1. Perché le politiche pubbliche non funzionano?

Roma, marzo 2004. Il ministero dell’Innovazione del governo italiano annuncia uno stanziamento di 45 milioni di euro per mettere online un portale, Italia.it, “nato per promuovere l’offerta turistica via internet e il patrimonio culturale, ambientale e agroalimentare italiano”. La sua realizzazione viene affidata a Innovazione Italia, società di Sviluppo Italia. Praticamente tutti gli elementi principali di questa decisione sono una fonte potenziale di problemi. La formula anni Novanta del portale è stata messa pesantemente in crisi dall’evoluzione del web, per cui è diventata patrimonio comune tra gli esperti la nozione che “i portali non si fanno più”; 45 milioni di euro sono una cifra enorme per la produzione di contenuti immateriali, difficile da impegnare e sostanzialmente impossibile da rendicontare; Sviluppo Italia (oggi InvItalia) è oggetto di polemiche, in quanto accusata di essere un carrozzone che spreca tempo e risorse senza ottenere risultati; infine, i servizi di e-commerce dei prodotti turistici italiani da erogare attraverso il portale rischiano di spiazzare gli operatori privati che sull’e-commerce turistico stanno già investendo. Travolto dalle polemiche, ignorato dai navigatori, con un budget nel frattempo gonfiato a 58 milioni di euro (di cui, pare 39 spesi) Italia.it viene chiuso a inizio 2008.

Il responsabile dell’operazione è il ministro dell’Innovazione in carica nel 2004, Lucio Stanca. Si noti che Stanca viene da IBM, un’azienda che non si sarebbe mai sognata di lanciare (nel 2004) un portale da 50 milioni di euro. Da dove nasce quindi un errore così macroscopico? Se il problema non sono le persone (la competenza informatica di un ex Presidente IBM è fuori discussione), allora per trovare la risposta è necessario scavare da qualche altra parte, nel terreno accidentato delle decisioni pubbliche.

La fatica di decidere

Costruire politiche pubbliche è un mestiere straordinariamente difficile. I processi decisionali seguono traiettorie imprevedibili, si complicano, si contorcono come liane in una foresta tropicale. Questo fenomeno è comune a tutti i paesi sviluppati, ed è noto da tempo. Nel 1989 alcuni ricercatori dell’IRES avevano compiuto una ricognizione su cento progetti territoriali (infrastrutture, trasformazioni urbane ecc.) avviati in Piemonte. Cinque anni dopo gli stessi ricercatori sono tornati sugli stessi progetti, per verificarne lo stato di avanzamento (IRES 1989, 1995). La lettura delle loro osservazioni restituisce un quadro assolutamente sconcertante. Ne scrive il sociologo Luigi Bobbio (1996):

[…] procura ansia. Ci propone continui colpi di scena: finanziamenti che si interrompono senza alcuna apparente ragione o che, al contrario, si accumulano senza venire utilizzati; scelte che vengono rimesse in discussione quando pareva di essere in dirittura d’arrivo; attori che non si coordinano tra di loro; lunghi periodi di stasi che seguono a brevi momenti di attivismo. Verrebbe voglia di fare come Nanni Moretti in Palombella rossa quando assiste al finale del Dottor Zivago: incitare i protagonisti a guardarsi attorno e alle spalle, a parlarsi tra loro e a non perdere l’occasione buona.

Ma perché non deve essere possibile decidere di fare una cosa e, semplicemente, farla? Perché per concepire e realizzare un progetto territoriale (o comunque un’azione di policy) servono risorse che sono distribuite tra soggetti. Servono competenze amministrative, cioè il diritto di prendere decisioni; servono informazioni e know-how; serve denaro; serve il consenso delle persone in qualche misura coinvolte da quel progetto. È quasi impossibile per un unico soggetto riunire in sé tutte queste risorse, perché sono molto diverse tra loro e a volte non cumulabili.

Bobbio e i suoi colleghi studiosi indicano una soluzione: l’adozione di uno stile decisionale inclusivo, partecipato, aperto al confronto. Il confronto, naturalmente, può essere – e spesso è – faticoso e sgradevole. Per esempio, sebbene tutti siano consapevoli della necessità di impianti per il corretto smaltimento dei rifiuti, costruire nuove discariche è molto, molto difficile. Occorre tenere conto delle ragioni degli abitanti dei luoghi vicini all’impianto; degli ambientalisti; delle imprese; dell’interesse generale. E non si tratta solo di trovare una mediazione: questi problemi tendono ad essere complessi dal punto di vista cognitivo. Variabili ambientali, sociali, politiche, economiche, culturali, logistiche si possono combinare in un numero apparentemente infinito di configurazioni; è difficile individuare, tra queste, le possibili soluzioni, quelle che hanno più vantaggi. E se costruiamo una collina artificiale tra l’impianto e il quartiere? E se la strada che collega il centro urbano al nuovo impianto lambisce campi e pascoli dedicati a produzioni agroalimentari pregiate? In più, è facile vedere che decidere tra soluzioni alternative implica giudizi di valore, e i giudizi di valore sono difficili da assoggettare alla discussione razionale. Vale di più l’ambiente o lo sviluppo? Privilegiamo l’interesse locale o quello generale?

Ma non c’è alternativa, avverte Bobbio. La posizione conservatrice non è realistica: le politiche non si possono più decidere a porte chiuse, o in consessi ristretti alle rappresentanze politiche e sindacali. O meglio, le decisioni si possono in alcuni casi prendere nel Palazzo inaccessibile. Ma se non si tiene conto degli attori sociali rilevanti si arriva regolarmente alla protesta, al malcontento e allo stallo nella messa in atto di quelle decisioni. Meglio aprire il Palazzo e renderlo simile al Bundestag di Berlino, visibile, trasparente.

Strumenti per la decisione inclusiva

Seguendo queste indicazioni, anche il diritto amministrativo (non solo quello italiano) si è dato nuovi strumenti per rendere più inclusivi gli stili decisionali. L’arsenale degli amministratori si è arricchito di armi nuove come accordi di programma, patti territoriali, conferenze di servizio, partenariati pubblico-privati. Alcune servono per fare parlare tra loro amministrazioni diverse chiamate a prendere insieme una decisione; altre a coinvolgere soggetti esterni alle amministrazioni. Alcune consentono di allargare l’insieme delle conoscenze a disposizione di chi decide, altre di portare nel processo le voci di dissenso. Tutte, comunque, hanno il senso di indurre (e spesso di costringere) gli attori sociali interessati dalle decisioni di politiche pubbliche a confrontarsi tra loro. Questo spostamento verso l’inclusività delle decisioni pubbliche ha avuto grande impulso negli anni Novanta.

Più o meno negli stessi anni, sociologi e psicologi hanno sviluppato strumenti di lavoro che facilitano la progettazione partecipata. Questi hanno nomi come EASW, Open Space Technology o Knowledge Café, e si fondano su un principio semplice: si riuniscono in uno stesso luogo i cosiddetti stakeholders, cioè gli attori sociali che hanno interessi in gioco nella decisione che si deve prendere, e si fanno interagire. Attrezzi come lavagne e post-it vengono impiegati per visualizzare liste di questioni strategiche ed elenchi di cose da fare subito. Questi strumenti sono rapidamente diventati assai popolari, tanto che è nata una nuova figura professionale, il facilitatore, per gestire i processi di decisione partecipata.

Così, oggi abbiamo strumenti amministrativi che incoraggiano – e spesso obbligano – gli stakeholders a riunirsi per decidere insieme; e abbiamo anche metodi che facilitano l’emersione di decisioni partecipate e consensuali. Nonostante questo, però, l’adozione di uno stile decisionale più consensuale non sembra avere risolto il problema della decisione pubblica. La diffusione di strumenti amministrativi di programmazione negoziata e la disponibilità di tecniche di decisione partecipata non hanno impedito a Italia.it – e a innumerevoli altri progetti – di incamminarsi sulla strada del fallimento. Lo stile decisionale inclusivo proposto da Bobbio è indubbiamente una buona cosa, ma da solo non risolve il problema. Perché?

I limiti della decisione inclusiva

Uno dei limiti della soluzione indicata da Bobbio è probabilmente la difficoltà pratica di coinvolgere tutti gli stakeholders. Intanto bisogna capire esattamente chi sono. Gli effetti di una decisione locale si propagano nell’economia e nella società come un’onda nell’acqua, e possono finire per coinvolgere soggetti che chi prende quella decisione non si aspetta. Per esempio, nel 2008 si verifica a Napoli un’emergenza rifiuti, frutto di trent’anni di politiche ambientali inconcludenti: i telegiornali mostrano più volte cassonetti straripanti di sacchetti della spazzatura. Queste immagini provocano una crisi di immagine dell’intero territorio, che si manifesta tra l’altro in un crollo della domanda di mozzarella di bufala campana. I produttori di mozzarella di Benevento finiscono così per pagare tributo alle decisioni sbagliate di politica ambientale prese (o non prese) a Napoli dagli anni Ottanta in poi; eppure nessuno avrebbe pensato di coinvolgerli in quelle decisioni, ed essi stessi avrebbero considerato bizzarro qualsiasi tentativo in questo senso.

