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Con Beth Noveck a Roma: storie parallele del governo Wiki


Seguo e ammiro da anni il lavoro di Beth Noveck. Americana, professore a NYU, blogger (il suo blog è una delle mie fonti più preziose), Beth ha inventato e diretto Peer to Patent, il primo progetto 2.0 dell’amministrazione federale americana. Peer to Patent è entrato nel radar di Barack Obama, che lo ha molto lodato quando era un candidato alle elezioni presidenziali; quando si è insediato alla Casa Bianca, ha chiamato Beth per guidare il progetto Open Government della sua amministrazione, con il titolo di Deputy Chief Technology Officer. Nel 2009 ha pubblicato un libro che mi è stato utilissimo (stavo lavorando al mio Wikicrazia), dal titolo The Wiki Government, in cui racconta il progetto e come esso permetta di ripensare l’attività amministrativa.

Il mio percorso ricorda a tratti una specie di modello in scala ridotta di quello di Beth: il blog, il primo progetto 2.0 dell’amministrazione centrale italiana, il libro. Da circa un anno ci confrontiamo spesso; generosamente, ha collaborato al mio libro, scrivendo anche un pezzo della prefazione. Per questo motivo sono molto orgoglioso e contento di potere fare una cosa con lei: terremo i due keynotes in una discussione pubblica sulla fase due del governo wiki, quella del passaggio da sperimentazione cool a modalità standard dell’azione amministrativa. L’incontro si terrà il 26 maggio a Roma, alla Sala Capitolare del Senato delle Repubblica alle 16.30, e sarà presieduto dal vicepresidente del Parlamento Europeo Gianni Pittella. Al timone organizzativo sta il bravissimo Fabio Maccione della Fondazione Zefiro (grazie!), e siete tutti invitati, davvero di cuore! Iscrizioni obbligatorie (serve un accreditamento per entrare al Senato) qui. Giacca e cravatta obbligatorie per gli uomini. Dovrò farmi prestare una cravatta da qualcuno anch’io!

Il sindaco nel suo labirinto

Molti sono i fallimenti annunciati dell’azione amministrativa, quelli immediatamente evidenti a tutti tranne che ai responsabili: dai rifiuti di Napoli, al ponte di Messina, alla legge Pisanu con i suoi registri cartacei, a tutti noi è capitato di leggere annunci trionfali di nuovi progetti pubblici e pensare “non funzionerà mai”. Le persone che prendono queste decisioni, evidentemente, sono di parere opposto. Come si spiega questa discrepanza? L’unica spiegazione che riesco a darmi è che molti decisori pubblici vivano in una bolla informativa del tutto scollegata dall’ambiente in cui viviamo voi e io: semplicemente, non hanno accesso ad alcune informazioni importanti. Se è così, probabilmente queste persone non sono davvero qualificate a prendere decisioni di interesse pubblico.

Prendiamo, per esempio, il progetto Ambrogio del Comune di Milano. Funziona così: alcuni soggetti (consigli di zona, vigili di quartiere, società partecipate) hanno un palmare (in tutto 200), e lo usano per segnalare i luoghi gli interventi di manutenzione e di decoro urbano. La segnalazione viene scritta nelle basi dati degli uffici competenti, che provvedono a risolvere il problema. Il Comune intende assegnare altri 150 palmari a “cittadini sentinella”.

Questo progetto ha problemi seri.

  1. è tecnologicamente sbagliato. Perché incorporare questa funzionalità in un oggetto fisico? Bastava scrivere un software per gli smartphone. Questo avrebbe messo chiunque abbia uno smartphone in condizioni di partecipare, senza costringere i poveri cittadini sentinella a portarsi in tasca un altro aggeggio oltre al loro telefono, tenerne le batterie cariche e il software aggiornato etc.
  2. è socialmente sbagliato: non abilita l’autoselezione. Solo i soggetti scelti top-down dal Comune possono fare segnalazioni. Avrebbe avuto più senso abilitare tutti, e lasciare che ogni cittadino decidesse da sè se e quando partecipare. Grandi numeri nella partecipazione potenziale portano a un impatto alto anche quando i tassi di partecipazione sono bassi, come avviene quasi sempre. Così molti contributi potenziali andranno perduti, e molti di quei palmari rimarranno a prendere polvere nei cassetti.
  3. ha funzionalità inutili, come la possibilità di inviare foto. Se qualcuno abbandona una bicicletta incatenata a un palo, caricarne la foto sui server del Comune non serve a nulla se non ad appesantire il sistema con algoritmi di riconoscimento immagini. Un modulo in cui caricare informazioni testuali è molto più facile da gestire per l’ente che deve ricevere la segnalazione. Queste informazioni si possono scrivere da casa, quindi a che serve il palmare?
  4. è poco trasparente. Al momento in cui scrivo – e nonostante le richieste di informazioni della società civile –  Ambrogio non ha un sito; non si sa quanto costi; non si sa su quali tecnologie si basi. Visto che il partner tecnologico è Telecom Italia, non esattamente un campione del software libero, non mi aspetto che sia basato su tecnologie aperte. Se è così,
  5. è in contrasto con il buonsenso e con il Codice dell’Amministrazione Digitale, che prevedono il riuso delle tecnologie. Per esempio, il Comune arebbe potuto usare FixMyStreet, progetto open source britannico già adottato anche in Norvegia. I norvegesi l’hanno interfacciato con il database geografico di OpenStreetMap, anch’esso in open source. Il codice c’è già e funziona, sarebbe bastato tradurre i menu in italiano! Oppure chiedere al Comune di Spinea il suo sistema, a cui magari aggiungere, con una spesa da qualche migliaio di euro, una app per gli smartphone.
  6. è costoso – anche se, vista la mancanza di trasparenza, non sappiamo esattamente quanto. Alcuni media hanno parlato di 400 mila euro.

