche di comunicazione in rete, il presidente e il suo staff non hanno saputo elaborare una risposta efficace, e si trovano con una situazione imbarazzante da gestire.
  4. Ci circondiamo di figure di alto profilo che non provengono dalla Basilicata. A partire dal dicembre 2007 cominciamo ad invitare ai nostri incontri intellettuali (il futurologo americano Bruce Sterling) e artisti famosi (il gruppo teatrale d’avanguardia catalano La Fura dels Baus), strateghi del territorio (l’ex direttore di Torino Internazionale Paolo Verri) e organizzatori culturali “modello” (Fondazione Cittadellarte).

Questa strategia ci permette di stabilire un clima più sano e disteso, in cui artisti e organizzatori culturali possono parlare con l’amministrazione e tra loro. L’apertura ai commenti del blog viene usata in modo molto responsabile. Si verifica un solo scambio teso, a ottobre 2007, e anche quello è molto civile. I creativi cominciano ad esprimere apertamente il loro apprezzamento per la sincerità dello sforzo del gruppo regionale, e perfino a scoprire gli uni negli altri degli interlocutori interessanti. Durante la seconda parte del 2007, le parti in gioco cominciano a dare segni di riconoscersi reciprocamente, e perfino di divertirsi.

La policy come conversazione

Con la fine del 2007, Visioni Urbane prende la forma di una conversazione tra il gruppo Regione-Ministero e i creativi della Basilicata. Il primo formula ipotesi, le scrive in documenti e le sottopone ai secondi, che rispondono con suggerimenti, integrazioni e, alla fine, una validazione. Il processo avviene attraverso una serie di incontri fisici; siccome i resoconti degli incontri e i materiali presentati vengono sempre pubblicati sul blog, la validazione assume anche la forma dei commenti scritti dai creativi ai post. Questo imprime al processo una direzione chiara: se in un incontro ci si trova d’accordo su una cosa, e questo accordo è testimoniato anche dai commenti al post che racconta quella cosa, la si può dare per scontata e procedere. Con questo sistema riusciamo a condividere un’analisi abbastanza impietosa delle principali carenze della scena creativa lucana; a decidere alcune caratteristiche che gli spazi laboratorio dovranno avere; a dare loro cinque temi, che servono a convogliare le competenze e gli interessi dei creativi della Basilicata verso l’innovazione dei prodotti culturali. Per esempio, ci accorgiamo che a Potenza – città piuttosto brutta dal punto di vista architettonico – molti giovani artisti praticano un’arte proiettata verso il futuro, di stile londinese. Ed è il luogo adatto: proprio perché brutta, non schiaccia gli artisti viventi sotto il peso della grandezza di quelli morti secoli fa. Quindi, proponiamo che il centro culturale di Potenza valorizzi queste persone, e sia tematizzato su “reinventare il futuro”.

In tutta questa prima fase stiamo molto attenti a precisare che gli edifici in cui realizzare queste cose sarebbero stati scelti non dalla nascente comunità di Visioni Urbane, ma da un decisore politico: il presidente stesso. A noi spetta solo dare indicazioni sui contenuti. A maggio 2008 presentiamo i nostri risultati al presidente, che partecipa a un incontro plenario. Soddisfatto del clima collaborativo che trova, decide di allargarci il mandato, e ci chiede di fare proposte anche sui contenitori. Questa richiesta viene pubblicata sul blog; alla lista di edifici che il gruppo regionale aveva già, si aggiungono quelli proposti dai creativi stessi. A questo punto abbiamo l’idea di coinvolgere i creativi nell’istruttoria. Durante l’estate 2008 andiamo a visitare tutti gli edifici proposti, e ne facciamo un’attività aperta: le visite sono annunciate per tempo sul blog, e chiunque lo voglia può partecipare.

