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I Radiohead e la teoria dei giochi

Ritorno a bocce ferme sulla faccenda dell’inedita strategia di prezzo adottata dai Radiohead per il loro ultimo album “In Rainbows”. Come ricorderete che l’album era stato reso disponibile per il download. Non c’era un prezzo fisso, ma piuttosto un meccanismo di offerta libera: chi scaricava poteva non pagare niente, o determinare egli stesso il prezzo da pagare. I risultati sono stati abbastanza controversi: secondo alcuni (per esempio la BBC) è andata male, per altri (come il gruppo stesso, intervistato da Wired) è andata benissimo. Per un verdetto finale avremmo bisogno di dati affidabili sui pagamenti, ma quelli li hanno solo i Radiohead stessi e se li tengono ben stretti, dichiarazioni a parte.

Però c’è un aspetto della storia che è molto chiaro anche senza i dati, e cioè la struttura strategica del rapporto tra i Radiohead e i loro fans. Chi frequenta la teoria dei giochi sa che esiste un semplice gioco a due stadi che descrive molto bene l’operazione di “In Rainbows”, e cioè l’ultimatum game. Funziona così: c’è un dollaro da dividere tra due persone. Il primo giocatore a muovere offre al secondo una ripartizione di questo valore; il secondo può accettare o rifiutare. Se accetta si realizza la ripartizione proposta dal primo, se rifiuta nessuno dei due prende niente. Questo gioco ha un unico equilibrio perfetto nei sottogiochi, che è che il primo giocatore offre al secondo un centesimo, tenendo per sé gli altri 99, e il secondo accetta. Può sembrare iniquo, ma è razionale: nessuno dei due ha nulla da guadagnare a cambiare strategia. Il secondo può rifiutare, ma così perderebbe anche quell’unico centesimo. Il primo può fare un’offerta più generosa, ma dovrebbe rinunciare a parte del denaro. Il prezzo a offerta libera di “In Rainbows” somiglia moltissimo a un ultimatum game: il valore dell’album è la somma da dividere, il primo giocatore è il singolo acquirente, che deve decidere quale prezzo pagare, i Radiohead sono il secondo giocatore. Due osservazioni:

  1. se i dati dichiarati dal gruppo sono anche minimamente attendibili, moltissima gente ha giocato strategie non di equilibrio, pagando somme molto significativamente diverse da zero. Questo però è “normale” scostamento dei dati sperimentali dall’equilibrio matematico.
  2. soprattutto – dicono molti commentatori – non si capisce per quale motivo i Radiohead hanno voluto strutturare la loro interazione con il mercato in un modo così “suicida”.

A me sembra tutto chiarissimo. Immaginate di fare un album, che ovviamente incorpora valore (ci avete lavorato un anno e mezzo e speso un sacco di quattrini). Appena esce – è ovvio – qualcuno lo condivide su eMule/bitTorrent. A questo punto ogni singolo ascoltatore di musica ha tre opzioni: comprare l’album a 20 euro in negozio; comprarlo a 10 euro su Apple Music Store; scaricare gratis. Voi non potete fare altro se non accettare l'”offerta”. In altre parole, il mercato della musica registrata è già strutturato come un ultimatum game; la variante dei Radiohead però ha due vantaggi, quello di permettere la discriminazione di prezzo (mi si permette di pagare 5 euro se ritengo che quello sia il prezzo giusto, in una situazione normale avrei semplicemente scaricato gratis) e quello di costruire reciproca fiducia tra la band e i suoi fans.

Il cantante Thom Yorke ha dichiarato che il gruppo ha guadagnato 8-10 milioni di dollari nella prima settimana dell’operazione “In Rainbows”. Personalmente lo ritengo plausibile. Visto che la teoria dei giochi a qualcosa serve? (Una trattazione più completa è qui).

I veri creativi

Buffa quasi-gaffe della cult band Birdmonster intervistata da Chris Anderson. I Birdmonster, californiani di San Francisco, sono bravi con Myspace e la blogsfera: hanno rifiutato le profferte di diverse etichette e si sono autoprodotti il primo album, riuscendo a venderlo benino. Per il secondo, però, hanno deciso di firmare con l’etichetta FADER. Come mai hanno cambiato idea, chiede Chris? Volevamo concentrarci sulla musica, rispondono loro. E poi quelli di FADER sono troooppo in sintonia con il nostro modo di pensare: prima di tutto concentrano sulla musica, e poi tireremo fuori la creatività a useremo gli strumenti che ci sono per condividerla con il mondo (“and then we’ll get creative and use the tools out there to share it with the world”).

Eh, c’hanno ragione, c’hanno. Ci vuole più molta più creatività a fare funzionare una strategia di comunicazione che venda dischi sul web 2.0 che a mettere in fila i soliti quattro accordi. Ma appendere le chitarre al chiodo e occuparsi seriamente di marketing no, eh?

Un dubbio: ma “la tua radio su Last.fm” è davvero tua?

Last.fm ha lanciato una nuova iniziativa: un programma di pagamento di royalties agli artisti la cui musica viene ascoltata sulle loro radio. Lo scopro accedendo alla sezione “music manager” dei Fiamma Fumana. La mossa era annunciata dall’estate scorsa: nei prossimi giorni cercherò di farmene un’idea più precisa. In questo momento mi interessa invece porre un problema su un’altra delle funzionalità del music manager che si chiama Powerplay. Il senso è quello di comprare un certo numero di “passaggi” per i tuoi brani, da indirizzarsi a un gruppo di utenti ben individuato (immagino attraverso il tagging). I prezzi vanno da €16.50 per 100 passaggi fino a €330 per 2000.

Uhm. Un momento: ma come fa Last.fm a garantirmi che i miei brani verranno ascoltati? Semplice: li “infila” nelle radio personalizzate degli utenti (o degli artisti, per esempio “Musica simile a Fiamma Fumana” che hanno il profilo di tagging prescelto. Questo, però, vuol dire che la playlist della radio personale verrà determinata dalle preferenze che hai espresso tramite la musica che ascolti, il tagging, gli amici, il tagging degli amici… e dalle scelte degli inserzionisti. Questa è una deviazione significativa dalla vocazione peer-to-peer delle raccomandazioni di Last.fm: l’odiato marketing top down, i cui spin doctors decidono cosa farci ascoltare per fini di profitto, si riaffaccia nella scena finora serenamente 2.0 di Last.fm. Certo, l’uso del tagging farà in modo di portare heavy metal ai fans dei Panthera e new age a quelli di Enya e non viceversa, e questo è già un progresso dalle radio via etere, ma di fondo lo strumento rischia di perdere parte della sua credibilità e del suo fascino.

Sarebbe interessante capire che ne pensano Luca e Alberto, che sono utenti forti ed entusiasti dell'”ultima radio che sentiremo”.

UPD 26 gennaio: Last.fm ha messo online una pagina di FAQ sul programma di pagamento delle royalties.