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Perché l’Europa si gioca l’anima su Brexit e l’accordo con la Turchia per i rifugiati siriani

Repostata da  Chefuturo – In collaborazione con Anthony Zacharzewsky

I leaders europei hanno un accordo con il governo turco. Funziona così: i profughi siriani non possono più spostarsi dalla Grecia a altri paesi dell’UE. Li rimandiamo in Turchia. Per ciascun siriano rispedito in Turchia, ne prendiamo un altro da un campo profughi turco e lo lasciamo entrare in Europa. La Turchia ci guadagna una ripresa dei negoziati per il suo ingresso nell’Unione, visti più facili per i cittadini turchi che vengono in Europa, e denaro. Ma cosa ci guadagna l’Europa?

Non molto, pare. Gli esperti pensano che lo schema “uno per uno” non sia realistico. Lo stato greco, a corto di personale dopo anni di austerità, non ha le risorse umane per gestirlo. Le organizzazioni filantropiche pensano che sia “disumano“. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite mette in discussione la credibilità delle misure volte a proteggere i richiedenti asilo più vulnerabili. I diplomatici europei si aspettano che l’accordo venga impugnato di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, a Strasburgo. I trafficanti di uomini avranno un aumento del loro giro di affari.

Praticamente nessuno pensa che lo schema funzionerà davvero. E se funzionasse, potrebbe peggiorare le cose. Non solo per chi ha attraversato il deserto per rimanere bloccato in Grecia. Anche per gli europei. Gli economisti hanno fatto i calcoli tempo fa: i migranti contribuiscono al welfare europeo più di quanto gli costano (fonti). Sono in media più giovani, più istruiti e più imprenditoriali di noi indigeni. Con tutti i loro svantaggi, i profughi siriani hanno fondato 415 nuove imprese in Turchia nei primi due mesi del 2016. Senza immigrazione, la nostra popolazione invecchia, e presto non sarà in grado di mantenersi (fonte). L’immigrazione fa bene alla crescita – e infatti le imprese ne chiedono di più.

Insomma, i leaders europei sono rimasti incastrati in un pessimo accordo, che ha svantaggi umanitari e nessun vantaggio. Così facendo, hanno anche danneggiato le loro (e nostre) economie. Cosa sta succedendo qui?

La risposta facile: la politica. Negli ultimi anni sono cresciuti in tutta Europa partiti populisti, spesso nazionalisti etnici, sempre anti-governo e anti-UE. Si rivolgono alle persone che si sentono perdenti, rifiutate dal “nuovo” mercato del lavoro. Quelle che non credono di potere competere con i tanti giovani altamente scolarizzati d’Europa. I populisti non hanno un vero progetto. Non gli serve. Hanno di meglio: un capro espiatorio, i migranti appunto.

La crisi economica ha aiutato l’ascesa di questi partiti. Ma, anche se la crescita economica ritornasse domani, essi non sparirebbero. La loro forza deriva da un problema più profondo: abbiamo permesso a noi stessi di dimenticare perché stiamo costruendo un’Europa unita.

L’Europa fa molte cose. Produce standards, per esempio, come GSM per i telefoni cellulari. Gli standards sono utili. Permettono innovazione e crescita, e riducono il rischio di impresa. Ma non sono un fine in sé. Sono solo il mezzo per costruire il mercato unico europeo. E il mercato unico stesso è solo un mezzo. Il suo fine è prevenire le guerre in Europa.

Il fine dell’Europa è la pace. Ci sono state molte iniziative di pace nel corso della storia, ma l’Unione Europea è progettata in modo da essere irreversibile. Nel corso dei decenni, le istituzioni europee hanno permesso a noi, i cittadini, di costruire una fitta rete di rapporti che ci unisce. All’inizio abbiamo fatto commercio internazionale. Poi integrato i sistemi educativi (diplomi e lauree riconosciuti in tutta Europa; Erasmus); poi partenariati negli affari; poi migliaia e migliaia di amicizie e matrimoni. Gli “altri” sono diventati i nostri clienti, partners, amici, famiglia. La guerra è diventata impossibile, impensabile.

Questa visione del mondo non si ferma ai confini dell’Unione. Pace e prosperità attraverso il commercio sono il cardine anche della nostra politica estera. Ai paesi con cui confiniamo questo piace, e quindi vogliono entrare nel club. E noi li abbiamo fatti entrare. Abbiamo investito con saggezza in quelli meno sviluppati, usando fondi europei per migliorare le loro infrastrutture. E loro ci hanno ricompensato diventando paesi prosperi, con una solida classe media che domanda auto tedesche, design italiano, servizi finanziari britannici. La Spagna, poi l’Irlanda, poi l’Estonia, poi, la Romania.