Supponendo di riuscire a identificare gli stakeholders, occorre risolvere il problema della rappresentanza. Le procedure decisionali sono tanto più veloci e produttive quante meno persone vi partecipano. Per questa ragione i processi di decisione pubblica, anche i più inclusivi, fanno volentieri ricorso alla rappresentanza: un funzionario sindacale rappresenta i lavoratori; un delegato dell’associazione dei commercianti rappresenta i commercianti, e così via. Questo sistema permette di ridurre il numero dei partecipanti alla discussione, rendendola più gestibile. C’è però un problema: in una società moderna e articolata, in cui conoscenza e autonomia d’azione sono molto diffuse, è molto difficile rappresentare davvero una categoria o un gruppo sociale. È sostanzialmente impossibile, per il funzionario del sindacato o il delegato dell’associazione commercianti, riassumere in sé il complesso delle informazioni rilevanti a disposizione dei rappresentati, collettivamente intesi; questo significa che, spesso, dati e competenze molto rilevanti non verranno messi sul tavolo di discussione. Inoltre, gli è sempre più difficile garantire che le decisioni prese a quel tavolo saranno veramente onorate dai rappresentanti stessi. Lacerazioni nel tessuto della rappresentanza fanno parte della cronaca di tutti i giorni e dell’esperienza di tutti noi: i sindacati firmano il contratto, ma i lavoratori scioperano; l’associazione dei commercianti tace, ma i commercianti di via Garibaldi danno vita a una protesta.

Anche se si riuscisse a identificare correttamente tutti gli stakeholders coinvolti in una decisione pubblica, e se si riuscisse a risolvere il problema della rappresentanza, resterebbe da risolvere il problema del tempo. Una decisione saggia, infatti, richiede una discussione molto lunga; occorre condividere i dati e le informazioni; esplorare un gran numero di alternative; discuterne i relativi meriti e demeriti per ciascuno dei decisori che siede al tavolo. E ciascuna di queste fasi richiede che persone diverse riescano a comunicare in modo costruttivo pur avendo visioni del mondo del tutto diverse. Se il funzionario del sindacato muove dal principio che “il salario è una variabile indipendente” e quello di Confindustria da quello che “dobbiamo mantenere la competitività internazionale” i due non si capiranno mai: occorre tornare indietro, rivedere le premesse, mettersi in discussione. Purtroppo, il tempo per farlo è una risorsa scarsa. E purtroppo, più i processi diventano inclusivi e aperti più diventano costosi in termini di tempo. Siccome i partecipanti, a meno che non si tratti di professionisti pagati, possono dedicarvi un tempo limitato, i processi inclusivi sono sottoposti a una emorragia strutturale di persone, e quindi di competenze e spessore della discussione. L’imprenditore salta una riunione perché è in viaggio d’affari; il professore ne salta un’altra per prendersi cura dei figli; e, con una frequenza sconfortante, “perdono il filo” e non si ripresentano. “Nel 2007 e 2008 ho partecipato alle discussioni sulla destinazione d’uso delle Ex Fonderie di Modena, uno spazio superaffascinante. – mi diceva una giovane creativa – Alla prima riunione eravamo in mille; all’ultima siamo arrivati in dieci”. Questo problema è aggravato dal fatto che introduce un’asimmetria tra i partecipanti: il funzionario pubblico, che è pagato per farlo, può presentarsi a un numero indefinito di riunioni fino a che il processo decisionale non è concluso, mentre l’imprenditore e il professore no1. Sfortunatamente, l’imprenditore, il professore e altri come loro sono anche i soggetti più interessanti in quel contesto. Conoscono altre realtà, attraversano mondi; per questo sono, assai più dei funzionari, in grado di offrire contenuti innovativi, pensiero trasversale, lampi di intuizione, associazioni con realtà apparentemente lontane dal caso in discussione, ma che possono invece illuminarlo.

Chi cerca di strutturare un processo decisionale partecipato, quindi, è di fronte a un’alternativa secca: processi brevi e costi di partecipazione limitati, quindi sala piena, molti contributi ma poco tempo per approfondire; oppure processi lunghi e costi di partecipazione alti, quindi molto più tempo per approfondire ma emorragia strutturale della partecipazione. Entrambe le soluzioni hanno problemi dal lato della completezza informativa; nessuna è al riparo da rischi di contestazioni.

Ma esiste un problema ancora più generale. Come nota Bobbio2, i decisori pubblici si orientano sempre verso uno stile di decisione esclusivo anziché inclusivo, quando ritengono di averne la possibilità. Sembra quasi una legge di natura: questa decisione è in genere irriflessiva, e quasi sempre conduce a stalli decisionali e a gravi sconfitte, eppure si ripropone con sconfortante costanza. La stagione della programmazione negoziata ha creato importanti incentivi per decidere in modo più inclusivo, ma ovviamente non ha potuto modificare la forma mentis dei decisori. Il risultato è che molti processi decisionali partecipati sono vissuti dai protagonisti solo come adempimenti formali. Quando ciò accade le decisioni sono condivise da più soggetti nella lettera, ma non nello spirito: e quasi sempre finiscono per arenarsi. Sembra che l’inclusione nelle procedure decisionali, per essere efficace, debba essere voluta: quando è imposta i soggetti tendono ad eluderla, e finisce per non funzionare.

Un buon esempio è la vicenda del collegamento ferroviario Matera-Ferrandina. Matera è l’unico capoluogo di provincia italiano non raggiunto dalla rete ferroviaria. Per risolvere il problema occorre costruire un tratto di ferrovia tra la città e la stazione di Ferrandina, che si trova nella vicina Val Basento, sulla linea Roma-Taranto. Nel XXXX Regione e Ferrovie dello Stato decidono di costruire il collegamento. La decisione viene incorporata in un atto amministrativo detto accordo di programma, che è un tipico strumento di programmazione negoziata. Funziona così: le parti interessate a realizzare una certa opera si incontrano e ne discutono tempi, modalità e come dividersene il costo. A questo punto firmano un documento, l’accordo di programma appunto. Nel caso della ferrovia Matera-Ferrandina i firmatari sono la Regione Basilicata, Ferrovie dello Stato, XXXXXXXXXXXXXXXXX e il Ministero dello sviluppo economico, garante dell’operazione. A pochi mesi dall’avvio dei lavori, Ferrovie dello Stato comunica alla Regione che “non ci sono soldi” per realizzare il collegamento. Tutto si blocca. Evidentemente, la partecipazione al tavolo di discussione di questo soggetto è stata solo formale, un puro protocollo burocratico privo di contenuto reale3.

Morale: il ricorso a procedure di concertazione non è sufficiente, di per sé, a garantire l’effettiva realizzazione di un progetto. La stessa vicenda di Italia.it, del resto, era stata avviata da un atto concertato, sebbene solo a livello di Stato centrale: una deliberazione di un comitato interministeriale per l’innovazione tecnologica. Gli strumenti amministrativi, anche se innovativi e intelligenti, funzionano nella misura in cui le persone (gli amministratori) vogliono farli funzionare. Altrimenti, rimangono solo un guscio vuoto.

Le buone decisioni sono possibili

Non è il caso, però, di lasciarsi andare al pessimismo. È vero che lo stile decisionale inclusivo proposto da Bobbio non ha risolto tutti i problemi di cattiva decisione pubblica; ma non è affatto vero che non esistano soluzioni. Continuamente, in tutto il mondo, ottime decisioni vengono prese e portate con successo fino in fondo. Vi è spazio per l’efficienza, per la lungimiranza, per il pensiero creativo. E questo spazio si trova non solo nei paesi avvezzi a pratiche di buon governo, ma anche in paesi sulla carta meno attrezzati. Negli anni Ottanta viene alla ribalta il caso della città brasiliana di Curitiba, presa a modello da una generazione di urbanisti ed esperti di politiche pubbliche; e perfino l’Italia minore esprime – in genere su scala locale e a macchia di leopardo – progetti di eccellenza4.

Le politiche in crisi di attenzione

Qual è l’ingrediente magico, la “pallottola d’argento” che consente di evitare di prendere le decisioni cattive, quelle che a posteriori sembreranno non solo sbagliate ma sbagliate in modo evidente?