A settembre 2008 presentiamo al presidente una proposta che è, davvero, condivisa. I centri culturali di Visioni Urbane saranno cinque, tutti in edifici esistenti che verranno ricuperati. Saranno molto complementari tra di loro, e dedicati ad altrettanti temi. Tutti i creativi interessati a quel tema, indipendentemente da dove operano, sono invitati ad usare i centri come piattaforma. Inoltre, i centri costituiranno una rete, a cui verrà data una struttura di governance, con un comitato scientifico composto da personalità di prestigio esterne alla regione. Queste avranno il compito di collegarli alle tendenze culturali espresse dai centri mondiali della creatività – non per imitarle, ma per dialogarvi senza perdere la propria identità.

Il presidente accetta. A marzo 2009 firma la convenzione con cui trasferisce le risorse finanziarie ai Comuni che ospitano gli immobili individuati. A questo punto, però, si apre un nuovo problema. Ed è, di nuovo, un problema di controllo. La procedura per questo tipo di azioni prevede infatti che siano i Comuni sul cui territorio si trovano gli edifici ad assegnare gli appalti per la loro ristrutturazione. A marzo 2009 nel processo di Visioni Urbane entrano quindi nuovi soggetti, i cinque sindaci interessati. Questo viene vissuto dal gruppo di lavoro con un po’ di timore: fino a questo momento i Comuni non sono stati coinvolti per paura? Perché non? che esercitassero pressioni politiche sul processo. La convenzione contiene una clausola che impone ai sindaci di agire d’intesa con le Regione e “coerentemente con il processo di Visioni Urbane”, ma è chiaro a tutti che rimane loro un margine di discrezionalità.

Il punto più delicato riguarda il problema della progettazione esecutiva. Come abbiamo visto nel primo capitolo, i fondi che finanziano le politiche pubbliche contengono spesso una bomba a tempo, per cui le amministrazioni che non riescono a impiegarli entro una certa data li perdono. I funzionari pubblici e i politici considerano questa eventualità una sciagura, e fanno di tutto per evitare che accada. Per i fondi di Visioni Urbane, l’ora zero è fissata al 30 giugno 2009, poco più di tre mesi dopo. A questa data devono già essere stati assegnati gli appalti. Questo vuol dire che il bando di gara deve essere pubblicato entro la fine di maggio al massimo.

Quando si indice una gara d’appalto è bene essere assolutamente precisi circa ciò che si intende realizzare: le imprese costruttrici cercano naturalmente di minimizzare i costi, e quindi occorre vincolarle a un progetto preciso. Questo progetto è contenuto in un documento chiamato capitolato, che contiene non solo le planimetrie, ma anche un’indicazione molto dettagliata dei materiali, delle finiture, degli arredi, delle prese elettriche. Quindi, produrre un capitolato è sempre un lavoro piuttosto complesso. Nel caso di Visioni Urbane c’è una complicazione in più: non si può semplicemente dire agli uffici tecnici dei Comuni “progettatemi un centro culturale”, perché – salvo eccezioni – non ne sono capaci. Non a torto, i creativi si sentono gli unici in grado di capire come devono essere quei luoghi per potere diventare centri vitali di una produzione culturale economicamente sostenibile. Se una stanza deve servire per spettacoli teatrali occorre appendere al di sotto del soffitto un graticcio, cioè una struttura a cui vengono appese luci e scenografie. Se ospiterà concerti bisogna riflettere sull’acustica (tenendo presente che le esigenze acustiche della musica da camera sono diverse da quelle della techno), e prendere decisioni in merito alle diverse caratteristiche di assorbimento del suono dei diversi materiali. In più anche l’estetica è importante.

Per convogliare questi input nei cinque progetti esecutivi in modo coerente e in tempi ragionevoli, sono necessarie (1) la collaborazione dei creativi; (2) il sostegno dei sindaci; (3) la disponibilità degli uffici tecnici a produrre gli esecutivi tenendo conto delle esigenze dei creativi, anche se questo complica molto il loro lavoro. Insomma, si passa da una conversazione a due (mediata dal blog) tra gruppo di lavoro e creativi lucani a un processo assai più complesso, in cui sono coinvolti soggetti terzi. Il controllo regionale sulla policy si indebolisce ulteriormente nel passaggio.

