12. Ricablare l’economia

Vorrei concludere questo viaggio nelle politiche pubbliche al tempo della rete gettando un ultimo sguardo all’azione di governo. Concentrandoci questa volta non sul come, ma sul cosa. Mentre gli uomini e le donne delle autorità pubbliche si interrogano su come ripensare il loro lavoro al tempo della rete, il mondo intorno a loro – e a noi – sta cambiando rapidamente. Se non riusciremo a tenere il passo di questo cambiamento rischiamo di trovarci con una pubblica amministrazione attrezzata per compiti che non servono più, e invece impreparata per le sfide che dovremo affrontare molto presto.

La pervasività di internet, infatti, sta trasformando la società e l’economia su due livelli contemporaneamente; un’analisi completa del suo impatto deve contemplarli entrambi. Il primo livello è quello delle opportunità che l’avvento della rete apre per le politiche pubbliche, in un mondo in cui tutti gli altri aspetti rimangono uguali alla situazione precedente. Questo è il livello a cui si è svolta, finora, l’argomentazione di questo libro: abbiamo cercato di immaginare un mondo in cui le autorità pubbliche fanno ampio ricorso a strumenti internet per mobilitare l’intelligenza collettiva, e dirigerla a fare le stesse cose che esse facevano prima – riparare le strade, rilasciare brevetti, finanziare progetti creativi, costruire centri culturali e così via – ma in modo più rapido, più efficace, meno costoso e in generale migliore.

Il secondo livello dell’analisi è molto più difficile. Si tratta di immaginare il ruolo delle politiche pubbliche in un mondo in cui l’ondata di cambiamento tecnologico e sociale portata da internet è già arrivata. In un mondo di questo tipo, è facile prevedere che le autorità pubbliche non potranno limitarsi a fare le stesse cose in modi nuovi; dovranno affrontare nuove sfide, avere a che fare con nuovi soggetti, e in genere fare cose diverse da quelle che facevano prima. In un articolo scritto a inizio 2010, Tito Bianchi e io abbiamo provato a sostenere che, quando si parla di web sociale, la metafora dell’attrezzo (in genere la discussione in rete preferisce usare la parola inglese tool) è fuorviante: un attrezzo è un’estensione del corpo umano, e serve a fare meglio ciò che prima si faceva usando semplicemente il corpo1. Un martello, per esempio, è come un pugno, solo molto più duro e forte. Il web 2.0 non è un attrezzo, perché le autorità pubbliche che imboccano questa strada finiscono per fare cose assai diverse da quelle che si proponevano originariamente. Se proprio dovessimo indicare una metafora per l’approccio 2.0 alle politiche pubbliche, preferiamo quella del viaggio, che ha sì una meta chiara, ma in cui il viaggiatore è disposto (o può essere costretto) a deviazioni o anche cambiamenti drastici per inseguire opportunità interessanti che dovessero sorgere lungo la strada. Nelle prossime pagine proveremo ad immaginare questo viaggio – pur sapendo che, una volta partiti, saremo probabilmente tentati da molte deviazioni, e in qualche caso costretti a farne. Per questo ci servirà introdurre il concetto di bene pubblico.

La nuova primavera dei beni pubblici

Cosa hanno in comune un paesaggio, la teoria della relatività generale, l’aria che respiriamo e la lingua italiana? Anzitutto sono beni, cioè contribuiscono al nostro benessere. Diversamente dalla maggior parte dei beni a cui siamo abituati, questi hanno due caratteristiche interessanti. La prima è che, una volta che questi beni sono stati prodotti (dalla natura o dagli uomini), è molto difficile impedire a chiunque di goderne: bloccarne l’accesso – o subordinarlo a un pagamento, che è la stessa cosa – è impossibile o costoso. Gli economisti chiamano questa proprietà non escludibilità nel consumo. La seconda è che il loro uso o godimento da parte di una persona non riduce la possibilità di usarli o goderne da parte degli altri. Anzi, alcuni di essi accrescono la loro utilità o il loro valore con l’uso: la lingua italiana diventa tanto più viva e ricca quante più persone la usano; una teoria scientifica cresce e dà vita a nuovi sviluppi quanti più scienziati la studiano, la applicano e la criticano; e anche l’apprezzamento di un bellissimo paesaggio cresce se lo possiamo condividere con altri. Gli economisti chiamano questa seconda proprietà non rivalità nel consumo.

