Cittadini, non target group: perché le istituzioni pubbliche NON dovrebbero ascoltare le conversazioni in rete

Su CheFuturo Michele Cignarale suggerisce, se capisco bene, di ascoltare le conversazioni sui social network per interpretare gli open data, analizzandole poi con tecniche di etnografia digitale.

Sono in rispettoso ma netto disaccordo. A parte il fatto che “interpretare gli open data” non vuol dire niente (dati diversi si leggono in modo diverso), io sostengo che gli ambienti di partecipazione alla discussione pubblica devono essere chiaramente delimitati. Io devo sapere che sto partecipando mentre lo faccio. E devo avere il tasto “spegni la partecipazione” sotto il mio controllo. Facebook e compagnia sono vissuti da molti come spazi semiprivati, un po’ come essere al bar con gli amici: e il governo che ascolta le conversazioni tra amici al bar è una pessima idea. Perché:

  1. non si permette al cittadino di partecipare al meglio di quello che sa fare. Io trovo utile usare le audizioni in parlamento come metafora per la partecipazione democratica online. Se voi o io veniamo invitati in Parlamento per esprimere un’opinione su qualcosa, ci prepariamo; chiediamo consiglio alle persone che stimiamo; ci mettiamo una giacca decente. Lo facciamo perché vogliamo fare bella figura.
  2. rappresenta un’invasione di privacy. Di fatto è la stessa cosa che fa NSA, senza nemmeno la scusa della sicurezza.

Quelli che dicono “la partecipazione dei cittadini va raccolta dove i cittadini già sono, cioè (in Italia) su Facebook” commettono un errore metodologico. L’errore consiste nel pensare che la partecipazione democratica debba essere rappresentativa del comportamento medio dei cittadini. Non è così: la partecipazione democratica è concepita dai padri fondatori come rappresentativa dei cittadini al loro meglio. Questo è possibile solo se la partecipazione è sporadica: nessuno può dare il meglio 24/7.

L’idea è così palesemente fuori squadra che mi ha suggerito una domanda: da dove viene? Chi può mai pensare che un ascolto continuo del cittadino (anche quando sta in ciabatte) sia un contributo di progresso? Facile: gli uomini e le donne del marketing. Il marketing lavora meglio quando le persone non alzano difese intellettuali. Preme i pulsanti degli istinti; lavora spesso più alla pancia e al basso ventre che alla testa e al cuore. Non conosco Michele Cignarale, ma dal suo sito sembra occuparsi, guarda un po’, di marketing e comunicazione.

Non so molto di marketing. A giudicare dal suo peso preponderante nell’Internet italiana (il discorso un po’ diverso per paesi con una cultura ingegneristica più solida) mi pare che sia una disciplina consolidata. Ma il suo obiettivo è il profitto privato, mentre quello della partecipazione democratica è il bene collettivo. Consiglierei molta più cautela nell’usare l’azienda come metafora di una democrazia, e del cliente (o devo scrivere “target”?) come metafora del cittadino. Mi pare che queste metafore abbiano già fatto abbastanza danni in Italia.

8 pensieri su “Cittadini, non target group: perché le istituzioni pubbliche NON dovrebbero ascoltare le conversazioni in rete

  1. Ida

    Come sai, ho il massimo rispetto e stima delle tue opinioni. Ma c’é una cosa che non mi é chiara, e non mi é stata chiarita nemmeno dal post di Michele Cignarale. Perché chiamate “ascolto delle conversazioni”, come se fossero intercettazioni, la lettura dei commenti su Facebook? Sappiamo tutti benissimo che la privacy su FB non esiste, se scrivo qualcosa do per scontato che tutti possono leggerla. Non capisco perció il paragone con la NSA…

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  2. Alberto Autore articolo

    Ida, non tutte le conversazioni – anche se non sono strettamente private – sono partecipazione democratica. Se io e te chiacchieriamo al bar o per strada siamo in luoghi pubblici: non abbiamo diritto alla protezione legale della privacy come l’avremmo se ci scrivessimo lettere (la cui privacy è inviolabile ai sensi dell’articolo 15 della Costituzione). Eppure, c’è una differenza tra dirci cose che non sono segrete e trovare quelle stesse cose a fondamento di decisioni collettive. Al bar la battutaccia, l’espressione di sconforto o perfino il “piove, governo ladro” sono molto comuni; eppure, nove volte su dieci, le persone sceglierebbero di dire cose più nobili e meditate se venissero audite in parlamento. Io sostengo che la partecipazione più vera è quella del parlamento; e rivendico di avere io il pulsante “record”, che mi consente di scegliere quando sto partecipando e quando sto cazzeggiando.

    Un parallelo che mi viene in mente è la famosa storia del giovane laureato che, al colloquio di lavoro, si trova di fronte alle foto da ubriaco che ha postato qualche anno prima su Facebook. Il dirigente che gli fa il colloquio si rende colpevole di una carognata, perché sta giudicando la performance professionale del laureato sulla base di come decide di passare il tempo libero. Qui è un po’ lo stesso: io posso essere una persona molto superficiale per il 99% del mio tempo, ma fornire un contributo utile alle decisioni collettive nel rimanente 1%. È solo l’1% che conta, mentre il 99% del tempo che passo a surfare su foto di gatti e giocare a Grand Theft Auto non deve influenzare le politiche pubbliche perché sono affari miei.