Il sistema è ancora in funzione. I balcani erano in guerra solo vent’anni fa. Ora sono in pace, e si stanno arricchendo. L’Europa piace laggiù, e anche loro piacciono a noi. Siamo buoni vicini. Finanziamo autostrade, biblioteche ed edifici pubblici. A una frazione del costo di una presenza militare, abbiamo prestigio e influenza. Possiamo viaggiare in tutta la regione parlando inglese, tedesco e italiano. Possiamo pagare in euro dappertutto. Tutti paesi sono in coda per entrare nell’Unione. Paragonate questa politica estera alle guerre di Bush. Niente da dire: costa meno, e funziona molto meglio.

Perché tutti questi paesi vogliono essere parte dell’Europa? Perché la pace, il rispetto dei diritti umani e il libero commercio funzionano. Il nazionalismo militarista, no. Chiedete agli ucraini: Vladimir Putin li vuole nella sua Unione Economica Eurasiatica, l’ultimo impero di vecchia scuola in Europa. Ma a loro questo non sembra interessare. Quando il loro presidente ha firmato un trattato di alleanza con la Russia nel 2014, hanno montato una rivoluzione, lo hanno cacciato dal paese e organizzato milizie civiche per combattere i paramilitari pro-Russia nell’est del paese. Tutto questo per difendere il loro futuro come parte dell’Unione Europea.

E non sono solo gli ucraini, i georgiani o i montenegrini. Sono anche i siriani, i tunisini, gli eritrei. Anche se i loro paesi non si muovono nell’orbita dell’Unione, la gente vuole essere parte dell’Europa. E questo, sì, è il fine dell’Europa; questa è la nostra proposta al mondo. Siamo l’unica comunità politica al mondo ad avere rinunciato alla violenza, e abbracciato la comprensione reciproca come l’unica via per procedere. Anche in questo momento di crisi, siamo un faro di speranza per l’umanità. 

E questo ci porta a Brexit. Il 23 giugno, il Regno Unito tiene un referendum popolare sulla sua permanenza nell’Unione Europea. Al momento in cui scriviamo, il risultato è incerto. E incerte sono le sue conseguenze: possiamo solo prevedere che ci riguarderanno tutti.

La maggior parte del dibattito è di qualità pessima, da entrambe le parti (battezzate “Leave”, cioè “esci”, e “Remain”, cioè “resta”). Chi sostiene che l’UK dovrebbe rimanere in Europa non ha altri argomenti che il denaro. Importante, certo, ma non trasmette il senso delle ambizioni e delle possibilità dell’Europa. Per rassicurare gli elettori euroscettici, i sostenitori del Remain escludono ogni futuro sviluppo del rapporto tra l’UK e l’Europa. Il loro argomento è “votate per noi, la nostra Europa non ha Schengen, comprende molte eccezioni e opt-out, e non ha assolutamente l’Euro”.

Dall’altra parte, la stampa euroscettica è piena di populismo anti-migranti, e del desiderio di tornare a un tempo di unità nazionale, monocultura e piena occupazione che non è mai esistito. I politici nel campo del Leave non riescono ad accettare che le nazioni di medie dimensioni non hanno potere nel mondo moderno. Questo li costringe a inventare scenari futuri in cui la Gran Bretagna prospera attraverso la deregulation, o creando accordi di libero commercio con le sue ex colonie, o semplicemente costringendo gli europei a fare ciò che i britannici vogliono.

Questo è un tentativo di razionalizzare una reazione emotiva comune in Gran Bretagna: l’orgoglio per il parlamento, per la democrazia britannica, per i “mille anni di storia britannica”. Sovranità, democrazia, potenza nazionale sono concetti scivolosi. Il mondo arido dei summit e dei compromessi europei può essere molto efficace, ma non è romantico.

Negli ambienti di Bruxelles molti credono che l’Europa, alla fine, avrà successo. In piena crisi dell’Euro, un politico europeo dichiarava: “tutti sappiamo cosa dobbiamo fare. È solo che non sappiamo come farci rieleggere dopo averlo fatto”. Il tempo è passato, quell’uomo politico è diventato presidente della Commissione, i governi nel continente sono cambiati. L’Euro è rimasto. Forse tra cinque anni la crisi migratoria e Brexit avranno fatto la stessa fine. Non saranno veramente risolte, ma nemmeno presenti nei nostri pensieri, se non come ricordo di un momento di panico.