I beni di questo tipo, caratterizzati da non escludibilità e non rivalità nel consumo, si chiamano pubblici. Questa parola è usata in contrapposizione ai beni privati come le automobili, i giocattoli e gli impianti industriali, beni cioè che possono essere usati solo da un soggetto economico alla volta e si consumano con l’uso. A causa di queste loro caratteristiche, i beni pubblici si prestano male a essere intermediati dal mercato, e di conseguenza non hanno prezzo. In assenza di un prezzo che segnali che essi sono comunque preziosi, questi beni possono rischiare di venire dilapidati, proprio come accade all’aria e all’acqua nei casi in cui la legge non proibisca o comunque scoraggi l’inquinamento. Quando le società umane decidono di produrre beni di questo tipo, normalmente devono farlo attraverso un intervento governativo; non avendo prezzo essi non possono essere venduti, e le imprese private non hanno alcun incentivo a produrre una cosa che non si può vendere.

Facciamo un passo successivo per avvicinarci al punto. Che tipo di bene è un’enciclopedia? Fino alla metà degli anni Duemila non c’era dubbio che fosse un bene privato. Le enciclopedie venivano assemblate e aggiornate da intellettuali di professione pagati da imprese private. La conoscenza che contenevano era racchiusa in costose collezioni di volumi in carta. Bloccarne l’accesso era semplicissimo: solo chi era disposto a pagare per l’acquisto dei volumi poteva conoscerne il contenuto. Al tempo stesso, ciascun volume poteva essere usato solo da una persona alla volta. Dunque, nessuna delle due condizioni che definiscono i beni pubblici era verificata. Come per gli altri beni privati, il meccanismo di coordinamento della produzione e distribuzione delle enciclopedie era il mercato. Gli acquirenti, acquistando le enciclopedie, rendevano disponibile il denaro che poi, attraverso varie transazioni, andava a remunerarne gli autori, i correttori di bozze, gli stampatori e così via.

Wikipedia, d’altra parte, non si consuma affatto con l’uso. Data l’esistenza delle infrastrutture che compongono internet (cavi, routers, il protocollo TCP/IP e così via), tutti possono usarla senza limitare l’accesso altrui. Anzi, il modo in cui è stata progettata fa sì che, semmai, il valore che ha per ciascun utente cresca con il numero degli altri utenti che la usano. La ragione è questa: a differenza di quanto avviene nelle enciclopedie tradizionali, è semplice per un utente di Wikipedia trasformarsi in coautore cliccando sul tasto “Modifica”. Quindi più utenti si traducono in più autori, e quindi più accuratezza e un numero maggiore di voci. Non vi è rivalità nel consumo di Wikipedia2.

Il problema se Wikipedia sia caratterizzata da non escludibilità è più interessante. Cosa impedisce alla Wikimedia Foundation di proteggere l’enciclopedia online con un sistema di password, rendendola accessibile solo ai clienti paganti? La tecnologia per farlo esiste: semplicemente, questa scelta non è conveniente. Il problema è il ricorso all’intelligenza collettiva per scrivere e continuamente revisionare i contenuti. Come abbiamo visto, Wikipedia è incredibilmente efficiente perché mobilita efficacemente il meccanismo di autoselezione (gli autori decidono da soli come, quando e di cosa scrivere), e questo si sostituisce ai normali meccanismi di coordinamento delle imprese private come gerarchia aziendale, piani di lavoro, ufficio personale, e così via. I costi organizzativi dello scrivere un’enciclopedia risultano così quasi azzerati: la Wikimedia Foundation non scrive Wikipedia, si limita a mantenere funzionale il sito e il software. In cambio di tutta questa efficienza, però, essa si è dovuta impegnare a rendere i contenuti dell’enciclopedia accessibili gratuitamente. Per rendere questo impegno credibile è stata adottata una licenza d’uso dei contenuti che ne vieta lo sfruttamento commerciale; ed è stata avviata la trasformazione di Wikipedia da impresa for profit in entità non profit3. Quindi Wikipedia è un bene non escludibile, nel senso che la sua trasformazione in bene escludibile farebbe venire meno la sua stessa ragione d’essere. Caratterizzata da non rivalità e non escludibilità nel consumo, Wikipedia è un bene pubblico.

