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Le politiche pubbliche del futuro: non solo tecnologia, servono apertura, trasparenza, umiltà e empatia

Sono a Dublino, e succede una cosa interessantissima: un ritrovo di persone che si interessano di politiche pubbliche, e che ad esse tentano di applicare tecniche avanzate di modellazione, usando senza risparmio la capacità computazionale che oggi abbiamo a disposizione. Big data, analisi di rete, sentiment analysis: tante persone, in tutto il mondo, stanno sperimentando cose nuove. Un momento di confronto serve.

L’occasione è Policy Making 2.0, un momento di incontro della piccola ma agguerrita comunità di persone che lavorano su queste cose. Quali risultati stiamo ottenendo? Quali problemi incontriamo? Di quali tecnologie abbiamo bisogno per migliorare? Grande sponsor dell’operazione è la Commissione Europea, interessata soprattutto alla terza domanda. Una cosa che mi ha fatto piacere è la grande visibilità degli italiani in questo spazio: siamo rappresentati da policies di alto profilo internazionale come OpenCoesione, progetti di ricerca di buon livello (a me è piaciuto il simulatore delle politiche per l’energia dell’Università di Bologna), policy makers innovativi come Giulio Quaggiotto di UNDP, il programma di sviluppo delle Nazioni Unite; anche il principale tessitore di questa rete, David Osimo, è italiano (anche se lavora all’estero).

Alla fine della conferenza, ho una buona notizia; una cattiva notizia; e un’ottima notizia.

La buona notizia è che si cominciano a vedere modelli che funzionano davvero, nel senso di dare un contributo vero alla comprensione di problemi intricati. Mi è piaciuto GLEAM, che permette di simulare un’epidemia. La cosa interessante è che usa dati veri, sia demografici (popolazione e sua distribuzione nelle varie aree) sia di trasporto (gli agenti dell’infezione viaggiano con le persone infettate, in aereo o in treno). A questi aggiungete i dati che descrivono le caratteristiche della malattia che state cercando di modellare: quanto è contagiosa? Quanto è grave? Dove si trova il primo focolaio? E così via. Il modello, poi, mette tutto insieme e elabora uno scenario di previsione.

La cattiva notizia è che fare modelli rigorosi e leggibili è molto difficile, e infatti in genere non ci riusciamo. Quelli rigorosi si accollano in pieno la complessità dei fenomeni che cercano di descrivere, con il risultato che molto spesso non sono in grado di dare una risposta univoca che non sia “dipende”; quelli leggibili dai cittadini, dai decisori pubblici o da chiunque non sia un matematico ottengono una leggibilità di superficie (nel senso che i loro risultati sono facili da capire, e spesso appoggiati su visualizzazioni accattivanti) al prezzo di sacrificare la comprensione di come a quel risultato si arriva. Questo problema è ulteriormente complicato dall’avvento dei Big Data, che ci costringono a ridefinire cosa vuol dire “avere le prove di qualcosa” (questo tema merita un approfondimento a parte, per cui non ne parlo qui).

La notizia ottima è che sembra che la comunità di ricercatori e policy makers che stanno sulla frontiera delle politiche pubbliche stia convergendo su quanto segue: le politiche pubbliche faranno il vero salto nel futuro se saranno in grado di devolvere potere e influenza a una cittadinanza sempre più smart. Cioè se saranno trasparenti, partecipative, abilitanti, umili, attenti all’aspetto umano delle interazioni con il cittadino. La tecnologia va bene, anzi serve; ma senza modifiche profonde nel loro modo di pensarsi e di operare, le amministrazioni pubbliche del futuro rischiano di assomigliare al servizio catastale dell’Impero Austro-Ungarico del 1840 (gerarchie quasi militari, regole formali molto strette, pessima gestione delle eccezioni, impenetrabilità dell’amministrazione rispetto alla società civile, dialogo solo attraverso atti formali…), con in più i computers, e magari anche le infografiche. Nei corridoi abbiamo parlato molto di iatrogenesi (politiche pubbliche che, pur benitenzionate, fanno danni perché non hanno l’umiltà intellettuale per riconoscere che è meglio non intervenire su un sistema complesso che non si comprende bene); di trasparenza come bene assoluto, anche per la fiducia che essa genera; di “citizen experts”; e abbiamo fantasticato di partenariati pubblico-privati che possono intervenire su politiche pubbliche quando le procedure normali non funzionano, una specie di commandos di innovatori sociali e civic hackers. È proprio il lavoro che vorrei fare io! Ci hanno provato le Brigate Kafka olandesi, ma dal sito sembra che il progetto sia fermo.