O forse no. Si dice che, per un’impresa, la bancarotta cominci lentamente e poi acceleri di colpo. Guardandoci intorno, vediamo i segni di svuotamento delle istituzioni europee, così come di quelle della politica nazionale.

Ma in quell’amore romantico dei Brexiters c’è la risposta ai problemi della politica europea, non solo di quella britannica. Dobbiamo rendere l’Europa qualcosa in cui possiamo credere – non con un moto dei sentimenti, ma come progetto condiviso di costruzione, basato sui principi di libertà, apertura, democrazia.

Non possiamo inventarci un nazionalismo europeo per decreto. Non possiamo imporre alle persone di sentirsi un nodo alla gola quando sentono l’Inno alla Gioia. Alcuni di noi lo sentono già ora, altri potrebbero farlo in futuro, ma nessuno può esservi costretto. Invece, possiamo e dobbiamo celebrare le connessioni e le reti d’Europa come successi, invece di denigrarle come fallimenti.

Se non riusciamo a fare questo, cos’altro possiamo fare noi europei? Beh, potremmo seguire l’esempio di Brexit, e concentrarci sull’essere semplicemente 28 stati-nazione. Fattibile, forse. Ma saremmo stati-nazione di secondo ordine. Troppo piccoli. Troppo vecchi. Troppo afflitti da crescita bassa, debito alto, una popolazione sembre più vecchia e una politica pupulista, rancorosa e meschina. Una periferia nel secolo Asiatico e che ci attende.

Un continente pacifico dove muoversi liberamente è il nostro dono al mondo. Ci rende unici; fonda la nostra identità. Con i loro discorsi di spezzettamenti e limitazioni, i politici in Gran Bretagna e altrove possono guadagnare un po’ di visibilità mediatica, e forse consensi a breve termine. Ma si stanno giocando l’anima. E non la loro: la nostra.

Foto di Malachy Browne: murales a The Jungle, il campo profughi non riconosciuto a Calais (Francia). 

Photo: Marco Giacomassi

Dettare l’agenda: come la comunità open data è entrata nel radar delle politiche europee

Il 17 luglio, intervenendo all’Open Knowledge Fest a Berlino, il commissario europeo Neelie Kroes ha fatto la seguente affermazione:

Vogliamo lavorare con voi, e vedervi lavorare insieme attraverso i confini geografici e linguistici. Abbiamo messo in piedi Erasmus per gli Open Data per sostenere questo, e cominciamo da un evento a Nantes, Francia, in settembre. Ma se avete un’idea per altre cose che potremmo fare, fatecelo sapere! – fonte

Normalmente non presto attenzione agli annunci, ma questo è arrivato davvero in fretta. Per quanto ne so, l’idea di un Erasmus per gli open data non esisteva nemmeno prima di aprile 2014. Un’idea passata in tre mesi dalla prima apparizione in un blog privato alla rampa di lancio in quanto policy della prima economia al mondo, credo, non ha precedenti. Cosa sta succedendo?

Riassunto delle puntate precedenti.

  1. Il 7 aprile, a seguito del raduno di Spaghetti Open Data, scrivo un post in cui propongo un programma simile a Erasmus per gli open data. L’idea è di costruire relazioni orizzontali per connettere le comunità open data, oggi largamente nazionali, in una comunità di livello europeo. Il post innesca una piccola discussione con alcuni attivisti di altri paesi europei, come Ton Zijlstra in Olanda e Martìn Alvarez in Spagna.
  2. l’8 luglio ricevo un’email dall’associazione francese LiberTIC. Con il sostegno della città di Nantes, sta organizzando una conferenza pensata come la rampa di lancio di una futura iniziativa di Erasmus Open Data. Il gruppo di EPSI platform è coinvolto in modo attivo. La Commissione Europea parteciperà, probabilmente rappresentata dal project officer di EPSI platform stessa. Per mostrare che si fa sul serio, LiberTIC ha perfino destinato un piccolo budget al rimborso dei costi di viaggio verso Nantes di alcuni dei partecipanti. Con la solita generosità, Spaghetti Open Data ha già risposto alla sfida – vi prometto che la comunità italiana sarà ben rappresentata a Nantes.
  3. Con il discorso del 17 Kroes ci fa sapere che anche lei fa parte del percorso. Trovo straordinario che un’iniziativa così piccola sia arrivata alla sua attenzione: qualcuno a DG CNECT (forse il team EPSI?) sta facendo un ottimo lavoro nel vendere l’idea alla gerarchia.