La cosa che fa più impressione di questa sequela di errori è quanto sarebbe stato facile evitarla. Una ricerca su Google avrebbe consentito di trovare FixMyStreet e Spinea. Alzare lo sguardo sulla società civile di Milano avrebbe permesso di incontrare persone competenti, che lavorano sulla tecnologia come agente abilitante di una cittadinanza più attiva, come l’associazione Green Geek e gli animatori di NetLAMPS. Valorizzarne il contributo di questi cittadini appassionati di tecnologia sarebbe stato un ulteriore elemento di promozione della cittadinanza attiva. E invece no: nella nostra Milano iperconnessa, i responsabili di Ambrogio sono riusciti in qualche modo a evitare di entrare in contatto con queste informazioni e con i concittadini che avrebbero potuto aiutarli. Purtroppo, questa è una situazione frequente.

Che un sindaco non sia esperto di tecnologia va benissimo: avrà altre esperienze, altri punti di forza da mettere a disposizione dei cittadini. Ma che nessuno dei suoi collaboratori sia in grado di fare una ricerca su Google o di telefonare a qualcuno che, in città, conosce queste cose prima di spendere 400mila euro dei contribuenti, questo lo trovo inaccettabile. Forse sarebbe il caso di pensarci, in vista delle prossime elezioni.

PS – A me incuriosisce anche il famoso palmare. Voi riuscite a capire che roba è?

PPS – Il titolo del post è un omaggio a García Márquez.

Do you speak networks? (Italiano)

Più uso Internet, più mi affascinano le reti, perché si comportano in modo inaspettato, controintuitivo. L’ordine sembra emergervi dal caos in modo quasi magico. Considerate il web: grandi masse di persone che non si conoscono, prive di strutture di comando e di professionalità nel produrre e gestire informazione, dovrebbero dare luogo a una specie di blob, no? E invece, infallibilmente, persone e contenuti finiscono per autorganizzarsi in modo da essere a pochi clicks (spesso uno solo) le une agli altri. Costruire una mappa esaustiva di Internet è impossibile, ma trovarvi qualcosa è abbastanza facile. È come mettere una mano nel proverbiale pagliaio e tirarne fuori un ago al primo tentativo, tutte le volte che cerchiamo un ago.

Più studio le reti e più mi sorprendono per la loro capacità di organizzare l’informazione, apparentemente senza nessuno sforzo. Leggere la storia dell’esplorazione scientifica delle reti sociali dà quasi le vertigini. Stanley Milgram affida a cittadini americani scelti a caso lettere per altri cittadini americani, sempre scelti a caso, e un numero sorprendente di esse arriva a destinazione in pochi passaggi (i famosi sei gradi di separazione). Mark Granovetter scopre che i conoscenti casuali sono più efficaci degli amici intimi e dei familiari nel trovarci lavoro . Fredrik Liljeros studia le reti di rapporti sessuali e conclude che un piccolo numero di persone molto promiscue impedirà la scomparsa dell’AIDS. Nathan Eagle predice la prosperità delle comunità locali a partire da come i suoi abitanti dividono il tempo che passano al telefono (gli abitanti delle comunità più povere passano una quota alta del proprio tempo di chiamata con una o poche persone). Tutti questi risultati sembrano indipendenti dalle persone che compongono le reti: in quasi tutti i modelli i nodi sono identici tra loro. L’unica cosa che li distingue – e che genera le proprietà straordinarie dei modelli – è la struttura dei links. Roba che sembra uscita da un corso di laurea, sì, ma di Hogwarts.

Mi sono convinto che le proprietà delle reti possano contribuire a spiegare molti fenomeni di cui facciamo esperienza quotidiana, ma che non capiamo – e che spesso ci danno ansia. Perché abbiamo la sensazione di essere circondati da imprenditori di successo brillanti e creativi (sebbene numericamente queste persone non siano poi tante)? Perché il file sharing in peer-to-peer ha messo alle corde l’industria musicale? Perché Wikipedia funziona così bene?

Il mio Sacro Graal è di domare le reti sociali online, forgiandole in uno strumento potente e preciso per progettare e attuare le politiche pubbliche. L’ho già fatto con Visioni Urbane e Kublai, ma ho dovuto fare molte scelte sulla base del mio istinto. È andata bene, ma perché questo diventi un metodo generalizzabile ho bisogno di capirne molto, molto di più. E quindi studio la lingua delle reti: in questo periodo vado spesso all’European University Institute di Firenze per frequentare il corso di Complex Social Networks di Fernando Vega-Redondo. È un po’ dura (mi alzo alle cinque del mattino, perché Fernando fa quasi sempre lezione alle 8.45 precise), ma pazienza. Io questa cosa la devo assolutamente capire.