Questo libro sostiene che la pallottola d’argento non c’è. Nessuna procedura, per quanto accuratamente progettata e ispirata a criteri razionali come quelli di Bobbio, consente automaticamente di evitare gli errori. Nessuna soluzione organizzativa può promettere certezza dei risultati. Non ci sono formule magiche, né scorciatoie, né sconti. L’unico modo di prendere decisioni sagge è sviscerare davvero i problemi, rigirarli nella mente, guardarli da diversi punti di vista, documentarsi, studiare. La risorsa scarsa per prendere decisioni pubbliche è la stessa che scarseggia sempre: l’intelligenza umana.

Con questo non si vuole certo sostenere che i decisori, individualmente, non siano persone intelligenti. Al contrario, si tratta spesso di individui competenti e ben intenzionati. Il problema è di massa critica: le pubbliche amministrazioni non hanno, semplicemente, abbastanza occhi per acquisire tutte le informazioni relative a tutte le decisioni da prendere, né abbastanza cervelli per elaborare una tale conoscenza. Le politiche pubbliche vivono una crisi di attenzione, resa più grave dal costante aumento della complessità delle decisioni da prendere. Le prospettive per il futuro non sono buone: è improbabile che tali decisioni diventino più semplici. Al contrario.

Come si svolge il lavoro dei decisori pubblici?

Conviene a questo punto gettare uno sguardo sulla routine lavorativa delle persone che concorrono alle decisioni sulle politiche pubbliche. In genere si pensa che prendere una decisione sia un atto concentrato in un tempo breve. Esso costituisce uno spartiacque, nel senso che modifica il corso degli eventi, la direzione in cui le cose si muovono. Viene in mente Hitler, che ordina l’operazione Barbarossa nel 1941: la Wehrmacht trionfante sul fronte occidentale attraversa il confine sovietico, e finirà per impantanarsi nelle steppe gelate, rovesciando gli esiti della guerra. Oppure Giulio Cesare, che esclama “il dado è tratto!” e attraversa il Rubicone, cambiando in un momento il corso della propria vita e della storia.

Questa metafora è affascinante ma sbagliata. Nelle moderne democrazie, le decisioni pubbliche sono soggette a procedure e controlli volti a ridurre il rischio di arbitrio e a tutelare gli interessi generali. In genere coinvolgono molti soggetti sia dentro che fuori la pubblica amministrazione, e richiedono molti mesi o anni per passare dallo stadio di idea a quello di attuazione. Queste decisioni, quindi, prendono la forma di processi amministrativi. Ogni processo funziona come un programma di computer che attiva diversi sottoprogrammi: delibere di giunta, redazione di allegati tecnici, momenti di confronto con le parti sociali, attività di valutazione e così via. I sottoprogrammi sono quasi sempre organizzati in serie, non in parallelo: questo significa che, in ogni momento dato, solo uno di essi sta lavorando, mentre gli altri aspettano pazientemente il loro turno o – se il loro turno è già venuto – aspettano che il tutto sia concluso.

Il lavoro degli amministratori pubblici viene attivato da questi processi, e consiste nel contribuire ad eseguire un solo (o comunque pochi) sottoprogramma. Essi, dunque, sono come operai nelle catene di montaggio delle fabbriche fordiste: non si occupano veramente di decisioni, ma si specializzano in pezzi dei processi decisionali. Chi si occupa di allegati tecnici, per esempio, produrrà un allegato tecnico dopo l’altro, in genere senza avere molta influenza sulle fasi precedenti (come l’approvazione di leggi e delibere) né su quelle successive (attuazione e valutazione). L’analogia con le fabbriche fordiste vale anche in un altro senso importante: i decisori pubblici non controllano i tempi del loro lavoro. Si possono attivare solo quando i processi decisionali li chiamano in causa, e molto spesso lavorano in condizioni di emergenza, perché questi processi contengono “bombe a tempo”. Per esempio, la programmazione dei fondi europei incorpora una caratteristica che si chiama disimpegno automatico: un’amministrazione che non riesce a impiegare le proprie risorse finanziarie entro una certa data le perde, e il processo amministrativo viene azzerato. Questo comporta un affollamento delle procedure amministrative in prossimità delle scadenze principali, con funzionari mobilitati giorno e notte per “non perdere i soldi”. In queste situazioni, chiaramente, gli incentivi a guardare oltre il momento di emergenza amministrativa sono molto deboli.

La conseguenza di questa situazione è che quasi mai il singolo decisore, anche di livello alto, può controllare la razionalità complessiva del processo. Esso coinvolge semplicemente troppi livelli, e dura troppo a lungo. Lavorare a un processo amministrativo non somiglia a costruire una casa, partendo dalle fondamenta e lavorando secondo un piano razionale frutto della soggettività dell’architetto. Somiglia piuttosto al surf: in condizioni favorevoli bravi surfisti possono compiere evoluzioni eleganti e scegliere la propria traiettoria; se le condizioni sono sfavorevoli, o se i surfisti sono alle prime armi, ci si deve concentrare sullo stare a galla; ma in nessun caso si può prescindere dai tempi e dalle caratteristiche dell’onda, che chi sta sulla tavola impara presto a rispettare.

La preferenza per le grandi decisioni di programmazione

A questa situazione le pubbliche amministrazioni hanno reagito concentrando le loro risorse di razionalità su quelle che sembrano le decisioni più importanti: le decisioni di programmazione vengono seguite più attentamente di quelle di implementazione; e le decisioni di larga scala vengono seguite più attentamente di quelle di scala più piccola.

Le decisioni di programmazione sono quelle che accoppiano risorse finanziarie con obiettivi. La redazione dei bilanci preventivi pubblici, cioè la legge finanziaria per lo Stato e i provvedimenti di approvazione dei bilanci degli enti locali, ne sono l’esempio più ovvio. Su queste decisioni si concentra molta dell’attenzione dei politici, degli alti funzionari e dei mass-media. Ecco un esempio: a marzo 2009, il governo italiano decide di riprogrammare le risorse nazionali del fondo per le aree sottoutilizzate, destinandole in parte a grandi opere e in parte ad ammortizzatori sociali. Questa decisione viene presa ai massimi livelli, cioè nel Consiglio dei ministri; i singoli ministri vi partecipano in modo molto attivo, portando proposte alternative che è facile immaginare abbiano discusso a fondo con i propri consiglieri. I mass-media seguono le fasi del processo decisionale, danno ampio risalto al suo risultato finale.

Vi è un elemento di razionalità nel privilegiare le decisioni di programmazione. Programmare significa assegnare una priorità ai diversi obiettivi che l’azione amministrativa si dà, e consente a chi programma di lasciare un segno ben visibile del proprio operare. Nel caso della decisione governativa citata, la riprogrammazione di risorse già stanziate riflette un cambiamento di priorità: la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 rende più necessario il reperimento di risorse finanziarie per un pacchetto di stimoli all’economia. A parità di altre condizioni, quindi, cresce l’importanza degli ammortizzatori sociali, come i sussidi di disoccupazione (che permettono di integrare i redditi delle famiglie in difficoltà) e delle opere pubbliche (che permettono di stimolare la domanda aprendo cantieri) rispetto a quella di obiettivi concorrenti come lo sviluppo regionale. Riprogrammare le risorse rende visibile e cristallizza in una decisione questo mutamento di priorità; e rende possibile un’azione più energica là dove questa è stata giudicata necessaria.

Il ragionamento, però, contiene un’ipotesi fondamentale: che la decisione presa al livello della programmazione delle risorse si trasmetta in modo più o meno lineare a quello della realizzazione degli interventi. Questo equivale a ipotizzare che un euro speso, supponiamo, nello stipendio di un insegnante di matematica a Udine abbia più o meno lo stesso impatto di un euro speso nella costruzione di un raccordo autostradale a Taranto, ma che questo impatto si esplichi in un ambito differente.

Questa ipotesi è falsa. Spostare risorse da un provvedimento ad un altro può modificare anche di moltissimo l’impatto della spesa programmata. Questo è vero non solo quando quando cambiano gli ambiti (dall’istruzione superiore alla viabilità), ma anche all’interno dello stesso ambito. Nel caso della decisione governativa del marzo 2009, l’associazione dei costruttori ha fatto notare che programmare grandi opere non ha nessun effetto anticrisi, perché i tempi per avviare i cantieri sono troppo lunghi: il ponte sullo stretto di Messina, che quel provvedimento rifinanzia con 1,3 miliardi di euro, è in discussione da oltre quarant’anni. I costruttori, dunque, hanno proposto che le risorse vengano deviate su piccole opere pubbliche immediatamente cantierabili. La lezione di questa vicenda, e di tante altre, è chiara: la partita delle politiche pubbliche non si può giocare solo al livello della programmazione. Per essere davvero efficaci, i decisori devono occuparsi seriamente di attuazione.