Può darsi che avremo il nostro Erasmus Open Data. O forse no. Comunque vada a finire, una cosa è chiara: se un tipo qualunque come me può proporre un’idea dal suo blog personale in aprile e ascoltare un commissario europeo offrirle tutto il suo sostegno a luglio, significa che la comunità open data sta dettando l’agenda. Ci siamo, e facciamo cose interessanti con i dati, e tutti lo sanno. Siamo noi che parliamo con le agenzie governative che devono scrivere le leggi e le linee guida, e che spesso le scriviamo per loro. Possiamo mobilitarci rapidamente ed efficacemente – la stessa LiberTIC ha messo insieme una conferenza internazionale in due mesi. tutti sanno che, semplicemente, non si può fare open data senza una comunità forte e indipendente, con una forte presenza di società civile e settore privato.

Quindi, l’Europa sta molto attenta a quello che facciamo. E ci sono segni che anche lo Stato italiano sia in ascolto, al di là dei soliti balletti e dell’attenzione al breve termine.  Sarebbe un peccato sprecare questa opportunità per arricchire il nostro mondo di un po’ di trasparenza e conoscenza data-powered. Ma io credo che la comunità sia pronta, e che l’opportunità non sarà sprecata.

Nel frattempo, signora Kroes, grazie del suo supporto. C’è un piccolo errore in quella parte del suo discorso (“Abbiamo messo in piedi…”): Erasmus per gli open data è, a oggi, un’iniziativa della comunità, non dell’unione europea. Ma non è grave; non siamo gelosi, e adesso l’idea è pubblica e tutti possono contribuirvi e migliorarla. Venga a Nantes, sarà la benvenuta, sia in forma ufficiale che in forma privata. Se viene in forma privata, ci mandi una mail: ci sarà codice da scrivere, dati da pulire, pizza e esperienze da scambiarci. Ci siederemo insieme a rifare qualche sito dell’UE, e ci sarà da divertirsi.

Vieni con noi Nantes per la conferenza Erasmus Open Data

Il copyright, la Commissione Europea e il lato oscuro delle consultazioni online

Immaginate questa scena.

Siete ad Amburgo per 30C3, il trentesimo congresso annuale del leggendario Chaos Computer Club (wikipedia), la prima e più grande associazione europea di hackers. State facendo politica: partecipate a una riunione convocata all’ultimo minuto da una giovane attivista del Partito Pirata islandese, Ásta Helgadóttir. La persona che sta parlando ora è Amelia Andersdotter, europarlamentare svedese di 26 anni, pirata anche lei. Spiega che la Commissione Europea è alle prese con una riforma del diritto d’autore. E che questa riforma, se condotta male, rischia di danneggiare la libertà e l’integrità di Internet. Di recente la Commissione ha lanciato una consultazione pubblica online sul tema, ma partecipare è così difficile, e costa così tanto tempo, che gli attivisti temono che a partecipare saranno soltanto i lobbisti dell’industria del copyright.

Andersdotter e i suoi collaboratori, aiutati da parecchi volontari, hanno realizzato sul web, una guida alla consultazione in tredici lingue, ma questo non basta. Perché tutti possano partecipare, è essenziale rendere la partecipazione molto più semplice e intuitiva. Il gruppo decide di intervenire realizzando un sito che parta dall’esperienza quotidiana delle difficioltà che i cittadini hanno con il diritto d’autore in rete (per esempio: “Ho paura a fare un remix per paura di ripercussioni legali”) e da questa guidi il cittadino a condividere il suo punto di vista, che poi viene inserito nei punti giusti del questionario. Alla fine dell’operazione, il cittadino potrà scaricare un file con il questionario compilato e inviarlo alla Commissione.

Allo sciogliersi della riunione, un gruppo di programmatori e designers apre i laptop e si mette al lavoro. Per prima cosa, Stefan Wehrmeyer della Open Knowledge Foundation tedesca scrive il codice per un nuovo sito web, e lo carica su un repository su GitHub (la piattaforma di collaborazione più usata dai programmatori open source) in modo che tutti i partecipanti possano migliorarlo ed estenderlo. Mathias Schindler di Wikimedia Germania riscrive le domande del questionario in termini di situazioni che un cittadino può riportare alla propria esperienza. A questo punto Juliana Okropiridse, Bernhard Hayden, Christopher Clay e Peter Grassberger del Partito Pirata austriaco iniziano un hackathon per finire il sito. Vengono ospitati dallo spazio occupato dal Metalab (il più noto hackerspace viennese) nell’ambito di 30C3. Scrivono codice tutta la notte; alle 8 del mattino dopo inaugurano copywrongs.eu. È il 30 dicembre 2013.