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  3. Enrico Alletto

    Alberto, questa frase: “gli ambienti di partecipazione alla discussione pubblica devono essere chiaramente delimitati. Io devo sapere che sto partecipando mentre lo faccio” me l’appunto e la sfodero alla prima occasione utile e credimi non mi mancheranno. 🙂

    Evito di raccontare la miriade di episodi in cui sono stato preso nella morsa del: Facebook di qua, le persone sono li e compagnia cantante. E per molto tempo mi sono chiesto come mai persone che conosco e che stimo, conoscitori della rete tanto da farne un mestiere (non è il mio) arrivassero a darmi delicatamente contro nel mio voler sostenere che lo spazio della partecipazione va delimitato in maniera chiara e netta mentre invece addetti ai lavori all’interno delle istituzioni comprendevano (e comprendono) quasi al primo colpo ciò che stiamo portando avanti con la costruzione della Community di Open Genova e la risposta è stata proprio la stessa a cui sei arrivato tu (giuro stavo per scrivere un post sul mio blog proprio su questo).

    è vero, almeno nel mio caso chi è contrario al mio voler delimitare gli spazi della partecipazione e quindi al mio volermi allontanare da Facebook (cioè dove c’è sempre “movimento”) parte proprio dagli uomini e le donne del marketing, ci ho messo un po a capirlo ma adesso ho focalizzato il problema, si perché a me questa cosa a creato problemi. 🙁

    Grazie per aver condiviso questo interessante ragionamento che non tutti probabilmente sapranno cogliere per il suo reale valore, ma va bene così (altrimenti poi diventa troppo facile e si perde il gusto della sfida) 🙂

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    1. Alberto Autore articolo

      Purtroppo, Enrico, credo anch’io che non ti mancheranno le occasioni. Quella cultura è vincente nella rete italiana. Luca Galli sostiene che, siccome noi non studiamo matematica e ingegneria, viviamo Internet come un medium – una specie di televisione con più pulsanti sul telecomando. Gli americani – più vicini al solco dei padri fondatori, i Doug Engelbart, i John Perry Barlow, i Ted Nelson – la vivono come una tecnologia. Una tecnologia, per giunta, che è peer-to-peer fin dal livello di base del TCP/IP. Ne derivano direzioni di lavoro assai diverse per immaginare cosa farci con questa Internet. Noi studiamo i consumatori: facciamo Auditel 2.0. Loro fanno molte cose, tra cui alcune sono le stesse che facciamo noi e altre… sono più interessanti e si rifanno alla tradizione dei primi hackers, che volevano “prendere il controllo” della tecnologia.

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  4. Enrico Alletto

    Intanto che ragiono sul post di cui ti accennavo sopra (che a questo punto scriverò attingendo a piene mani dal tuo 🙂 ) ti segnalo il mio che apparentemente non c’entra nulla con questo ma in realtà si. Nel senso che anche quando riesci delimitare i confini della partecipazione ed inizi a far sentire odore di nuovi metodi, nuove persone, nuove direzioni da intraprendere e lo fai direttamente sul territorio provando a mettere in comunicazione cittadino ed amministratori pubblici senza troppe mediazioni ecco che vai a toccare qualche equilibrio sedimentato che non sempre gradisce … dico la mia qui: http://www.enricoalletto.it/6300

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    1. Alberto Autore articolo

      Ho letto il tuo post. Sì, hai ragione. Del resto è ovvio: se cambi qualcosa – qualunque cosa – quasi certamente dal cambiamento qualcuno uscirà perdente. In più, se il tuo cambiamento porta efficienza vuol dire che elimini rendite e margini da qualche parte. E questa non è una ricetta per la popolarità.

      Non farei troppa dietrologia sugli uomini e le donne del marketing. Bisogna pur vivere. Loro guardano il settore pubblico e vedono un altro cliente, per giunta uno culturalmente arretrato e che quindi, se lo catturi, ti fa guadagnare senza grande fatica. Qualche anno fa, quando cominciavo ad andare ai primi barcamp, mi è capitato di sentire uno che si vantava di avere clienti poco informati. “Gli dicevo: certo, quello che tu vuoi fare si fa con il pacchetto X, che è free e open. Ma dove la mettiamo la sicurezza? Un software aperto non è sicuro come uno proprietario! E il cliente: certo, capisco benissimo, e mi comprava la soluzione proprietaria. Che idiota! Lo sanno tutti che i software aperti sono molto più sicuri di quelli proprietari!”

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  5. Enrico Alletto

    Stavo pensando agli americani che pensano alla rete in un modo diverso dal nostro anche perché forse quando pensi ad un modello di internet fatto per avvicinare cittadino e pubblica amministrazione pensi ad un modello che non ha business ma “solo” risvolti di medio lungo termine a cui è difficile far cogliere il valore. In pratica, di queste cose non si campa ed è quindi normale che chi con la rete ci lavora non le trovi appetibili e tenda comunque a ricondurre tutto sempre la … dove ci sono gli utenti. Che ne pensi?

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