Quanto alla tendenza a privilegiare le decisioni di larga scala, può sembrare una scelta ovvia. Tutti i problemi tendono ad essere intricati: la pedonalizzazione del centro storico di una cittadina può essere tanto politicamente difficile e connessa ad altre decisioni (il rifacimento dell’arredo urbano delle strade oggetto dell’intervento, il reinstradamento del traffico, i parcheggi, i trasporti pubblici…) quanto una decisione infrastrutturale di grande portata, come la costruzione di un aeroporto o di un’autostrada. Un economista direbbe che il processo decisionale è soggetto ad economie di scala: la difficoltà relativa a prendere una decisione cresce meno della dimensione della decisione stessa. In questa situazione è logico che le amministrazioni pubbliche destinino i loro uomini migliori a presidiare le decisioni di grandi dimensioni, che costano più denaro al contribuente e fruttano maggior prestigio al decisore stesso.

La strategia di concentrarsi sulle decisioni di larga scala ha fondamenta più solide di quella che induce i decisori a occuparsi soprattutto di programmazione. Ma anche in questo caso, per alcune politiche pubbliche (per esempio i cosiddetti progetti territoriali) sembrano esservi diseconomie di scala nella fase della messa in opera. I grandi progetti infrastrutturali sono più controversi, scatenano più appetiti, coinvolgono più decisori di più livelli decisionali; in alcuni ambiti sono anche più soggetti ad infiltrazioni da parte della criminalità organizzata. Risultato: tendono, più di quelli piccoli, a sforare budget e tempi di consegna. Tutti questi fattori lavorano nel senso di ridurre l’impatto delle risorse destinate a grandi progetti, tanto che viene da chiedersi se non sarebbe stato meglio che il ministro Stanca avesse destinato quei 45 milioni a molti piccoli progetti anziché a uno così grande.

La solitudine dell’amministratore

Una volta che una decisione pubblica è stata presa, e le risorse necessarie programmate, i decisori di alto livello in genere smettono di occuparsene e passano alla decisione successiva. Occupandomi di politiche pubbliche mi sono accorto che molti di essi percepiscono una cosa come “fatta” una volta che essa abbia raggiunto questo stadio. Ecco una storia dalla mia esperienza personale: nel 2007 sono consulente del ministero dello Sviluppo economico, e mi occupo di assistere la Regione Basilicata nel realizzare un progetto deciso l’anno precedente. Il presidente della Regione, Vito De Filippo, ha preso un’importante decisione di programmazione, che caratterizza decisamente la sua amministrazione: varare il Patto con i giovani, un complesso integrato di misure a favore dei giovani lucani, che vanno dalla concessione di assegni di ricerca alle agevolazioni per l’acquisto della prima casa, dagli incentivi per le nuove imprese ai contributi per l’apertura di sale cinematografiche. Per il primo anno5 sono stati stanziati oltre 80 milioni di euro, una cifra molto consistente in una regione di soli 600.000 abitanti. Il gruppo misto Ministero-Regione di cui faccio parte si occupa di una sola delle azioni previste dal Patto, finanziata con 4,3 milioni di euro, cioè circa un ventesimo del totale. Questa azione prevede

[…] la creazione, l’allestimento e l’animazione di spazi laboratorio in cui i giovani abbiano la possibilità di rivestire un ruolo attivo e creativo negli ambiti della musica, della produzione audiovisiva e multimediale, della danza, del teatro, delle arti visive, del recupero di antichi mestieri.

Il nostro gruppo serve a consigliare la Regione su quanti spazi laboratorio aprire; dove farlo, e in quali edifici; per svolgervi quali attività; con quale modello di gestione; mobilitando quali risorse creative e organizzative del territorio lucano. Il rischio di sbagliare e sprecare risorse pubbliche è molto alto, perché il Patto stanzia sì una somma considerevole per avviare i laboratori, ma nulla per mantenerli. Perché gli spazi non vengano chiusi immediatamente dopo l’apertura, aggiungendosi a una lunga lista di luoghi pubblici abbandonati a se stessi e inutilizzati, è indispensabile che essi diventino imprese culturali economicamente sostenibili – il che, in Basilicata, non è tanto semplice. Questo significa partire non dagli spazi per la creatività, ma dai prodotti culturali che quegli spazi andranno a sostenere e ad ospitare, e in base a questo decidere il numero, la collocazione e gli allestimenti degli spazi stessi. Siccome i prodotti culturali implicano creativi che li pensino e li realizzino, questo a sua volta implica un coinvolgimento profondo dei creativi della Basilicata, di cui occorre comprendere punti di forza e di debolezza, sogni e paure, prima di poter parlare di appalti e di cantieri.

Di fatto, quelle tre righe e mezzo del Patto con i giovani danno l’avvio a un’azione di messa in rete e di accompagnamento della scena creativa lucana durata oltre due anni, che ha coinvolto un centinaio di persone tra creativi, team regionale ed esperti esterni, una decina di seminari, un blog con 600 commenti ed altro ancora. E si tratta di una sola misura relativamente piccola di un solo strumento di programmazione relativa a un solo anno di una sola regione del Mezzogiorno!

Tra la programmazione delle risorse su un obiettivo codificata nel Patto con i giovani e la posa in opera di una policy coerente ed efficace sulla creatività in Basilicata, dunque, c’è una distanza immensa. Siamo in grado di tentare di colmarla solo perché ce lo permettono: perché, cioè, siamo lasciati liberi di dedicare tempo e risorse a capire come spendere al meglio il denaro. Se non avessimo questa libertà, dovremmo usare una soluzione che minimizzi il dispendio di tempo del gruppo regionale; probabilmente scriveremmo un bando chiedendo ai sindaci di candidare dei propri immobili a diventare spazi laboratorio e assegneremmo le risorse sulla base dei progetti presentati. A questo punto entrerebbero in gioco gli architetti e le imprese di costruzione, che concorrerebbero agli appalti per i restauri; solo dopo la fine dei lavori gli spazi verrebbero consegnati ai creativi, ma questi, con ogni probabilità, rifiuterebbero di accollarsene i costi di gestione in mancanza, in Basilicata, di un mercato solido per la cultura. Risultato: spazi restaurati, e di nuovo abbandonati.

La cosa interessante è che, dal punto di vista del livello decisionale più alto, quello del presidente della Regione Basilicata, tutti questi sono poco più che dettagli di realizzazione: dal suo punto di vista la Regione “ha fatto” gli spazi laboratorio creativi già nel 2006, perché qualcuno ha scritto quelle tre righe e mezzo nel Patto con i giovani. Un decisore di alto livello come il presidente di una Regione italiana è, ovviamente, perfettamente in grado di distinguere tra una realizzazione di eccellenza e una mediocre, ma non ha né il tempo né gli strumenti per occuparsene, e in genere non si interessa del livello a cui se ne occupano i suoi collaboratori. La politica programma, ma è l’amministrazione che deve attuare quelle decisioni. E nel farlo è terribilmente sola.

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Note

1 In realtà questo problema si pone fin dalla prima riunione. I funzionari pubblici vogliono tenerle in orario di lavoro; i cittadini comuni in orario serale. In genere non viene neppure discusso: si comincia con la convocazione di una riunione, da parte di un ente pubblico, in orario lavorativo. Paradossalmente, i processi di decisione partecipati iniziano con una decisione non partecipata che ha l’effetto di limitare, e di molto, la partecipazione!

2 L., 1996, La democrazia non abita a Gordio, Il Mulino, Bologna

3 Storia da completare a cura di Rossella Tarantino

4 Il programma Caterpillar, di Radio RAI2, ha condotto su questo numerose inchieste, i cui risultati sono stati raccolti in un libro [Cirri e Solibello, 2008].

5 Era una misura sperimentale. Forse rendendosi conto della difficoltà di gestire con saggezza simili somme, la Regione ha deciso di sospendere gli altri sei anni previsti.

29 pensieri su “1. Perché le politiche pubbliche non funzionano?

  1. massimo micucci

    A me piace parlare di crisi della “decisione” nella società complessa (globalizzata, finaziarizzata,appiattita dalle tecnologie) di crisi delle decisione . Per ragioni di fatto (crisi dello stato nazionale, dei sistemi ordinativi sociali, tecnologie sociali diffusive) Il Decisore come lo incontriamo mi appare triste e debole sia nella sua capacità porgrammatica (ma si può programmare, prevedere, in una società che è letterelmente fuori controllo, liquida ) che in quella operativa. Ecco perchè la speranza e la possibilità pratcia sta proprio verso la parte bassa di una Coda Lunga dove già si addensano interessi, potenzialità e poteri sempre più vicini alle persone. Una delle tante rappresentazione che ho trovato nel sito che ti segnalo :
    in termini di potere percepito
    http://www.egovmonitor.com/node/1688, ma potrebbe setenmdersi agli orizzonti decisionali “rafforzati” dalle tecnologie sociali”

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    1. Alberto Autore articolo

      Massimo: ho letto l’articolo al link che hai condiviso. Non mi convince del tutto. O meglio: sì, l’espansione del numero delle persone che partecipano davvero è una cosa buona e può avere conseguenze molto importanti; no, non ritengo realizzabile il sogno di una partecipazione di massa e di qualità alta. Per ragioni varie – una delle più importanti è che solo poche persone sanno costruire un’argomentazione razionale per iscritto – credo che tutto quello che possiamo fare è espandere l’élite. Certo che il problema è delicato: nel libro lo affronto nel capitolo 11. L’hai letto?