La cosa importante in questo ragionamento è che il “sistema Wikipedia” (che comprende, tra le altre cose, regole per l’interazione tra i wikipediani, convenzioni per la scrittura e l’editing delle voci, il software su cui gira il sistema, la licenza d’uso dei contenuti e così via) è un’alternativa ai meccanismi di mercato per coordinare la produzione di un’enciclopedia; e, dove non c’è un mercato, non può esservi un prezzo. Questo non è sorprendente: per definizione i beni pubblici non hanno mercato né prezzo. Quello che sorprende è vedere un pezzo dell’economia, in precedenza coordinato da mercati, riorganizzarsi facendo completamente a meno del mercato in quanto meccanismo di coordinamento. Questa riorganizzazione, come spesso accade quando la rivoluzione digitale investe un settore economico, non è né volontaria né indolore. A creare Wikipedia non sono stati gli editori specializzati in enciclopedie (Britannica, o, in Italia, Treccani o Garzanti) in cerca di guadagni di efficienza. L’enciclopedia online è piuttosto una sfida al settore che proviene dal mondo della rete: in questi anni i due meccanismi di coordinamento, quello basato sul mercato e quello basato (per dirla in modo un po’ rozzo) sul web 2.0 coesistono e si contendono quote di utenza. Sembra che il secondo stia nettamente vincendo la sfida: quanti dei vostri amici e conoscenti hanno comprato un’enciclopedia negli ultimi anni? Probabilmente molto pochi o nessuno. Quanti, invece, usano Wikipedia? Probabilmente tutti o quasi. Gli editori tradizionali di enciclopedie perdono quote di mercato e profitti, e sembrano avviarsi verso l’estinzione.

La produzione dell’oggetto enciclopedia, quindi, sembra essere più efficiente come bene pubblico – in cui il web 2.0 viene usato per coordinare un numero molto grande di autori – che come bene privato – in cui è il mercato a coordinare un numero più ristretto e più professionale di autori. Questo guadagno di efficienza ha una ragione profonda: siccome l’informazione non si deteriora usandola, la condivisione del sapere aumenta sempre l’efficienza del sistema. Non c’è bisogno che ogni generazione debba reinventare il motore a scoppio o la dimostrazione del teorema di Pitagora: possiamo stare sulle spalle dei giganti del passato e dedicare i nostri sforzi ad andare avanti.

La storia di Wikipedia e le altre storie simili – come quella di Linux – sembrano indicare che la diffusione di internet abbia reso l’umanità molto più efficiente nella produzione di beni pubblici. Se questo è vero, possiamo aspettarci che un numero maggiore di problemi rispetto al passato venga affrontato, appunto, producendo beni pubblici. Un altro modo di dire la stessa cosa è che la soluzione di alcuni problemi, attualmente coordinata dai mercati, verrà invece affidata a meccanismi di coordinamento alternativi. Dopo un lungo periodo di espansione, si assisterebbe quindi a un arretramento del mercato come strumento per coordinare la produzione di cose di valore4.

Due modelli produttivi

Dal punto di vista dell’utente, in realtà, non è poi molto diverso utilizzare un bene privato acquistato sul mercato o uno pubblico a cui si accede dalla rete. Quando abbiamo bisogno di consultare un’enciclopedia possiamo farlo tranquillamente, come e meglio di quanto avvenisse prima con le enciclopedie tradizionali. Allo stesso modo, Linux in quanto sistema operativo funziona più o meno tanto bene quanto i sistemi proprietari. Vi sono naturalmente differenze tra Wikipedia e Treccani, così come tra Linux e Windows, ma si può tranquillamente affermare che entrambi i meccanismi di coordinamento soddisfano i bisogni in questione. La differenza sta nel cosiddetto modello di business, cioè nel modo in cui l’enciclopedia raccoglie denaro per sostenersi. In quello tradizionale, come abbiamo visto, il sapere che costituisce un’enciclopedia veniva stampato su volumi in carta, che poi venivano venduti. Il denaro ricavato dalla vendita serviva a pagare tutto il necessario alla produzione, dagli autori alla carta. Wikipedia non vende nulla, funziona con donazioni: gli autori donano scampoli del loro tempo e gli utenti un po’ di denaro, quanto basta per sostenere un piccolo staff permanente di una trentina di persone e i suoi circa 250 server.