Decidiamo di provare a conquistare l’appoggio dei sindaci con la trasparenza radicale. La convenzione viene firmata in una sala gremita, alla presenza di praticamente tutti i creativi partecipanti a Visioni Urbane (alcuni dei quali muniti di telecamere, con cui realizzeranno un video della giornata). I sindaci reagiscono bene; da un lato portano a casa una buona notizia, e cioè che acquisiscono dalla Regione risorse significative per realizzare i centri; da un’altra si sentono controllati da vicino dai loro stessi concittadini, dagli artisti e dalle associazioni culturali del territorio che hanno contribuito al processo finora e hanno intenzione di continuare a seguirlo; da un’altra ancora, infine, si innesca tra loro una specie di concorrenza virtuosa a chi gestisce meglio e più rapidamente il processo.

Per conquistare gli uffici tecnici costruiamo un’interfaccia. Cooptiamo nel gruppo regionale un “direttore artistico degli spazi”, un architetto lucano di prestigio internazionale che si chiama Antonio Acito. Avendo cominciato il suo percorso da creativo di provincia, Antonio si identifica facilmente con i creativi di Visioni Urbane; avendo raggiunto il successo, ha anche l’autorevolezza che serve per ricomporre le loro diverse sensibilità (e i tematismi) in un progetto unitario. Invitiamo i creativi a costituirsi in gruppi di lavoro, uno per ciascun edificio, e facciamo incontrare ciascun gruppo con Antonio, planimetrie alla mano. Lui ascolta tutti e propone una sintesi, che viene validata dal gruppo. A questo punto convochiamo in Regione tutti e cinque gli uffici tecnici e li facciamo incontrare con l’architetto. I funzionari degli uffici tecnici si ritrovano, perché condividono con Antonio un linguaggio professionale comune; e il fatto di trovarsi in Regione ricorda loro che egli non è semplicemente un collega, ma rappresenta un’istituzione. E questa istituzione è alleata con il comune per cui lavorano ed è il principale azionista di un’iniziativa che porterà al sindaco prestigio politico.

La strategia funziona. Sindaci e uffici tecnici collaborano con una certa convinzione; i progetti esecutivi sono pienamente condivisi dai creativi; i tempi vengono rispettati, e gli appalti assegnati prima della fine di giugno. Ci sono anche sviluppi inaspettati: per esempio, Antonio coinvolge un ingegnere esperto in risparmio energetico, e questi suggerisce di provare a rendere uno dei cinque edifici autosufficiente dal punto di vista energetico utilizzando impianti microsolari e microeolici. Questa idea porterà ad un’alleanza tra Visioni Urbane e Sel, l’azienda energetica lucana, arricchendo la conversazione di un altro partecipante; e più tardi verrà allargata a tutti e cinque gli spazi.

Ridurre il controllo per guadagnare efficacia

A questo punto della traiettoria, le aspettative del gruppo regionale che guida Visioni Urbane sono cambiate così tanto da essere irriconoscibili. Il problema iniziale era l’impotenza della policy: l’avere stanziato risorse per costruire gli spazi laboratorio ma non per le attività sembrava disegnare i contorni di una missione impossibile, destinata a consegnare edifici vuoti al decadimento e alla vandalizzazione. Due anni dopo, il problema è diventato la qualità totale: non ci basta più produrre spazi sostenibili, vogliamo che siano appoggiati a un modello di governance di avanguardia, collegati con il mondo e tra loro, e perfino in grado di produrre energia anziché consumarne!

La cosa interessante è che il problema dell’impotenza della policy è stato risolto in modo controintuitivo: non rivendicando poteri e risorse, ma al contrario cedendo ad altri il controllo su pezzi del processo. Tutti i successi di Visioni Urbane sono stati ottenuti consentendo ad altri soggetti di entrarvi alla pari, da protagonisti. L’efficacia di una politica pubblica è inversamente proporzionale al grado di controllo che l’autorità titolare se ne attribuisce.

