Tanti piccoli Radiohead

Dopo il caso Radiohead (su cui mi riservo un post successivo: ne ho parlato però a lezione al MMCM) stanno venendo alla luce diversi casi di musicisti che sperimentano nuovi modelli di business sul web.

  1. la cantautrice Jill Sobule calcola che le servono 75mila dollari per produrre il suo prossimo album. Ha deciso di chiederli al suo pubblico: ha messo in piedi un sito, jillsnextrecord.com, dal quale potete farle una donazione. Quello che ne avrete in cambio è coinvolgimento: al livello minimo (25 dollari, “polished rock level” riceverete un CD qualche settimana prima dell’uscita ufficiale; a quello massimo (sopra i 10.000, “weapon-grade plutonium level”) verrete invitati per cantare nell’album. A oggi, Jill sostiene di avere raccolto 48.465 dollari, quindi è molto più che a metà strada.
  2. l’artista sudafricana Verity ha prevenduto 1600 copie del suo primo album (quindi devo pensare che non avesse una grande fan base a disposizione) a 150 rand (circa 24 dollari) prima di inciderlo. Ha messo online il sito nel 2005 e ci ha messo oltre due anni! Quando poi la produzione è cominciata (agosto 2007) ha tenuto sempre spalancate le porte dello studio di registrazione, pubblicando il budget e perfino consentendo ai suoi sottoscrittori di ascoltare la preproduzione e votare su quali canzoni includere nell’album e quali lasciare fuori.
  3. la vecchia gloria del pop rock femminile (ed ex compagna di Tom Waits) Rickie Lee Jones la mette giù senza tanti fronzoli: “Semplicemente, non abbiamo i soldi per creare nuova musica […] Vi offriamo il vostro nome sui credits del CD per 50 dollari. Per 100, Rickie firmerà la copertina proprio per voi.” Non è molto 2.0, ma immagino che non si possa pretendere troppo. Fa un po’ impressione, perché stiamo parlando di un’artista che ha vinto due Grammy, è stata due volte in copertina su Rolling Stone e ha avuto quattro album nella top 10 di Billboard.

Tutte queste sono storie di disintermediazione (ricordate i discorsi al tempo di internet 1.0?) il cui senso è chiarissimo: l’artista è una persona che vive di mecenatismo, cioè di contributi volontari da parte di persone che nella sua arte trovano godimento ma che non sono in alcun modo obbligate a contribuire: il free riding è possibile, ma il mecenatismo dà a chi lo pratica buone vibrazioni e status.

Nell’ormai lontano 2001 pubblicavo sul settimanale “Diario” un articolo che parlava di queste cose in relazione proprio al tema del copyright, del file sharing eccetera. Si intitolava “Vivere di mance”, da una famosa frase attribuita a Courtney Love (“Sono una cameriera. Vivo di mance.”). Sostenevo che ciò che dà da mangiare all’artista non è il diritto d’autore, ma il rapporto che questi riesce ad instaurare con il suo pubblico. Di conseguenza, scrivevo, sono certo che la musica sopravviverà alla fine del diritto d’autore (mentre le multinazionali del disco probabilmente no). Non sono particolarmente bravo nelle previsioni, ma pare che quella volta ci abbia azzeccato!

 

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