Il modello tiene perché Wikipedia ha costi bassissimi ed è molto conosciuta, e quindi è in grado di attirare abbastanza donazioni da tenersi in piedi e perfino crescere. Nonostante la crisi finanziaria ha raccolto otto milioni di dollari in soli due mesi a fine 20095, e ha iniziato il 2010 con una generosa donazione di altri due milioni da parte di Google. Ma vivere di donazioni dà l’idea di una situazione molto instabile, e non tutte le esperienze di produzione in modalità wiki danno origine al quinto sito web più visitato al mondo. La produzione cooperativa di beni pubblici da parte di gruppi numerosi di persone connessi in internet dunque è spaventosamente efficiente, ma – non potendo vendere nulla – ha problemi a trasformare in denaro l’indubbio valore che crea.

Conclusione: abbiamo due modi alternativi per produrre conoscenza. Uno la produce in forma di bene privato, incorporato in volumi e protetto da copyright: è inefficiente, ma efficace nel raccogliere denaro per remunerare la produzione. L’altro la produce in forma di bene pubblico, disponibile in rete e con una licenza d’uso che permette la copia e vieta l’uso commerciale: è molto efficiente, ma ha problemi di monetizzazione. Se i due modelli coesistono nello stesso mercato, il primo viene spazzato via, perché gli utenti preferiscono ovviamente il secondo, che è gratuito. Man mano che la rivoluzione digitale investe nuovi ambiti produttivi, si può prevedere che molti di essi saranno sottratti al mercato, riconfigurandosi come luoghi della produzione cooperativa.

Questo non è necessariamente un male: gli economisti tendono a pensare all’efficienza come a un bene in sé. Il fatto che questo guadagno di efficienza si manifesti come una distruzione di imprese e posti di lavoro costituisce un problema solo nell’immediato (almeno, così la pensano gli economisti; dal punto di vista dei redattori di enciclopedie, è sicuramente un altro paio di maniche). Nel caso delle enciclopedie, per esempio, possiamo immaginare un futuro in cui gli editori tradizionali accettano la sconfitta e si ritirano dal settore, chiudendo alcuni impianti e licenziando alcuni addetti. Questo può essere una tragedia per quelle persone, ma di fatto ciò libera la loro capacità produttiva (sempre dal punto di vista degli economisti, ovvio). Supponiamo, per esempio, che una persona che prima faceva il direttore editoriale di un’enciclopedia apra un agriturismo. Visto che il problema di coordinare i contenuti dell’enciclopedia viene risolto dall’autoselezione, la funzione di direttore editoriale non serve più, e le dimissioni dell’ex direttore non distruggono valore per il prodotto. Dopo l’avvento di Wikipedia, quindi, una persona si è spostata da una posizione divenuta inutile a una utile, ma che prima non era occupata. L’economia è diventata più efficiente, perché continua a produrre l’enciclopedia (Wikipedia), e in più ha un nuovo agriturismo! L’avvento di Linux ha fatto accadere proprio questo: sulla disponibilità di un sistema operativo gratuito e open source si è innestato un intero ecosistema di imprese grandi e piccole che sviluppano programmi per Linux, offrono servizi, consulenza, assistenza.

Questo processo può essere, però, molto doloroso. Alcune persone potrebbero non trovare facilmente una nuova collocazione, soprattutto se si tratta di persone sprovviste del tipo di competenze che questa l’economia 2.0 richiederà (o se non sanno gestire un agriturismo!). Inoltre, mentre la transizione di uno o pochi settori non pone, tutto sommato, eccessivi problemi, non sappiamo cosa accadrebbe se un gran numero di settori economici dovesse uscire dal mercato simultaneamente. È molto probabile che vi sarebbe una forte instabilità, e non si possono escludere crisi anche molto gravi.

Il mondo instabile del professor Schumpeter

Quali sono le conseguenze di questa trasformazione per noi e per le nostre vite? Possiamo provare a leggerle in filigrana nelle vicende recenti delle cosiddette industrie del contenuto, quelle che vendono non oggetti ma informazione: musica, cinema, televisione, editoria. Negli ultimi quindici anni internet le ha trasformate completamente. Canzoni, film e notizie si sono trasferite nella rete, che ne permette la distribuzione a una frazione del costo rispetto a ciò che avveniva in passato. Questo, però, non si è tradotto in un aumento generalizzato della prosperità di queste industrie, ma in una “tempesta perfetta” di innovazione, con vincitori e vinti. Tra i vinti ci sono molte imprese che prima dominavano il mercato, e interi rami di attività che sono divenuti improduttivi. Il fatto è che l’innovazione è spesso distruttiva: per portare frutto deve prima abbattere le strutture divenute inefficienti. Joseph Schumpeter, che lo aveva capito prima di tutti, parlava di “distruzione creativa”.

