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Una politica antitrust per la cultura: una modesta proposta

A sei mesi di distanza, non riesco a smettere di pensare al brutto affare del Premio Grinzane Cavour (Wikipedia). La storia in sintesi è questa: fondato nel 1982 per avvicinare i giovani alla lettura, il premio è cresciuto molto, gemmando diverse iniziative internazionali. Si tratta di un tipico caso di successo che chiama altro successo: più il premio cresceva, più i suoi finanziatori si mostravano generosi, orgogliosi di contribuire a un’esperienza di eccellenza nel campo degli eventi letterari. Si è stimato che Ministero della cultura, Regione Piemonte, Provincia e Comune di Torino, fondazione bancarie, grandi aziende abbiano finanziato il Grinzane Cavour per circa 23 milioni di euro in 27 anni – a cui vanno aggiunti altri 6 milioni destinati a restaurare la sua sede, il castello di Costigliole d’Asti. A quanto pare, negli ultimi anni il premio letterario più importante in Piemonte riceveva quattro milioni e mezzo di euro l’anno. In questi 27 anni al timone è stata sempre la stessa persona, il fondatore Giuliano Soria.

Dopo il suo arresto nel marzo 2009, Soria ha confessato di avere stornato 915mila euro a scopi privati. Ma non è nemmeno questo il punto. Il punto è che con gli altri 28 milioni di euro il Grinzane Cavour ha finanziato – legalmente – eventi come questo viaggio per giornalisti, che alloggiano al Metropol di Mosca tra lussi sfrenati (una ragazza in abito da sera e guanti bianchi di raso che suona l’arpa mentre fanno colazione al mattino?). Con i costi di quel viaggio si sarebbe potuto fare un discreto premio letterario alternativo al Grinzane.

Soria è un uomo disonesto; la maggior parte dei suoi colleghi non lo è, ma questo non previene gli effetti distorsivi del meccanismo “successo chiama successo” – almeno quando la crescita è finanziata da contributi e donazioni, anziché dal mercato. Nel mondo della cultura ho visto spesso un soggetto crescere molto, fino a monopolizzare l’attenzione dei finanziatori, e quindi a bloccare la crescita di tutti gli altri. In molte città e regioni questi soggetti diventano gli interlocutori privilegiati delle istituzioni: Fondazione Arezzo Wave nella Arezzo degli anni 90 sulla musica, Nicoletta Mantovani (vedova Pavarotti) a Modena per i grandi eventi, Slow Food nel nord Italia per il cibo, e così via. In questi territori, se qualcuno propone un’idea che invade il campo di questi grandi si sente rispondere “Bell’idea! Perché non ne parli con Arezzo Wave” (o Mantovani, o Slow Food, o Soria)?” La parola d’ordine è sempre “razionalizzazione”, per “evitare di farsi concorrenza da soli”.

Io sono un economista industriale, e per me la concorrenza è una cosa buona. Credo che, se in Piemonte si fosse permesso ad altri premi letterari di crescere, Soria avrebbe dovuto limitare gli eccessi, o perdere i suoi finanziamenti a favore di altri organizzatori più efficaci. Mi permetto di suggerire una politica antitrust per la cultura. Gli strumenti si trovano: per esempio, si potrebbe introdurre una regola che dice “nessun soggetto può ricevere più del X% dei contributi del Comune (o della Regione) alla cultura” Oppure si potrebbe subordinare la concessione di contributi pubblici al rinnovo dei gruppi dirigenti delle iniziative culturali. Più che di strumenti, credo si tratti di assumere la distruzione creativa indotta dalla concorrenza (quando funziona) come un valore e un obiettivo per le politiche pubbliche. Non è facile, ma va fatto: temo che ci siano molti altri grandi e piccoli Soria, là fuori, al riparo da minacce concorrenziali e alle prese con tentazioni di tutti i tipi.

Le politiche pubbliche sono conversazioni

Il progetto Visioni Urbane – che apre in questi giorni una nuova fase – mi ha insegnato davvero molto. Il problema che avevamo, in sintesi, era questo: un atto amministrativo obbligava la Regione Basilicata a spendere 4,3 milioni di euro per fare “spazi laboratorio creativi”. Queste risorse erano one-shot e in conto capitale: le spendi all’inizio in struttura (muri, impianti, etc.), poi non ne hai più. Non c’erano risorse di spesa corrente per finanziare le attività. Come evitare che questi spazi laboratorio venissero inaugurati e subito chiusi?