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  2. Francesca Covatta

    In “I limiti della decisione inclusiva” nella frase “È sostanzialmente impossibile, per il funzionario del sindacato o il delegato dell’associazione commercianti, riassumere in sé il complesso delle informazioni rilevanti a disposizione dei rappresentati, collettivamente intesi; questo significa che, spesso, dati e competenze molto rilevanti non verranno messi sul tavolo di discussione. Inoltre, gli è sempre più difficile garantire che le decisioni prese a quel tavolo saranno veramente onorate dai RAPPRESENTANTI stessi. ” credo che debba essere sostituito RAPPRESENTANTI con RAPPRESENTATI

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  3. rosaria toro

    Piccolo commento alla Parte prima-Capitolo primo: non è un’omissione grave ma direi, se possibile, di sostituire la frase “produttori di mozzarelle di bufala di Benevento” a quella “produttori di mozzarella di bufala della Piana del Sele”….per il resto davvero complimenti!!!!….scritto benissimo e molto leggibile anche da una persona come me che non si occupa di economia…a parte la mia disastrata… 😛

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    1. Alberto Autore articolo

      Rosaria, grazie davvero. La tua osservazione renderà l’esempio delle mozzarelle di bufala più calzante, e quindi tutta l’argomentazione più credibile.

      Mi fai un supercomplimento se mi dici che il libro si capisce. Giovanni ed io abbiamo lavorato duramente per ripulire il libro dalle espressioni troppo tecniche, da economista, che – purtroppo – spesso mi viene da usare nella vita di tutti i giorni.

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  4. Tito

    Ti dò solo le critiche, i complimenti saranno nell’endorsement:
    – il titolo “perchè le politiche pubbliche non funzionano” d’accordo sul concetto posto così suona un po’ qualunquista.
    – Poi c’è il problema di definire le politiche. Nella nozione americana le policies sono anche e soprattutto le regole, mentre mi sembra che tu abbia in mente sioprattutto gli interventi attivi dello stato. Pensaci, non è detto che ci voglia una definizione rigorosa.
    – “Strumenti per la decisione inclusiva”, per me sono tecniche appunto per una decisione più di qualità. ma in alcuni passaggi tu ne parli come “soluzioni” e per me è un po’ troppo.
    – “le buone decisioni sono possibili”. Il paragrafo è un po’ atrofico. E’ un affermazione che meriterebbe qualche esempio, oppure se non te ne vengono di buoni elimina il paragrafo e fà solo un affermazione che mi sembra in sè incontestabile.

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    1. Alberto Autore articolo

      Giuste osservazioni.

      1. Il titolo dovrebbe essere forse “perché le politiche pubbliche non funzionano sempre. Il mio obiettivo con quel titolo è indurre uno slittamento cognitivo nei non tecnici che – soprattutto in Italia – pensano che i governi siano molto potenti, e quando fanno cose che non funzionano lo fanno perché così avevano deciso, in base a interessi e considerazioni che noi non capiamo.

      2. con gli interventi attivi dello Stato gli esempi vengono meglio, ma il problema rimane anche con le regole. Esempi che io e te abbiamo discusso: le regole di ammissibilità della spesa del Fondo Sociale Europeo sono state scritte per evitare gli sprechi e le ruberie. Risultato: sprechi e ruberie rimangono, e in più si ostacola chi vuole lavorare seriamente. Oppure: gli incentivi all’innovazione, le cui regole sono scritte per garantire l’addizionalità del contributo statale, ma non ci riescono.

      3. nel libro di Bobbio le decisioni inclusive vengono presentate come una pallottola d’argento: sono difficili, ma poi garantiscono l’implementazione. Nel contesto di quel dibattito, definirle soluzioni secondo me ha senso.

      4. hai ragione, è un dubbio che era venuto anche a me. Ci penserò per la seconda versione (anche se poi “buone politiche” sono il tema di praticamente tutto il libro!)

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  5. Ida

    Questi i dati che sono riuscita a recuperare sull’APQ per la costruzione della tratta ferroviaria Matera Ferrandina:

    Esiste una Intesa Istituzionale di Programma (IIP), sottoscritta il 5 gennaio 2000 dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Presidente della Regione Basilicata.
    L’Intesa prevede una manovra finanziaria così articolata:
    APQ 1 – Viabilità 567.285,55 Meuro
    APQ2 – Trasporti 266.020,75 Meuro
    APQ3 – Sanità 152.010,82 Meuro
    Completamenti e studi (ex L. 208/98) 22.326,43 Meuro
    Accordo Val Basento (ex del CIPE 120/99) 109.563,23 Meuro
    Totali 1.117.206,78 Meuro
    Il 19 gennaio 2000 sono stati sottoscritti, da parte della Regione Basilicata e dei vari Ministeri competenti, tre Accordi di Programma Quadro (APQ) definiti contestualmente alla stipula dell’Intesa Istituzionale e in fase di attuazione. Fra questi, l’APQ2 – Trasporto ferroviario e sistemi di mobilità e scambio, il quale nel settore ferroviario individua come prioritari:
    – la costruzione della tratta ferroviaria Ferrandina-Matera-Bari,
    – il completamento ed integrazione del tracciato (viario) La Martella-Venusio-Altamura

    Io immagino che il “Ministero competente”, nel caso specifico, sia quello delle Infrastrutture e Trasporti. Non so dirti se fra i firmatari ci fossero anche le FF.SS., mi informo meglio e ti do conferma. Tieni conto anche nel corso degli l’importo dell’APQ è stato più volte rimodulato, quindi quelle cifre ad oggi non sono più valide.

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  6. Alberto Autore articolo

    Formidabile, grazie! Immagino che l’APQ a cui faceva riferimento Rossella quando mi raccontò quella storia fosse proprio l’APQ2 del 19 gennaio 2000. A questo punto restano da confermare l’elenco dei firmatari e la triste conclusione della vicenda (la Cosa dei Fantastici 4 continua a non potere andare a trovare lo zio Pietro ai Sassi di Matera). :mrgreen:

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  7. Ida

    Ti ho trovato il testo originale dell’APQ2 😉 te lo trovi nella email.
    Quindi anche il problema dell’elenco dei firmatari è risolto

    Cosa sia successo, invece, per cui l’opera non è mai stata competata, proprio non lo so. Il RUP nominato all’epoca è ancora in servizio, però non lo conosco e non so minimamente se gli farebbe piacere o no rispondere, ad es., ad una tua mail.

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  8. Rossella Tarantino

    ho trovato le carte dell’accordo di programma! Si tratta dell’Accordo di Programma quadro per il trasporto ferroviario e per sistemi di mobilità e scambio siglato il 19.1.2000 tra
    1) Regione Basilicata
    2) Ministero del Tesoro-Bilancio e Programmazione economica (all’epoca il DPS – che promuoveva e garantiva le Intese istituzionali e gli ApQ era attestato al Ministero del Tesoro)
    3) Ministero dei Trasporti
    4) Società FS Spa (e la cosa buffa è stato firmato dall’Ing. Moretti, all’epoca Direttore Divisione Infrastrutture e ora a capo della società).
    Apq che prevede un piano di interventi definito, importi e fonti finanziarie specificate, precisi impegni e responsabilità dei contraenti.
    L’APQ prevede 10 interventi tra cui al primo posto figura “il completamento del tracciato ferroviario Ferrandina-Matera la Martella-Venusio-Altamura-Bari” secondo le determinazioni assunte con un Protocollo di intesa tra Ministero dei Trasporti, Ministero del Tesoro, Regione Puglia, Regione Basilicata, Ferrovie dello stato spa e gestione governativa delle ferrovie apulo-lucane.
    Di tale intervento complessivo, il “completamento della progettazione e realizzazione della nuova linea ferrandina-matera” è interamente finanziato con fondi statali all’uopo assegnati nel contratto di programma 1994-2000 sottoscritto tra Ministero dei trasporti e Ferrovie dello stato.
    Se sono riuscita a ritrovare queste carte, che preesistono al mio ingresso in regione, non sono riuscita però a ricostruire la sequenza degli atti di inadempienza da parte di Rfi, che credo sia preferibile tu abbia.