Se volete un esempio di distruzione creativa, considerate l’industria discografica. Secondo la RIAA, l’associazione delle imprese del settore, le vendite USA di musica registrata sono calate dai 14.6 miliardi di dollari del 1999 ai 6.3 del 2009. Il fondo di investimento Terra Firma, che ha acquistato EMI Music (la casa discografica, tra gli altri, dei Beatles) per oltre quattro miliardi di sterline nel 2007, a inizio 2010 ha ammesso che non ne vale più di due6. Dave Kusek, professore alla Berklee School di Boston e studioso dell’economia della musica, interpreta bene l’opinione generale:

Non c’è ripresa da questo declino. Certo, autori ed editori possono ancora fare soldi concedendo brani in licenza per i film o nuovi media, come le suonerie dei cellulari, ma il motore che ha spinto il business musicale per 60 anni ha finito il carburante.7 

Finora le industrie che producono oggetti invece di informazione sono state risparmiate dagli aspetti più violenti della distruzione creativa. Le protegge una barriera tecnologica: non si può masterizzare un divano, né condividere un’auto in rete. Oggi, però, anche questa barriera comincia a cedere. Il prezzo dei prodotti industriali, soprattutto se garantiscono ai produttori margini alti (smartphone, computer, macchine fotografiche digitali), è fatto prevalentemente di componenti immateriali: brevetti, design, marketing. I componenti materiali, fabbricati da grandi aziende globali molto specializzate ed efficienti, hanno costi sempre più bassi, e ormai trascurabili.

Il giornalista ed esperto di tecnologia americano Chris Anderson (che abbiamo già incontrato nel capitolo 10) è un appassionato di aeromodellismo, e ha cominciato a riflettere sul fatto che, grazie a GPS e computer sempre più economici e sempre più piccoli, è possibile trasformare un modellino di aereo radiocomandato in un robot che vola grazie ad un proprio pilota automatico, cioè un “drone” nel gergo militare. Ha cominciato a fare ricerche in materia, e ha scoperto che in effetti sono in vendita alcuni tipi di unità di pilotaggio automatico per aeromodelli, ma

più mi informavo e peggiori mi sembravano. Erano molto cari (da 800 a 5.000 dollari), difficili da usare e basati su tecnologia proprietaria. Era chiaro che questo mercato aveva un disperato bisogno di concorrenza e democratizzazione – la legge di Moore stava lavorando, praticamente azzerando il prezzo di ciascun componente8. L’hardware per un buon pilota automatico non dovrebbe costare più di 300 dollari, anche con un buon profitto. Tutto il resto era proprietà intellettuale.9 

Il prezzo di un’unità di pilotaggio automatico è fatto di due componenti: quelli fisici (gli atomi) e quelli immateriali (l’informazione, i bit). Secondo Anderson gli atomi costano al massimo 300 dollari, compreso un discreto margine per il produttore; i bit oscillano tra i 500 e i 4.700. Dunque, tra il 60 e il 95% del prezzo di vendita di questo particolare prodotto è informazione. E l’informazione si può trasmettere in rete. E si può produrre in modo collaborativo.

A questo punto Anderson ha fatto una mossa inaspettata: si è trasformato da giornalista in imprenditore. Per prima cosa ha creato una comunità online di appassionati di questi oggetti volanti, DIY Drones, che al momento in cui scrivo (febbraio 2010)10 ha quasi ottomila iscritti; poi ha reclutato un ingegnere di 21 anni per progettargli un sistema di pilotaggio automatico open source, che poi è stato migliorato e messo a punto attraverso il contatto continuo con la comunità. Quando il sistema è stato pronto, Anderson ha trovato in rete un fornitore che producesse i componenti basati sui suoi disegni; questo, a sua volta, fa produrre in Cina i componenti di base, a pochi cent l’uno, e usa piccoli robot molto economici per assemblarli. Ha fondato una società con il giovane ingegnere e si è messo a vendere unità di pilota automatico e altra tecnologia per i drones. Si tratta di tecnologia open source: chiunque può scaricare i progetti e produrre le unità da sé. Ma la realtà dei fatti è che la maggior parte delle persone non ne ha il tempo e la manualità, e preferisce ordinarle già fatte a Anderson. Nel primo anno di vita la società ha fatturato 250.000 dollari, e prevede di arrivare a un milione al terzo anno. Non sono certo grandi cifre, ma

siamo globali e hi-tech. Due terzi delle nostre vendite vengono da fuori dagli Stati Uniti, e i nostri prodotti competono con le linee economiche di aziende aerospaziali come Lockeed Martin e Boeing.