La ragione per cui questo accade è che cedere pezzi di controllo è condizione indispensabile perché soggetti esterni all’ente (come i creativi lucani, che, dopotutto, hanno altro da fare) accettino di collaborare attivamente, aumentando moltissimo le capacità delle politiche pubbliche di elaborare informazione e trovare soluzioni condivise. Questa ragione non è un prodotto degli ultimi decenni: è sempre stata valida. Negli ultimi tempi, però, la potenza di fuoco di coalizioni anche casuali di cittadini è cresciuta moltissimo, in parte grazie al web. Questa potenza di fuoco può essere sfidata, il che in genere non è una buona idea – come nel caso inglese della petizione sul road pricing. Oppure può essere reclutata, il che invece è un’ottima idea ma è piuttosto difficile – come in Visioni Urbane. La cosa che non si può fare è negare che esista. Il cambiamento si è verificato: i decisori pubblici accorti e responsabili devono accettarlo e cercare di farlo lavorare nell’interesse comune.

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Note

1 http://petitions.number10.gov.uk/

2 http://news.bbc.co.uk/1/hi/uk/6251377.stm (agosto 2009)

3 http://news.bbc.co.uk/2/hi/uk_news/6349027.stm (agosto 2009)

4 http://www.manchestereveningnews.co.uk/news/s/236/236024_petition_hits_congestion_charge_plan.html (agosto 2009)

5 http://www.independent.co.uk/news/uk/home-news/congestion-charge-green-lobby-hails-roadtoll-extension-437070.html (agosto 2009)

6 http://www.number10.gov.uk/Page11050 (agosto 2009)

7 http://www.birminghampost.net/news/politics-news/2008/06/13/anti-congestion-charge-campaigner-peter-roberts-takes-drivers-alliance-fight-to-the-national-stage-65233-21067076/ (agosto 2009)

8 http://www.telegraph.co.uk/news/newstopics/politics/labour/1566232/Labour-to-scrap-national-road-pricing-plans.html

9 Il premio Nobel per la fisica Philip Anderson sostiene che questo fenomeno sia pervasivo in natura. Un gran numero di particelle che interagiscono tra loro ha comportamenti molto diversi da quelli che ci si aspetterebbe studiando le singole particelle. Questo fa sì che gli scienziati trovino elegante e conveniente studiare un solo atomo con gli strumenti della fisica delle particelle, ma molti atomi con quelli della fisica dello stato solido, e molti atomi di tipo diverso – che si combinano dando origine a molecole – con quelle della chimica e così via. Anderson ha scritto un articolo che si chiama More is different: questo titolo è un principio da tenere a mente anche nel progettare interventi di politiche wiki. Anderson, P. (1972), “More Is Different”, Science 4 August 1972: 393-396

10 Si tratta di un adattamento. Il concetto di controllo distribuito ha origine nella teoria del controllo, una branca della matematica e dell’ingegneria molto usata nella progettazione di macchine per la produzione industriale. Mark Fox ha proposto una prospettiva organizzativa sul concetto di controllo distribuito nel 1981. http://ieeexplore.ieee.org/xpl/freeabs_all.jsp?arnumber=4308580

11 Vi sono molti altri esempi, alcuni molto specializzati come Concorsopoli, un blog tenuto da un professore universitario romano, Tommaso Gastaldi, e dedicato alla pratica spartitoria dei posti da ricercatore e da docente nelle università italiane. http://www.datatime.eu/concorsopoli/