Tutto questo è veramente accaduto.

Come ci siamo arrivati? Perché un tema apparentemente astratto e asettico come la riforma della legge europea sul diritto d’autore viene dibattuto, e fatto oggetto di interventi così concreti, in una conferenza hacker? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.

Il 5 dicembre 2013 la Commissione Europea ha lanciato una consultazione pubblica online sulla riforma della legge europea sul copyright. Nell’era digitale, la legislazione sul copyright ha assunto nuova importanza; pensata per stampa, radio e televisione, ha finito per entrare in collisione con l’infrastruttura tecnica e sociale di Internet. La tecnologia di rete consente di fare velocemente e a costo zero copie esatte di contenuti (libri, musica, film, articoli scientifici e così via) e di redistribuirle in tutto il mondo. In più consente (e a volte impone) operazioni che non hanno un equivalente esatto nel mondo pre-digitale. Per esempio linkarli, o copiarli provvisoriamente nella memoria del vostro computer per la riproduzione in streaming, o remixarli. Queste cose sono legali o no? A che condizioni? Com’era prevedibile, è andata a finire che le persone che usano molto la rete hanno finito per chiedersi per quale ragione alcune o tutte queste cose – utili, semplici ed economiche – non si debbano potere fare; e i teenager nativi digitali hanno finito per farle.

I detentori dei diritti di sfruttamento di questi contenuti hanno reagito in modo aggressivo a quello che ritengono un abuso ai loro danni. Hanno chiesto e ottenuto ai legislatori un inasprimento delle pene per reati contro il copyright (soprattutto negli USA), e intentato cause legali per forti somme a ragazzi anche minorenni, probabilmente secondo la logica di “colpirne uno per educarne cento”. La discussione si è ideologizzata: esattamente un anno fa, l’11 gennaio 2013, Aaron Swartz, imprenditore di successo e brillante informatico, si è suicidato a 26 anni. Affrontava una causa penale per violazione di diritto d’autore (aveva scaricato un grande numero di articoli accademici protetti da copyright utilizzando il suo accesso in quanto studente del MIT).

Il copyright è importante, e l’apertura della consultazione  della Commissione Europea potrebbe essere una buona notizia. Ma c’è un problema. La consultazione consiste in un questionario da scaricare, compilare e inviare per posta elettronica alla Commissione. Il questionario è disponibile solo in inglese; completarlo richiede parecchie ore (è lungo 36 pagine e comprende 80 domande); è scritto in linguaggio tecnico-giuridico; e rimarrà aperto solo 60 giorni, comprese le vacanze di Natale [la scadenza è stata prorogata di 28 giorni, al 5 marzo 2014].

Che tipo di cittadino hanno in mente i funzionari europei che hanno progettato questa consultazione? A me viene in mente un solo tipo di persona con le caratteristiche adatte: i lobbisti professionisti che lavorano per le industrie del copyright – case discografiche, produttori cinematografici e simili. I lobbisti sanno l’inglese; conoscono le norme che cercano di modificare; e non hanno problemi a trovare il tempo e la voglia per un questionario di 80 domande, visto che – a differenza di noi cittadini comuni – sono pagati per farlo.

Non c’è niente di male se un lobbista esprime un’opinione nel corso di una consultazione. Ma è uno spreco: i lobbisti hanno già i loro canali. Hanno uffici a Bruxelles, gruppi di lavoro, conferenze di settore, soldi per comprare competenze e usarle per perseguire i propri fini. Una consultazione aperta a tutti, e che usa uno strumento pervasivo come Internet, potrebbe fare qualche sforzo in più per arricchire la discussione, allargandola a un numero il più alto possibile di cittadini comuni.