La comunità si è espressa. Vedremo se la Commissione e i policy makers nazionali raccoglieranno questa suggestione, e come. Certo, riforme così profonde sono davvero difficili, e non dipendono solo dalla volontà del singolo decisore. La cosa più saggia che possiamo fare, forse, è provare a spingere la frontiera un po’ più avanti, senza aspettarsi troppo. Ma anche senza prenderla persa. Perché – e da oggi sono un po’ più ottimista – sapete una cosa? Non è persa. Non ancora. E questa partita è troppo importante per non giocarla fino all’ultimo minuto.

Un altro piccolo passo: Policy Making 2.0 (con premio) a Dublino

Poco più di quattro anni fa David Osimo organizzava a Bruxelles un seminario intitolato Public Services 2.0. L’operazione era fortemente innovativa sia nel metodo (alla Commissione Europea è stato chiesta solo una sala in prestito e l’uso del wi-fi, speakers e partecipanti sono venuti gratis e a proprie spese) che nei contenuti (un confronto tra pari, tra persone che avevano già realizzato – non che proponevano di realizzare – politiche pubbliche attraverso Internet). Molti funzionari e dirigenti della Commissione hanno partecipato, spinti probabilmente dalla curiosità: chi erano mai queste persone che mescolavano due concetti apparentemente molto lontani, Internet e politiche pubbliche? E perché sembravano non volere nulla dalla Commissione (abituata, invece, a sentirsi chiedere cose), interessandosi piuttosto al confronto reciproco?

Quel seminario si è rivelato fecondo. Con molte delle esperienze e delle persone che incontravo lì per la prima volta (come MySociety e Social Innovation Camp, o David stesso) ho avviato un confronto che dura ancora adesso, e dal quale ho imparato tantissimo. Al tempo ero direttore di Kublai, progetto benvoluto ma non imitato (o almeno non bene): a Bruxelles ho scoperto che i miei collaboratori ed io eravamo parte di un movimento mondiale, ancora piccolo ma già deciso a cambiare per sempre il modo di fare policy.

Il nostro piccolo movimento “fatto in casa” è cresciuto molto, anche se è rimasto minoritario. La Commissione Europea ha abbandonato molte delle cautele del 2009 per diventare un convinto promotore dell’uso di tecnologie ICT in tutte le fasi del ciclo di policy. E oggi ci prepariamo a un’altra tappa: Policy Making 2.0, conferenza che riassume due anni di lavoro di preparazione di una road map (commentabile qui) per la ricerca sull’azione di governo al tempo della rete: quali sono le tendenze? Quali le direzioni di lavoro promettenti, quali gli ostacoli? Cosa manca? Non mancherei questa conferenza per nessun motivo. È una discussione interessante e urgente, per rendere la comunità open government sempre più coesa con lo stato dell’arte della ricerca scientifica.

A questo giro, David si è inventato anche un premio per le politiche pubbliche 2.0, e mi ha perfino invitato a fare parte della giuria. C’è qualche progetto là fuori, magari perfino qualche progetto italiano, che si candida per vincerlo? Se avete un’esperienza intelligente e coraggiosa, prometto che la sosterrò con convinzione.