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  9. tommaso

    Caro Alberto,
    posto che l’intento di questo pregevole scritto, me lo dicesti tu stesso tempo fa, è “divulgativo” , voglio dirti che mi sembra molto riuscito: la lingua è scorrevole e omogenea, gli esempi sono calzanti e ben utilizzati, la rete di link e riferimenti è solida e convincente.
    Potrei non aggiungere altro, ma siccome abbiamo una fruttuosa discussione in corso ormai da un lustro, mi divertirò a svolgere qualche critica alle categorie che usi e, più precisamente, alla loro capacità interpretativa. E’ possibile che quanto scrivo non abbia utilità immediata rispetto a Wikicrazia, ma confido che possa nutrire la tua riflessione, per così dire, a prescindere dalle concrezioni che vorrai darle nel tempo.
    Comincio (e procedo giocoforza a strappi, capitolo dopo capitolo).
    La proposizione decisiva di questo primo capitolo, per me, è “la partita delle politiche pubbliche non si può giocare solo al livello della programmazione. Per essere davvero efficaci, i decisori devono occuparsi seriamente di attuazione”. La riprenderò, commentando sui capitoli successivi.

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  10. Susanna

    Caro Alberto, bhè intanto grazie per quello che stai facendo, state facendo! questo primo capitolo è molto intrigante e stimolante, non mi soffermo sui complimenti, sulla scrittura, sulle cose già dette da altri, vorrei però sottoporti una tabella, che ti esplicherò nel modo migliore che potrò nei prox giorni in merito alle decisioni degli amministratori con alcune proposte che stiamo elaborando. Parliamo per un attimo della Manovra sulle Regioni ed Enti Locali -Riforma Tremonti- questo il quadro
    L’art. 14, al comma 1, fissa le dimensioni finanziarie del contributo richiesto alle autonomie territoriali – nell’ambito del patto di stabilità interno – all’importo complessivo della manovra
    Le Regioni e le Province autonome, le province e i comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti sono chiamati a concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2011-2013 evidenziati nella seguente tabella:
    2011 2012 2013 Totale
    Regioni S.O. 4000 4500 4500 13000
    Autonomie Speciali 500 1000 1000 2500
    Province 300 500 500 1300
    Comuni >5000 abitanti 1500 2500 2500 6500

    Vengono conseguentemente ridotti i trasferimenti statali a qualunque titolo spettanti alle regioni, i trasferimenti correnti, comprensivi della compartecipazione IRPEF, dovuti alle province, i trasferimenti correnti dovuti ai comuni con popolazione superiore a 5.000 abitanti. Per le province e i comuni la ripartizione è effettuata su base proporzionale. Nulla si prevede per le Regioni quanto a criteri e modalità del riparto.

    Il medesimo comma dispone la neutralità delle misure sopra esaminate in sede di attuazione dell’art. 8 della legge 5 maggio 2009, n. 42, che – in materia di federalismo fiscale – detta i princìpi e i criteri direttivi sulle modalità di esercizio delle competenze legislative delle regioni e sui mezzi di finanziamento.
    Secondo questo comma, a partire dal 2014 il taglio alle regioni dovrebbe dunque essere ripristinato per partire con l’anno zero del federalismo fiscale il quale, nel giro di cinque anni, dovrebbe portare dal finanziamento in base dalla spesa storica a quello sulla base dei costi e fabbisogni standard.
    Intanto c’è un rinvio di due anni nella partenza del federalismo fiscale, dal 2012 al 2014. Ed è del tutto improbabile, visto lo stato della finanza pubblica, che il taglio venga effettivamente restituito: la base di partenza del federalismo fiscale sarà quindi l’entità dei finanziamenti alle regioni stabilita dalla manovra triennale.
    Il comma 9 del medesimo articolo fa divieto agli enti nei quali l’incidenza delle spese di personale è pari o superiore al 40% delle spese correnti di procedere ad assunzioni di personale a qualsiasi titolo e con qualsivoglia tipologia contrattuale; i restanti enti possono procedere ad assunzioni di personale nel limite del 20 per cento della spesa corrispondente alle cessazioni dell’anno precedente. Questo limite opera anche per il comparto della sanità.
    Il comma 11 del medesimo articolo prevede che, per l’anno 2010, i comuni e le province possono escludere dal patto di stabilità interno i pagamenti in conto capitale per un importo non superiore allo 0,78% dei residui passivi in conto capitale risultanti dal rendiconto del 2008. Si tratta di circa 300 milioni di euro.
    Il comma 13, infine, attribuisce ai comuni, per l’anno 2010, un contributo di 200 milioni che sarà ripartito in base a criteri che tengano conto della popolazione e del rispetto del patto di stabilità interno.
    L’articolo 9, comma 14, prevede la riduzione del finanziamento del Fondo sanitario nazionale di 418 milioni di euro per l’anno 2011 e di 1132 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012 per il blocco delle procedure contrattuali e negoziali relative al personale per il triennio 2010-2012.
    La manovra triennale prevede una correzione della crescita tendenziale del disavanzo per gli anni 2011 e 2012 di circa 24,9 miliardi di euro, dei quali 14,8 miliardi di euro (il 59%) graverà direttamente sulle autonomie territoriali. A questi vanno aggiunti la riduzione del Fondo sanitario nazionale e dei fondi destinati alle regioni collocati nei bilanci dei Ministeri centrali, con la percentuale del contributo chiesto alle autonomie territoriali che cresce fino a raggiungere il 65-70%.
    Il complesso della spesa delle autonomie territoriali corrisponde al 35% della spesa pubblica italiana, al netto degli interessi sul debito. Il rimanente 65% è riferito alla spesa dello Stato centrale.
    Lo squilibrio è assoluto. Il rapporto tra il peso della manovra sulle autonomie territoriali e sullo Stato centrale è addirittura rovesciato rispetto a quanto ciascun comparto incide sulla spesa pubblica complessiva delle Pubbliche amministrazioni.
    Ti faccio l’esempio della Regione Emilia Romagna

    Il taglio ai trasferimenti alla Regione per il 2011 ammonta, secondo le stime attualmente possibili, a 350 milioni di euro, a cui si sommano le conseguenze per i tagli lineari sui fondi di carattere sociale dei Ministeri (non autosufficienza e affitto) che sono di circa 50 milioni di euro. In totale si tratta di un taglio di 400 milioni di euro per il 2011. A questi si aggiungono, su un piano diverso perché sono calcolati in termini di saldi finanziari, gli ulteriori vincoli determinati dal Patto di stabilità interno quantificabili in circa 250 milioni di euro, che determinano effetti restrittivi sui pagamenti della Regione e sulla sua capacità di investimento.
    Se la Regione concentrasse il taglio sui trasferimenti dallo Stato per le funzioni trasferite in seguito alle cosiddette “leggi Bassanini” della fine degli anni ‘90, questi verrebbero completamente azzerati (ambiente, viabilità, opere pubbliche, mercato del lavoro, incentivi alle imprese, porti, protezione civile per incendi boschivi, edilizia residenziale, servizi ferroviari, agricoltura e veterinaria). Se invece spalmasse il taglio su tutti i suoi capitoli di spesa corrente, i quali ammontano complessivamente a 1,6 miliardi di euro (escludendo la sanità, il personale e la spesa in conto capitale), questi verrebbero ridotti del 25%.
    Poiché si tratta in grande parte di finanziamenti a province e comuni, questo taglio si somma a quello che si riferisce direttamente ai trasferimenti di ciascun ente locale.
    Questo per farti il quadro più o meno complessivo e da qui si può evincere la difficoltà non sembra voluta dagli amministratori solitari
    La soluzione non semplice dovrebbe essere quella del riformare le istituzioni locali semplificando la pubblica amministrazione attraverso la gestione associata di servizi e funzioni, come un fattore produttivo e non solo come istituzione locale o ente erogatore di servizi al cittadino. Per fare questo bisognerebbe allentare i vincoli del patto di stabilità, questa che definirei una strozzatura della finanza locale, costringe i comuni a rinunciare agli investimenti già programmati provocando anche danni alle imprese del territorio che lavorano per la pubblica amministrazione.
    Probabilmente sono andata fuori tema ma mi sono fatta prendere la mano…., spero in un qualche modo di aver potuto dare un minimo contributo.
    A presto con altre considerazioni, sempre se me lo permetti
    ciao e ancora complimenti

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  11. giulio quaggiotto

    Ciao Alberto,
    un commento veloce re: Italia.it. Se non lo hai gia’ fatto altrove (non sono ancora arrivato alla fine!) forse vale la pena di citare qui (o piu’ tardi) nel libro il controesempio di http://rewiredstate.org. Quando hanno iniziato, se la memoria non mi inganna, gli hackers hanno dimostrato di poter costruire un sito in due giorni e gratutitamente per il governo inglese. Lo stesso sito, secondo i risultati del concorso indetto dal governo, avrebbe dovuto costare mezzo milione di sterline e 2 anni di lavoro. In piu` ci hanno aggiunto usability e accessibility! Vale la pena verificare le cifre e i fatti (sul loro blog, se non mi ricordo male).
    Continuo a leggere…
    Ciao
    Giulio

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  12. Simone De Battisti

    su questo primo capitolo ho alcuni commenti frutto di mie esperienze, non sono dati o casi, spero ti siano utili ugualmente.