11 pensieri su “4. Accettare il cambiamento

  1. massimo micucci

    alcuni esempi di lobby 2.0 scaturita dal basso su single issue ,e alimantatasi anche con l’interesse dei proponenti :
    Quando il Governo Berlusconi porpose il raddopio dell’IVA per la pay Tv , la piattaforma di Pay tv di Murdoch reagì con sistemi tradizionali, articoli di gironali, una lettera a tutti i memebri del parlamento,, etc. ma anche con mezzi non tradizionali ,come uno spot sui propri canali Tv (mutuando una iniziativa presa da mediaset in telmpi diversi), ma si organizzarono anche numerosi gruppi facebook e petizioni on line , con cui migliaia di utenti si lamentavano del provvedimento , ne discutevano anche accesamente la logica. In una generale insoddisfazione per il provvedimento del governo , venivano anche argomentazioni contrarie. Il sistema era innovativo fino ad un certo punto, ma certo inedito. Pochi mesi dopo la sconfitta delle ipotesi che stavano a cuore a Skay, era possibile leggere negli stessi gruppi la delusione perchè dalal piattaforma commerciale non erano arrivate agli utenti delle “proposte commerciali atte a riassorbire almeno in parte l’impatto su consumatori” Una conversazione utilizzata nell’ambito di una battaglia puntuale può avere più effetto di una propaganda one way , ma è probabile che debba continuare anche dopo la sconfitta se non si vuole evitare un effetto boomerang. tantp più che nel frattempo i responsabili del marketiing e customer care stavano facendo proproste in tale senso
    Un secondo esempio : qualche anno fa le aziende della Grande distribuzione cercarono di implementare la “lenzuolata Bersani”, consentendo la distribuzione di carburanti anche presso i grandi magazzini..Accanto alle riunioni, e agli incontri incontri tesi a sostenere la linea di liberalizzazione e far recedere le intenzioni monopolistiche di petrolieri, benzinai e governi regionali, venne pubblicata anche una mappa on-line su l’Espresso.it dei benzinai low cost (eravamo in tempi di prezzi dei carburanti in rialzo) quella “tesi” divenne un “servizio” ai cittadini assai più efficace di tanti pezzi sui gironali destinati solo all’estabilishment

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  2. Alberto Autore articolo

    Ottimi esempi, Massimo! In effetti mi ricordo la mappa dei distributori a cui fai riferimento. A occhio, forse, si può dire che questi (soprattuto quello di Sky) sono esempi di confine tra policy e politics, costruiti non a caso in momenti “caldi” dell’elaborazione. La maggior parte del libro è più decisamente orientata all’amministrazione, quindi alla policy.

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  3. Francesco Silvestri

    Sul Road pricing: Come fai a sapere le motivazioni di Roberts? La riga e mezzo di petizione non la spiega; secondo: come ci si comporta con la petizione stupida o di grande presa ma irrealizzabile? Ogni petizione ha diretto di essere discussa? Se metto una petizione costro i gay o per posti separati sugli autobus per i negri, hai davvero fiducia che la gente non la voti?

    Ciò che salta all’occhio dell’esempio che citi è che una politica probabilmente meditata, probabilmente meritoria sia messa in crisi da un movimento di opinione che è solo contrario, senza specificazione (la spiegazione del perché non è presente nella petizione, né è detto che i firmatari condividano la motivazione di Roberts), mafari è solo emotivo e che non lascia spazio alla petizione a favore (oppure, domanda: non c’è stato nessuno che ha fatto una petizione perché la politica di road pricing sia mantenuta?). un milione ed ottocentomila inglesi (su 60 milioni circa) si sono espressi contro e la politica viene abbandonata: sei sicuro che questo sia un esempio di democrazia?

    Bellissimo il pezzo su Visioni Urbane (e complimenti per il progetto).

    Solo alla fine però emerge il senso del perché hai parlato del road pricing; sta (quasi) tutto nella frase “la potenza di fuoco del web può essere sfidata – e non è una buona idea – oppure reclutata”. Ecco, penso che potrebbe essere esplicitata prima (perché viceversa, sembra che tu stia proponendo il caso inglese come esempio di valida idea, non di idea che scoppia tra le mani di chi l’ha proposta.

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  4. Alberto Autore articolo

    Le motivazioni di Roberts emergono dalla lettura degli articoli di giornale i cui link cito nel libro. Quanto al problema delle petizioni “cattive”, è antico come la democrazia: con argomentazioni simili i progressisti dell’ottocento e del primo novecento si opponevano al suffragio universale e al voto alle donne: temevano che l’allargamento della base di voto implicasse una banalizzazione del discorso sulla cosa pubblica.