La risposta poteva essere solo “facendo impresa culturale”. Gli spazi dovevano diventare una piattaforma per la produzione, da parte dei creativi lucani, di prodotti e servizi destinati al mercato della cultura, e che fossero in grado di intercettare una domanda pagante. Bene. Ma di cosa si stava parlando? Musica? Cinema? E quale musica, quale cinema? Da vendere a chi? Da produrre come? Da avviare a quali canali di distribuzione? Da comunicare come? E’ stato subito chiaro che il piccolo gruppo di tecnici messi insieme dal DPS e dalla Regione non aveva alcuna speranza di darsi queste risposte da solo. L’unico modo di rispondere a queste domande era fare emergere le soluzioni, mobilitando la conoscenza incorporata nei creativi lucani stessi.

Non si trattava di “fare una ricerca” per estrarre conoscenza dai creativi lucani. La cultura in Basilicata, come spesso in Italia, è in parte preponderante finanziata dal settore pubblico. Il mercato coincide con l’assessore che firma la delibera. I creativi, quindi, non conoscono i mercati, anzi ne hanno paura. Si trattava di avviare un processo che producesse contemporaneamente la consapevolezza del problema (il denaro pubblico per la cultura è poco e inaffidabile) e dell’esistenza delle sue soluzioni (immaginare prodotti che “funzionano”, che “il pubblico vuole”). Percepire solo il problema avrebbe significato produrre nei creativi una reazione di chiusura, mentre noi avevamo bisogno che loro fossero abbastanza ottimisti e avventurosi da fare innovazione.

Per coinvolgere i creativi al massimo abbiamo bisogno di trattarli alla pari, come un soggetto della politica economica, e non come un suo oggetto. Visioni Urbane in quanto policy si è strutturata come una conversazione, proprio alla Cluetrain Manifesto. E una soluzione – articolata, nel merito, assolutamente impensabile all’inizio del processo – è emersa. Da questa esperienza ho scritto un breve saggio in inglese, Policy as conversation, che presenterò a eChallenges 2008, a Stoccolma, il 24 ottobre. Lo trovate qui.

Policy is conversation

The Visioni Urbane project – just now entering a new phase – taught me a lot. Our problem, in a nutshell, was this: a legacy decision bound the Basilicata regional administration to spend €4.3 million to build “creative workspaces”. These funds were to be “one shot” and earmarked for capital expenditure: we were to spend them in bricks-and-mortar at the beginning of the process, and then there would be no more. There were no ongoing resources for activities to take place therein. How to prevent creative workspaces closing doors immediately after their launch?

The answer could only be “by turning to the market”. The workspaces would become a platform for Basilicata creatives to invent, produce and bring to cultural market, products, products that could attract paying customers. Fine. But what products? Film? Music? And which kinds of film and music? Who would be their customers? How to produce them? Through which channels to distribute them? It was crystal clear that the small advisory group put together by the central government and the regional administration had no chance of solving the puzzle on its own. The only way of doing it was to mobilize the fine-grained knowledge embedded in the Basilicata creatives themselves.

The issue was not to “do research” to extract this knowledge form local creatives. Culture in Basilicata is predominantly financed by the public sector, a common situation in Italy. The market coincides with the local politician who greenlights the project. Local creative people, therefore, have almost no experience of markets: they actually tend to be scared of them. We needed a process that would produce at the same time the awareness of both the problem (public sector funding of cultural activities is scarce and unreliable) and the possible solutions (thinking up cultural products that are “hot”, that “people want”). Perception of the problem without its solutions would produce a defensive reaction, whereas we needed creatives to be optimistic and adventurous enough to innovate.

To get creatives fully involved we needed to treat them as equals, as a subject – as opposed to the target – of policy. So we structured Visioni Urbane as a conversation, much in the Cluetrain Manifesto spirit. And a solution – quite sophisticated, hand-on and utterly unconceivable at the beginning of the process – emerged. I tell the tale in a short essay, Policy as conversation,, to be presented at eChallenges 2008, in Stockholm, on October 24th. You can get it here.