    Lo stile decisionale di bobbio (inclusivo) è buona cosa ma non risolve il problema perché?
    Abitualmente si dice…che “basta Il confronto / dialogo !” Non basta neppure questo. Serve metodo perché funzioni davvero. Ovvero la capacità di qualcuno di far costruire una visione più grande di quella che ciascun soggetto ha e che nell’includerle faccia vedere un percorso che renda i conflitti irrilevanti, entro un disegno più denso e grande. A vantaggio di tutti/dei più.
    E il primo lavoro culturale è quello di allargare lo sguardo ai soggetti, in modo che smettano di svolgere una azione di rappresentazione del sé, tanto che spesso pare più che vogliano dimostrare di esserci e comparire (a maggior ragione se ci sono i media). Insomma, prima dell’azione del facilitatore è opportuno che le persone che entrano nella sala cambino punto di vista, oppure, le probabilità di trovarsi su discorsi già percorsi, di mediazione banale sono alte. Far capire ai soggetti come il loro convivere è un ecosistema, e come fanno parte di un ambiente più grande. Dall’altra parte però devono poter decidere/influenzare davvero la realtà su cui dialogano In un processo partecipato di questo tipo emergono regole e leader, naturali.

    La differenza tra performance di katrinalist e macchina pubblica risiede anche nel fatto che le persone siano motivate e felici di quello che stanno facendo e che lo possano fare come ritengono opportuno. Il margine di libertà (che non esiste nelle grandi organizzazioni burocratiche) è quell’elemento emotivo che permette al singolo di esprimere tutto sé stesso e non di limitarsi a quel pezzetto di realtà che abitualmente gli viene attribuito, gli permettersi di esprimersi come un intero, non come una parte di sè. Questo elemento di riflessione implica un profondo ripensamento del modus operandi delle organizzazioni che va ben oltre il tema dell’orario di lavoro, del tipo di contratto.… coinvolge direttamente i margini di libertà/responsabilità. Anche in questo caso è la mobilitazione degli intangibili extra organizzazione ed intra organizzazione a generare processi emergenti e soluzioni migliori….ma il discorso si amplierebbe talmente..che servirebbe un altro libro

    All’esempio wikipedia e tempio shinto potresti aggiungere come funziona il ns cohousing..ma forse è opera troppo giovane per meritare una citazione…

    Valorizzerei di più l parola sintesi…delle posizioni, del negoziato etc…altrimenti sembra che i processi partecipati siano solo un gran casino di voci e di mediazione. Manca peò nel tuo ragionare il metodo, il come si fa la sintesi . se c’è- oppure dipende solo dalla capcità e dall’abilità dei partecipanti? è un punto dirimente..che di certo in molti hanno sperimentato..e no so quanti possono dire con successo almeno parziale. Per me la sintesi si fa allargando il livello della discussione ad un campo più ampio entro cui tutte le contraddizioni devono trovare un posto, non si può rigettare nessun elemento, almeno che il portatore stesso lo elimini. Sintesi e consenso. Perché si possa definire il risultato una sintesi degli elementi di partenza) ovvero tutti devono essere d’accordo al 100% sulla scelta/azione/documento finale. Non ho scritto che è facile farlo sempre….

    Il valore della conoscenza..quali forme di remunerazione? Possiamo pensare che le strutture siano finanziate (il personale) mentre tutti questi collaboratori wiki esterni che danno grandi idee ed apporto di conoscenza no? Non è profondamente ingiusto e limitante anche per i beni pubblici stessi? Valorizziamo il tempo e la posizione strutturale non la qualità e la conoscenza, si dovrebbero valorizzare i contributi di idee …una riunione in cui si produce conoscenza (vera) ha valore come in quella che produce un prototipo, un contratto, un mattone…..perchè no? Diversamente riduciamo il potenziale di conoscenza a chi e quando se lo possono permettere….o fanno sacrifici enormi per dare il loro contributo. (outsourcing gratuito di intelligenza?)

    “I partecipanti si autoselezionano.”
    Verrà pubblicato a breve un mio paper sulla corporate social responsibility in cui sostengo proprio questo..che perché l’azienda sia responsabile deve farsi ispirare dalla società, non fare filantropia, e quindi aprire sui propri spazi un dibattito pubblico totale sulle proprie strategie non solo sullo sviluppo dei prodotti…o della pubblicità. Questo comportamento può generare valore vero e ridurre i rischi di conflitto.

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    1. Alberto Autore articolo

      Simone, quante cose. Delle cose che mi scrivi, la più importante sembra essere quella di “come si fa la sintesi”. Questo tema è trattato in un altro capitolo, il 2 (lo stesso in cui cito il tempio shinto di Ise); se ci guardi trovi anche un commento di Tito che dice che nemmeno lui è molto convinto dalla mia trattazione del tema.

      La mia risposta più o meno è che la sintesi non la fa nessuno. Il consenso emerge: non emerge perché le singole persone convergono su un’unica soluzione, ma perché converge la conversazione. Tipicamente qualcuno dice una cosa, e tutti dicono “ma certo!” e si mettono a discutere della cosa che ha detto lui, ignorando completamente le posizioni espresse prima. Chi quelle posizioni aveva proposto in genere non cambia idea, ma esse vengono accantonate, nel senso che non trovano più persone disposte a difenderle.

      Quanto al modello di remunerazione, è evidente che dobbiamo inventare un senso di giustizia per queste economie non monetarie, o non completamente monetarie. Io, per esempio, su Wikipedia mi regolo così: io uso Wikipedia spesso, e non pago. Però ogni tanto do un piccolo contributo, correggendo errori che trovo in una voce, e in questo modo restituisco una parte di valore al sistema. Una volta ho scritto un’integrazione più corposa a una voce. Mi funziona, e non mi sento uno sfruttatore senza scrupoli.

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      1. simone de battisti

        Ciao Alberto,

        tuo lavoro procede in età, spienza e grazia, per parafrasare una antica frase….e mi permetto solo una precisazione perchè mi è punta vaghezza ci fosse un fraintendimento in merito al tema della remunerazione. Penso, infatti, che ci sia molta generosità nel contribuire alle politiche pubbliche wiki, così come in wikipedia ed in altri social media di questo tipo e che sia bello/giusto così, le “remunerazioni simboliche” chui accenni…sono grandi gratificazioni. Però se si arrivasse, come auspichi, a far partecipare i cittadini ai processi legislativi. (con un allargamento di quantità/qualità e rilevanza del loro contributo)..beh sarebbe, a mio modesto giudizio, un elemento su cui riflettere attentamente. per fare in modo che oltre a persone con un interese diretto o con uno sponsor, possano mettere il massimo di energie e di capacità davvero tutti quelli che hanno qualcosa di sensato da dire, e che, il costo temporale di un impegno serio su questo non diventi escludente di alcuni. ne avremmo a perdere tutti.
        certo affermato il principio generale, per l’implementazione sarebbe forse opportuna una wiki riflessione….
        un caro sauto e a presto, inizio luglio?
        ciao
        Simone

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  13. Anna Natali

    caro alberto,
    mi è venuto in mente qualche commento leggendo il capitolo 1.

    La preferenza per le grandi decisioni

    Il punto di vista proposto può forse essere del decisore pubblico nazionale che programma l’allocazione delle risorse tra ministeri e regioni, o tra settori di intervento. Con più difficoltà invece sembra possa essere riferito al decisore pubblico come tale. In alcune sedi il dibattito si concentra su grandi scelte o grandi spostamenti di risorse, è vero. Ma in molte altre privilegia scelte circoscritte, specifiche, che premono a interessi sociali o territoriali definiti di cui il decisore per una serie di ragioni si rende interprete. La preoccupazione per oggetti definiti può deformare lo stesso esercizio di programmazione: quando le autorità pubbliche usano la programmazione come mezzo attraverso il quale provvedere le risorse che interessa acquisire per gli oggetti privilegiati, non come cornice che di per sè e nel suo insieme proponga una composizione accettabil e positiva degli interessi (positiva in rapporto alla dinamica che si ritiene sia da favorire in nome dell’interesse generale). Questa caratteristica del processo di decisione (inlcusa la distorsione della programmazione) aumenta man mano ci si avvicina al territorio? Sembrerebbe di no. Anche il governo centrale può decidere di spostare risorse già destinate a un disegno generale di programmazione, per finanziare singole iniziative. Di questo comportamento abbiamo avuto esempio di recente, in relazione alla programmazione del FAS.