    Può essere che sia vero, e a me il road pricing come idea piace. Però NON mi piace molto l’idea che la mia moto abbia un GPS collegato a un database governativo, cosa ben diversa da pagare in contante a un casello. Evidentemente questo problema era stato sottovalutato dal new labour. In questo senso Roberts gli ha fatto un favore: mostrandogli l’area di dissenso prima non percepita, gli ha consentito la marcia indietro quando ancora era possibile. 🙂

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  5. tommaso

    “La policy come conversazione”: qui ho una critica che ti ho già fatto, discutendo di Visioni Urbane forse un anno fa. La riesprimo con le parole di Landowski (in corso di pubblicazione): “La nozione di conversazione – nel dizionario change de propos, scambio di locuzioni – ricopre in realtà tutto un ventaglio di pratiche discorsive eterogenee la cui significazione e portata esistenziale variano completamente, per i protagonisti dell’interlocuzione, in funzione del regime di interazione e di senso nel quadro del quale esse si pongono per “conversare””.
    Insomma, capisco gli obiettivi divulgativi, ma questa della conversazione è una superficialità sinistra.

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    1. Alberto Autore articolo

      Non direi! La parola conversazione è molto caratterizzata nel mondo Internet. La prima tesi del Cluetrain Manifesto dice proprio “I mercati sono conversazioni”. L’idea sottesa a questo uso è che dal ventaglio di pratiche discorsive eterogenee che citi emerga il significato. Per restare sul Cluetrain: se ti stai chiedendo se comprare l’auto X o il se andare in vacanza a Y e fai una ricerca in rete trovi di tutto: osservazioni personali, pubblicità, foto di gatti sull’auto X o postate a Y. Ma alla fine un’idea di quello che stai per comprare te la fai, e non è neppure difficile.

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  6. Max Selvaggi

    Bene bene. Bravo Alberto.
    La parte di VU è ricostruita con buona fedeltà.
    In attesa di terminare la lettura, ti segnalo un passaggio che mi fa temere un refuso o un errore di scrittura:
    “A marzo 2009 nel processo di Visioni Urbane entrano quindi nuovi soggetti, i cinque sindaci interessati. Questo viene vissuto dal gruppo di lavoro con un po’ di timore: fino a questo momento i Comuni non sono stati coinvolti per paura? Perché non? che esercitassero pressioni politiche sul processo”.

    Non mi convince quel “Perche non?” in mezzo alla frase.
    Se così non fosse, comunque è un passaggio migliorabile dal punto di vista dell’esposizione del concetto.
    A presto.
    😉

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  7. giulio quaggiotto

    Un paio di altri esempi che forse varrebbe la pena menzionare in questo capitolo: where does you money go http://www.wheredoesmymoneygo.org/ e lo spettacolare esempio di crowdsourcing del guardian per lo scandalo dei rimborsi spese ai parlamentari uk (http://www.niemanlab.org/2009/06/four-crowdsourcing-lessons-from-the-guardians-spectacular-expenses-scandal-experiment)

    Forse una quarta mossa da aggiunere alle “tre mosse per trasparenza” e’ la visualizzazione dei dati? E in quanto a semplicita’ forse puoi fare riferimento a servizi SMS?

    Oltre che a creative commons, standards sul formato dei dati, come quelli che, per esempio, IATA sta cercando di proporre a livello delle organizzazioni internazionali possono essere di aiuto (http://www.aidtransparency.net/news/consultation-on-data-standards-for-iati-phases-one-and-two)

    Infine un dato che puo’ essere interessante .. secondo Pew Research “48% of internet users have looked for information about a public policy or issue online with their local, state or federal government.” http://pewresearch.org/pubs/1575/how-americans-interact-with-government-online

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    1. Alberto Autore articolo

      Giulio, straordinario! Questi links mi sono davvero utilissimi (quello del Guardian mi è stato suggerito anche da Federico Bo). Aggiungo senz’altro queste integrazioni – anche se sulla visualizzazione valgono le puntualizzazioni fatte da Daniel McQuillan nel link che mi hai mandato ieri, e cioè che i dati non danno potere alle comunità, ma le “seducono”.

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