Il messaggio è chiaro: gli alti margini dell’industria sono in pericolo, minacciati da nuovi concorrenti che usano tecnologia open source. Nessun settore può dirsi davvero al sicuro dalla tempesta perfetta della condivisione dell’informazione.

Governare al tempo della rete

Il fisico danese Niels Bohr diceva che “è molto difficile fare previsioni, specialmente a proposito del futuro”. Io non sono certo in grado di fare previsioni sui massimi sistemi. Però, quando penso al futuro dell’azione di governo, mi immagino un mondo in cui le autorità pubbliche usano modalità collaborative mediate da internet per produrre beni pubblici. E le usano – tra le altre cose – per pilotare la transizione dell’economia, mentre questa si sposta da un regime in cui si producono beni privati coordinandosi attraverso il mercato a uno in cui si producono beni pubblici coordinandosi attraverso la rete. Lo Stato può avere in questa transizione un ruolo chiave, perché è l’unico soggetto che può “cablare l’economia”, cioè stendere cavi che facciano con il denaro quello che i cavi elettrici fanno con l’elettricità: trasportarlo da dove ce n’è (la produzione di beni privati) a dove serve (la produzione di beni pubblici). D’altra parte proprio questo è il suo compito: mentre i soggetti privati devono perseguire i propri interessi particolari, la missione dello Stato è di salvaguardare l’intero sistema.

Con questo non sto dicendo niente di nuovo. Noi viviamo già in un’economia cablata, in cui lo Stato produce o commissiona servizi: difesa, sanità, istruzione, infrastrutture e così via. Per finanziarli usa il proprio potere coercitivo, tassando i cittadini e usando il gettito fiscale come una specie di cassa comune, per pagare questi servizi che sono utili a tutti. Se i servizi pubblici sono effettivamente utili e di buona qualità, i cittadini vivono bene in questo sistema: il loro reddito disponibile si riduce per effetto delle tasse, ma i servizi pubblici li mettono in grado di vivere meglio di come vivrebbero in assenza dell’azione dello Stato. Con il cambiare delle tecnologie e delle forme di organizzazione della produzione, lo stesso servizio può cambiare natura anche più volte, diventando da privato a pubblico e viceversa. Un esempio è la distribuzione di energia elettrica in Italia, prima affidata ad aziende private; poi nazionalizzata nel 1961 per costituire una rete che usasse un unico standard e fosse completamente interconnessa; e poi riprivatizzata nel 1992, e sottoposta a regime di concorrenza a partire dal 1999 per sfruttarne gli effetti benefici sull’efficienza economica. Se lo Stato funziona bene, è sempre pronto a cogliere le occasioni di guadagnare efficienza ricablando l’economia, cioè spostando la produzione di servizi dal settore pubblico a quello privato e viceversa.

Internet, permettendo il riuso infinito e molto rapido dell’informazione e abbattendo i costi di coordinamento grazie alle nuove modalità cooperative, sta spostando di nuovo l’ago della bilancia dell’efficienza dal lato dei beni pubblici. Questo fenomeno si manifesta sotto forma di tensione su un numero crescente di settori economici, il cui numero sta aumentando man mano che la conoscenza open source entra in competizione con quella proprietaria, abbassandone i margini. In questa situazione, le conseguenze per le politiche pubbliche sono due. Alla prima abbiamo dedicato gran parte di questo libro: cercare di sfruttare i vantaggi di efficienza che essa promette per alleviare la crisi di attenzione in cui attualmente si dibattono. Le autorità pubbliche hanno un grande vantaggio: non avendo un modello di business legato alla proprietà intellettuale da proteggere, possono innovare in modo radicale, andando fino in fondo ai processi.

Della seconda conseguenza abbiamo dato solo qualche cenno in questo capitolo: la diffusione di internet, mentre dà alle autorità pubbliche nuovi strumenti, apre un nuovo fronte su cui esse sono chiamate ad impegnarsi. L’economia sta cercando di riconfigurarsi per soddisfare certi bisogni non più attraverso beni privati intermediati dal mercato, ma attraverso beni pubblici intermediati dalla rete. Questa transizione sarà quasi certamente traumatica. Lo Stato sarà chiamato a cercare di pilotarla verso un atterraggio morbido, garantendo che i cittadini continuino ad avere accesso a servizi di buona qualità.