    La solitudine dell’amministratore

    MI incuriosisce la rappresentazione del rapporto tra il presidente della Basilicata e la sua amministrazione. I presidenti di regione, se sono buoni politici e con un rapporto efficace col territorio – e molti lo sono e ce l’hanno, attraverso canali sia istituzionali sia di partito – hanno effettivamente una percezione abbastanza chiara della qualità o mediocrità dell’azione svolta, e tendono a occuparsene attivamente sia scegliendo le persone ai vertici dell’amministrazione sia progettando gli stili di governo, la comunicazione, il grado di inclusività con cui interagire con i principali stakeholder. Non si tratta quindi di decisori disincarnati che compiono le grandi scelte e poi lasciano fare all’amministrazione. La programmazione (anche nel senso non esemplare indicato sopra) e l’attuazione sono presidiate palmo a palmo. Ne deriva un ulteriore sovraccarico per il sistema decisionale pubblico. Oltre alla componente messa in evidenza da Bobbio, relativa alla numerosità di soggetti titolari di competenze e di stakeholder da coinvolgere per evitare intoppi, si aggiunge la componente di rischio politico che il decisore sente di correre, una componente che sulle questioni più delicate lo porta a non delegare affatto all’amministrazione ma a tentare di esercitare un controllo diretto. Con la conseguenza che l’amministazione resta in attesa di direttive che non vengono.

    Questa riflessione riguarda quindi il rapporto tra politica e amministrazione, gli obiettivi a cui la politica si lega, la libertà dell’amministrazione nel scegliere il modello d’azione e anche, senza troppo rischio per la politica, sperimentare su materie di interesse non marginale.

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    1. Alberto Autore articolo

      Anna! 🙂

      Sulla tua prima osservazione mi viene da pensare che forse non ho capito bene come usare la parola “programmazione”. Io la penso come l’indicazione di un obiettivo generico e l’appostamento di risorse per raggiungerlo: un po’ come fa il capitano di un galeone nei vecchi libri di pirati, che dice “virate di bordo, ciurma!”, ma non specifica tempi, raggio e velatura della virata. Lui vuole virare, come questo avvenga sono problemi dell’equipaggio. La metafora mi piace anche perché il capitano indica una direzione in cui andare: “rotta a nord-est”! Con questa idea (che magari è sbagliata) tanto la famosa riga e mezzo dell’APQ di Visioni Urbane quanto la decisione di riprogrammare le risorse FAS a inizio 2009 diventano decisioni di programmazione. E’ molto sbagliato?

      Mah, che dire: tu lavori per una Regione, quindi hai una percezione molto più chiara della mia di ciò che avviene lì. Quanto a Visioni Urbane, mi è parso molto chiaro che lì l’iniziativa è stata sempre tenuta dai tecnici, che si sono fatti carico di convincere il presidente e “vendergli” l’iniziativa. Poi, naturalmente, i tecnici hanno potuto comportarsi così perché ne hanno il permesso, e dunque si muovono all’interno dello stile amministrativo che il presidente ha voluto, ma questo è un altro discorso. In tre anni di Visioni Urbane, gli incontri con il presidente si contano sulle dita di una mano. E stiamo parlando di uno che è stato rieletto con oltre il 60% dei voti, quindi certamente un buon politico con un rapporto forte con il territorio! Dici che quello che ho visto io è un’eccezione?

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  14. Francesco Silvestri

    – Non definirei sociologo Bobbio; è un prof di Scienza Politica, esperto di politiche pubbliche,
    al limite lo si può definire “politologo” (orrendo, I admit); ripeti “l’errore” alla nota 71
    – Quando parli di Strumenti per la decisione inclusiva, fai un salto logico che si nota: chi ti dice che per Italia.it abbiano attivato qualche tecnica negoziale? Qualcuno potrebbe obiettare che è fallito proprio perché è stato deciso dall’alto
    – la correlazione con il crollo della bufala campana non è di sola immagine, ma più robusto: saltò fuori che nell’agro di BN (dove pascolavano le bufale) la camorra spargeva i rifiuti e che di conseguenza la diossina si ritrovava nella mozzarella.
    – Metterei la sigla per il FAS, il Fondo per le Aree Sottoutilizzate,
    – Hai un cacofonico “decisione di programmazione, che caratterizza decisamente ”

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    1. Alberto Autore articolo

      Su Bobbio politologo hai ovviamente ragione, me l’ha scritto anche Andrea Ginzburg. Circa Italia.it, la decisione era stata presa in un comitato interministeriale, quindi in modo trans-istituzionale. Il problema si pose poi, a quanto ho capito, quando alcune Regioni fecero muro.
      Sulle mozzarelle viene fuori un casus belli: Rosaria, qui su, sostiene che le mozzarelle non si producono a Benevento, ma piuttosto nel casertano! Il punto, comunque, tiene anche se solo alcuni produttori di mozzarello non interessati dalla presenza di diossine nel latte sono comunque stati danneggiati dal fiasco napoletano.
      Accetto le altre correzioni, grazie!

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  15. robertina

    Paragrafo “La preferenza per le grandi decisioni di programmazione”.

    Nel parlare di “redazione dei bilanci preventivi pubblici” citi la legge finanziaria. …nei miei (vaghi) ricordi di Contabilità di Stato è la Legge di Bilancio a definire il bilancio di previsione dello Stato (fra l’altro credo che la “legge finanziaria” si chiami oggi “legge di stabilità” dopo la riforma della legge di contabilità e finanza pubblica, L. 196/2009…ma è da verificare!).

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      1. robertina

        No, Alberto, ti sbagli: mi è venuta la curiosità (i miei ricordi di contabilità di stato continuavano a dirmi il contrario) e sono andata a controllare.

        Il bilancio consuntivo è contenuto nel RENDICONTO GENERALE, in particolare nel “Conto di bilancio” che è strutturato come il Bilancio di previsione e, grazie a ciò, consente di confrontare i risultati della gestione finanziaria con le previsioni.

        Il BILANCIO DI PREVISIONE è una legge diversa dalla legge finanziaria (in realtà si distingue anche tra bilancio di previsione annuale e pluriennale, che ha natura programmatica): per intenderci la legge di bilancio è quella di cui parla l’art. 81 della Costituzione (1. Le Camere approvano ogni anno i bilanci e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo. … 3. Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese….). Per questo si parla di legge “formale”, nel senso che in essa vengono indicate le entrate e le spese previste e, in sostanza, le risorse finanziarie che il Governo potrà/dovrà (in quanto “autorizzato” e “vincolato” dall’approvazione parlamentare) destinare alla sua azione politica nel successivo anno finanziario, senza che però con essa si possa incidere sulla normativa vigente introducendo nuovi tributi o nuove spese.
        Il disegno di legge di bilancio è presentato in Parlamento entro il 15 ottobre di ogni anno e deve essere approvato entro il 31 Dicembre (in mancanza si procede con l’esercizio provvisorio): in passato, peraltro, anche i termini per la presentazione del disegno di legge di bilancio e di quello della finanziaria erano diversi.

        Proprio per superare il limite del comma 3 dell’art. 81 Cost. una riforma del 1978 (L. 468) ha introdotto la LEGGE FINANZIARIA (di solito rubricata “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato”: di qui, forse, la confusione) per consentire di adeguare la normativa alle esigenze mutevoli delle politiche di bilancio; poiché però, in questo modo, in Parlamento si finiva per infilare in finanziaria “la qualunque” (si parlò di cd. finanziarie “omnibus”), nel 1988 (L. 362) si è stabilito tassativamente il contenuto della l. finanziaria e il divieto anche per essa di introdurre nuove entrate e/o nuove o maggiori spese (la L. 208/99, poi, limiterà tale divieto all’introduzione di “norme di delega o nome di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio”): le modifiche legislative necessarie vennero da allora affidate ai cosiddetti “collegati alla finanziaria”.
        In tal modo, la L finanziaria (cito dal sito del MEF http://www.rgs.mef.gov.it/VERSIONE-I/Bilancio-d/LA-LEGGE-N1/index.asp).

        Ti confermo anche che la “legge finanziaria” oggi si chiama “legge di stabilità”:
        v. art. 52, comma 2 L. 169/2009. .
        Qui trovi la L. 196/2009 http://www.parlamento.it/parlam/leggi/09196l.htm

        Tutto questo a voler essere più precisi (troppo?!??): ma, insomma, dopo questo gran “pippone”, direi che in termini “atecnici” puoi comunque riferirti alla legge finanziaria (anche perché è quella di cui, in genere, si sente parlare…)

        BACI,
        r.

        Replica
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