Perché questo non è avvenuto? Secondo  Andersdotter, la Direzione Generale per il mercato unico (DG MARKT) tiene un profilo basso per evitare controversie e conflitti – ma questi sono inevitabili. “I cittadini europei sono in continua tensione con la legislazione sul copyright – dice Andersdotter – Per esempio, è comune che gli insegnanti di lingue straniere usino film in DVD o CD musicali come sussidi didattici, anche se acquistati privatamente [sì, è vietato – ndr]. Oppure, capita che un cittadino francese condivida un video musicale su YouTube con un amico tedesco, che però non riesce a vederlo perché gli autori francesi hanno fatto un accordo con YouTube e quelli tedeschi no. Molti europei, soprattutto giovani, hanno problemi di questo tipo.” E non si tratta solo dei giovani: a maggio del 2013 LIBER, l’associazione delle biblioteche europee per la ricerca, ha abbandonato il tavolo di lavoro di DG MARKT sul diritto d’autore, protestando che “le comunità della ricerca e della tecnologia sono state messe di fronte non a un dialogo, ma a un processo con uno sbocco già predeterminato” (fonte). L’ufficio del Commissario al Mercato Unico Michel Barnier non ha risposto alle nostre richieste di un commento.

Cosa possiamo imparare da questa storia? A mio avviso, le conclusioni più importanti sono tre.

La prima: le consultazioni online rischiano di giocare un ruolo antidemocratico. Possono venire presentate come un gesto di apertura e trasparenza (“è su internet! Tutti possono partecipare!”), ma in realtà offrire solo un nuovo canale di partecipazione agli interessi già rappresentati – una specie di “lato oscuro” della partecipazione online, come nella saga di Guerre Stellari. Per evitare questo, i cittadini devono esigere dalle loro istituzioni non solo di essere consultati, ma che le consultazioni siano progettate in modo da ottenere la massima diversità possibile di partecipanti.

La seconda: i cittadini possono intervenire per riportarle in carreggiata. Nel caso della consultazione europea del copyright, e in altri simili (ricordate ACTA?) una società civile culturalmente e tecnologicamente attrezzata si è mobilitata in difesa di un bene comune globale, la libertà e la salute dell’ecosistema Internet. Questa società civile ha prodotto organizzazioni come Wikimedia e Open Knowledge Foundation, e punti di ritrovo come 30C3. Insomma, c’è il lato oscuro ma ci sono anche i cavalieri Jedi (e se volete fare la vostra parte, andate su copywrongs.eu e rispondete alla consultazione)

La terza: lo spazio politico aperto da questi precursori è sovranazionale, e lo è con una naturalezza e un grado di convinzione che non si era mai visto.  All’operazione per democratizzare la consultazione europea sulla riforma del copyright hanno collaborato persone di molte nazionalità, senza che nessuno sentisse il bisogno di fare riferimento alle posizioni di un paese o l’altro. Una nota interessante: la leadership tende ad essere in capo a giovani donne come Helgadottir (a 23 anni ricopre la carica di vice-membro del parlamento islandese – è una carica tipica dei paesi nordici) o Andersdotter.

(Sono affascinato dalla figura di Amelia Andersdotter. Eletta a soli 21 anni, ha dato prova di una grinta formidabile, acquisendo una competenza impressionante sulle convenzioni e i trattati internazionali che regolamentano l’Internet in Europa e diventando un punto di riferimento per tutto il movimento open source e in generale la scena hacker. Ha preso posizioni chiare e ben documentate a difesa della libertà di Internet, accettando anche qualche conflitto. Ha fatto del suo meglio per rendere l’Europarlamento aperto e accogliente nei confronti di hackers e attivisti, per esempio organizzando una proiezione del film su Wikileaks We steal secrets aperta al pubblico; e hackers e attivisti di tutta Europa la ricambiano circondandola di un affetto quasi palpabile, come se fosse – dopo Lady Ada Byron – una seconda Regina della Macchine. Potrebbe essere la prima di una nuova razza di leaders europei nativi digitali, cresciuti a hackathon e repliche di The Big bang Theory.)

La storia che ho raccontato in apertura sembra più una scena di Matrix che un episodio di cronaca politica europea. Eppure, a pensarci bene, questa è esattamente l’Unione Europea come la sognavano i padri fondatori: hackers, designers, attivisti ed esponenti della società civile, rappresentanti politici eletti di vari paesi europei che collaborano per allargare i canali di partecipazione democratica sulla politica dell’Unione. Se potessi dare un consiglio ai prossimi presidenti della Commissione, del Parlamento e del Consiglio Europeo, direi loro: state vicini agli hackers, coinvolgeteli, chiedete loro di aiutarvi a progettare le consultazioni online dell’Unione. Stanno costruendo l’agorà europea che voi non siete stati capaci di darci. E il loro codice è molto, molto meglio del vostro.