Non sarà facile. Ci misuriamo con problemi completamente nuovi per l’umanità. Il consiglio che mi sento di dare, che è anche la mia speranza, è che le autorità pubbliche si avventurino con coraggio nel mondo delle politiche wiki. Fatto nel modo giusto, questo passo darà loro nuovi strumenti e, nello stesso tempo, approfondirà la loro conoscenza di prima mano delle trasformazioni sociali ed economiche indotte da internet; quelle stesse che sono oggi chiamate a governare.

Ci sarà bisogno dell’intelligenza di tutti. Per fortuna, in un mondo di politiche wiki, potremo mobilitarla.

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Note

1 Bianchi, T. e A. Cottica, 2010, Harnessing the unexpected: a public administration interacts with creatives on the web, European Journal of E-Practice

2 È possibile –- ma allo stato attuale le condizioni tecnologiche lo rendono improbabile –- che un numero molto alto di richieste al sito wikipedia.org lo saturi, ricostruendo così, almeno temporaneamente, la condizione di rivalità nel consumo.

3 Il capitolo 2 di questo libro accenna alla storia della transizione da Nupedia –- prodotto di un’impresa for profit –- a Wikipedia –prodotto di un’entità non profit. La storia completa è raccontata da vari autori, tra cui raccomando Clay Shirky, 2008, Here Comes Everybody, The Penguin Press, New York

4 In passato alcuni economisti, politici e funzionari pubblici hanno sostenuto e praticato la nazionalizzazione o la municipalizzazione di alcuni servizi per eliminare la dipendenza dei cittadini da monopoli privati. La grande stagione della municipalizzazione comincia, in Italia, nel 1845 con la fondazione dell’azienda del gas di Genova, la prima del suo genere. Le nazionalizzazioni diventeranno una pratica comune durante la Grande Depressione degli anni Trenta, per impedire la chiusura di aziende in bancarotta; negli anni Cinquanta e Sessanta si assisterà a una ripresa di entrambe, con la fondazione di molte nuove aziende municipalizzate e con la nazionalizzazione più importante, quella delle aziende elettriche che, fuse, daranno vita all’ENEL. A partire dagli anni Ottanta si è assistito invece a un’ondata di privatizzazioni – e quindi di avanzamento del mercato – che dura tuttora. [Brusco, S., et. al., 1995, “Le trasformazioni delle imprese nei servizi pubblici locali”, in Economia dell’ambiente e delle fonti di energia, n. 2/1995

5 http://blog.wikimedia.org/2010/01/05/wrapping-up-an-amazing-20092010-annual-fundraiser/ febbraio 2010

6 http://www.ft.com/cms/s/0/10137d20-19d1-11df-af3e-00144feab49a.html?nclick_check=1 – febbraio 2010

7 http://www.futureofmusicbook.com/2010/02/oh-my/ – febbraio 2010 (traduzione mia)

8 La legge di Moore non è una vera legge scientifica, ma una relazione empirica tra prezzo dei microchip e loro prestazioni nel tempo proposta dal co-fondatore di Intel, Gordon Moore, nel 1965. Essa asserisce che il prezzo della capacità di calcolo dimezza ogni due anni per effetto del progresso tecnologico.

9 http://www.wired.com/magazine/2010/01/ff_newrevolution/ – febbraio 2010 (traduzione mia)

10 http://diydrones.com – febbraio 2010

4 pensieri su “12. Ricablare l’economia

  1. Francesco Silvestri

    1. Non sono d’accordo (“problemi tuoi”, penserai) sulla scarsa aderenza della metafora dell’attrezzo per il 2.0; anche con il martello fai cose che prima non saresti riuscito a fare (banalmente, piantare chiodi e tirar su una casa con il legno anziché un nuraghe o un muretto a secco) e la rete alla fine è un attrezzo nella stessa accezione (ricordo un bel libro sulla diffusione della rete elettrica; definiva la rete come ultimo e forse più pregnante strumento esosomatico prodotto dall’uomo; dopo il martello-pugno e il treno-gambe, la rete elettrica come metafora dell’intero sistema nervoso; può valere anche per il web). Tra l’altro, all’ultimo capoverso di libro (l’auspicio finale), parli delle politiche wiki come percorso per avere nuovi strumenti a disposizione delle PA; è vero che non dici nemmeno lì che wiki E’ lo strumento, ma i contorni si sfumano.

    2. L’unica cosa seria che abbia mai sentito uscire di bocca ad Antonio Martino è, parlando dell’Euro, che “una moneta è come una lingua; più gente usa la stessa, più assume valore ed il sistema accresce la sua efficienza”.

    3. Il consumo con l’uso non è prerogativa assoluta del bene privato (una risorsa rinnovabile non sovra sfruttata non si “consuma” con l’uso, ma lo stesso può essere un bene privato).

    4. Elimina la nota 3, se no sembra che vai indietro anziché avanti; metti la citazione della Shirky nel Cap. 2 ed amen

    5. Domanda: perché per wikipedia vince il web 2.0 e per una cosa molto molto simile – il dizionario del cinema, Morandini o Mereghetti – succede il contrario? On line si trovano tutte le recensioni ed i giudizi sui film che vogliamo, ma l’uscita ogni due anni del Mereghetti è atteso con ansia; non sarà perché una enciclopedia buona costa 1.000 euro e il Mereghetti si compra con 50? Oppure è perché del merghetti non interessa tanto la trama dei film, quanto il giudizio (in questo senso è più un libro che un dizionario?). E cosa accade per i dizionari della lingua italiana? Si continuano a vendere i cartacei o no?

    6. È discutibile l’affermazione secondo cui la produzione di beni privati è “il denaro dove c’è” e la produzione di beni pubblici invece “il denaro dove serve”; un conto è ridurre le rendite di posizione, ma dire che i beni privati non servono ce ne passa (ad esempio, la famosa tragedy of the commons sta lì a dire che non sempre l’open access è il migliore dei mondi possibili); anche perché subito dopo sei molto più possibilista (dal pubblico al privato e viceversa, bidirezionale).

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    1. Alberto Autore articolo

      Wow, Francesco, un commento che vale per tanti! Allora:

      1. non credo che sia questo il punto. Il web 2.0 non ti porta a fare cose che altrimenti non avresti potuto fare (come un martello), ma a fare cose che altrimenti non avresti saputo di volere fare. Se leggi l’articolo (che, non a caso, si chiama “Harnessing the unexpected”) vedrai che ti ritrovi.

      2. mi sembra assennato, ma non so bene come usare questa affermazione nel contesto del libro 🙁

      3. Capito: la rivalità nel consumo non implica che i beni si deteriorino. Modificherò l’argomentazione.

      4. Hai ragione, è una ripetizione.

      5. Due domande a cui non so rispondere. La prima, per essere sincero, mi sembra meno generale dell’argomentazione che porto avanti qui; per quanto riguarda la seconda mi pare che i dizionari online siano ottimi e abbondanti. Io uso solo quelli. Tu ne hai comprati ultimamente?

      6. Ulp! Il senso era che sia i beni pubblici che quelli privati servono, ma solo i secondi producono reddito, e quindi da lì devono essere estratte le risorse per produrre tutti e due i tipi di beni. Questo è ovvio. Le affermazioni secondo me interessanti sono (a) che l’economia 2.0 è diventata più efficiente nel produrre beni pubblici (la frontiera della produzione si sposterebbe, se esistesse una roba del genere), e quindi per reazione deve sifonare più denaro verso la produzione di questi beni; e (b) che cercare di rendere redditizi oggetti come Wikipedia o Delicious ne distruggerebbe il valore, cioè il coordinamento a costo bassissimo e di conseguenza la grande efficienza.

      Phew 🙂

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  2. paginazero

    “Per rendere questo impegno credibile è stata adottata una licenza d’uso dei contenuti che ne vieta lo sfruttamento commerciale…”
    Attenzione, questa è un’inesattezza, non so se nel libro l’hai poi corretta.

    La licenza d’uso di Wikipedia (dapprima GFDL, poi CC-BY-SA) non impedisce formalmente a terze parti di sfruttare commercialmente le informazioni pubblicate. Vincola però questa possibilità al rispetto delle clausole della licenza (aperta e share-alike), che rendono tale sfruttamento commerciale meno immediato, probabilmente meno remunerativo e meno simile a quanto praticato abitualmente dall’editoria tradizionale.

    http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Copyright#Informazioni_per_i_riutilizzatori

    A rileggerci (scopro solo oggi questo tuo spazio).

    Replica

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