Tag Archives: innovazione

Contro i beni di lusso (e Slow Food)

In quasi tutti i sistemi fiscali i consumi di lusso sono scoraggiati con una tassazione più pesante rispetto a quelli ritenuti “normali”, qualsiasi cosa questo significhi. In qualunque corso introduttivo di scienza delle finanze vi diranno che ci sono due ragioni per questo. Una è che la domanda di questi beni è meno reattiva al prezzo di quella dei beni non di lusso. Quindi un aumento della tassazione si tradurrà in una riduzione della domanda (quindi in una diminuzione del PIL), ma essa sarà minore di quella che si sarebbe avuta tassando allo stesso modo beni non di lusso. L’altra ragione è che sono in genere i ricchi a consumare maggiormente questi beni, e gli economisti sono addestrati a considerare l’equità distributiva un valore. A parità di altre condizioni, meglio tassare i ricchi.

Queste argomentazioni sono valide in un modello statico e in equilibrio. Di equilibrio, perché si concentra su quella condizione ideale (e di fatto non verificabile nella realtà) in cui tutti i consumatori hanno massimizzato la loro utilità, e tutte le imprese il loro profitto. Statico, perché in esso manca il tempo. In particolare, manca il progresso tecnico.

Per questa ragione sono contrario al movimento Slow Food, e alla presenza sempre più invadente della filiera enogastronomica nel discorso italiano sullo sviluppo locale. Hai presente il gnocco fritto? Le mie zie a Reggio Emilia lo facevano a primavera per tutti i nipoti. Potevi mangiarlo in certe trattorie dell’appennino a prezzi ridicoli. Era buono ed economico. Era un sapore di casa. Si friggeva (obbligatorio) nello strutto. Si annaffiava con il lambrusco fatto in casa, con le bollicine che scrostano il grasso di maiale dallo stomaco. Bene, dimenticatelo. Da oggi il gnocco fritto si mangia nei ristoranti infighettati con finti strumenti musicali appesi alle pareti e l’adesivo del Gambero Rosso (“cus’ela?” avrebbe brontolato mia nonna, una vera esperta in materia). Si frigge nell’olio, addensato e agglutinato per dargl la consistenza dello strutto. Costa 35 euro a coperto, e non è affatto più buono di quando costava cinquemila lire vino compreso.

Ma c’è di peggio. I marchi di garanzia che proliferano nella nostra tanto decantata filiera del gusto vengono concessi agli alimenti che vengono prodotti rispettando dei protocolli chiamati disciplinari. Nei disciplinari c’è scritto non solo cosa, ma come devi produrre. E questo è decisivo, perché blocca l’innovazione. Se vuoi il marchio devi fare tutto esattamente come tutti gli altri che hanno quel marchio. La conclusione è che i grandi prodotti veramente buoni per definizione non possono avere marchi; i grandi vini, per esempio, non sono Doc, perché mischiano vitigni di provenienze diverse per ottenere prodotti di eccellenza. Paradossale? No, perché i marchi di garanzia mica servono a fare prodotti buoni: servono ad alzare i margini. Se un genio dell’agronomia riuscisse a fare uno spumante buono come il Veuve Cliquot, ma che costa come il Tavernello, o un formaggio buono come il parmigiano reggiano con latte di cammello a cinque euro al chilo, non troverebbe nessuno disposto a dargli un marchio. Il marchio garantisce i prodotti esistenti contro la concorrenza di quelli nuovi.

Conclusione: Slow Food, come buona parte della filiera del gusto, spinge verso il mondo del lusso prodotti buoni ed economici, inventati dai nostri nonni con poco denaro e molta inventiva, e riduce il loro potenziale di raggiungere le masse. In più, disincentiva l’innovazione, facendo investimenti di marketing su marchi che garantiscono il processo di produzione e non il prodotto. Un equivalente nel mondo della tecnologia potrebbe essere un marchio di qualità per i giornali scritti a macchina anziché al computer (Slow Writing); uno nelle pubbliche amministrazioni un ufficio anagrafe che non rilascia certificati online, ma solo allo sportello (Slow Service). A me sembra una perdita secca per la società, e credo che le politiche pubbliche dovrebbero scoraggiarla, ma magari sbaglio io.

Finire la maratona: una ragione per partecipare alla conversazione globale sull’innovazione


Il mio amico Andrew Missingham sta lavorando alla strategia digitale dell’Arts Council England – che naturalmente, essendo una venerabile macchina governativa (inventata nientemeno che da John Maynard Keynes durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale), non ne ha mai avuta una e si sta chiedendo esattamente che obiettivi darsi. Secondo Andrew, l’ACE potrebbe pensarsi come una persona qualunque che decide di correre per la prima volta una maratona. Non importa quanto duramente si alleni, non ha nessuna possibilità di vincere: a vincere sarà Stefano Baldini o un altro atleta professionista. Ma, con concentrazione e dedizione – pur continuando ad andare in ufficio tutte le mattine – sarà in grado di partecipare in pienezza, riportandone l’esperienza di allenarsi per una maratona e tutta l’eccitazione del giorno di gara. Se dovesse incontrare Baldini, l’ACE sarà in grado di intavolare con lui una conversazione che – nel rispetto della sua superiorità atletica – ne ricomprenda la passione, le motivazioni, e la pressione a cui un grande maratoneta è soggetto.

Questo concetto di partecipazione a pieno titolo (“full participation”) mi sembra importante per capire le motivazioni di chi – senza essere MIT o Google o uno dei suoi grandi protagonisti – partecipa alla conversazione globale sull’innovazione. Io, per esempio, mi interesso di politiche pubbliche collaborative e user generated. Ho fatto diversi progetti piccoli e medi – come Kublai – alcuni più di successo, altri meno. Il mio contributo alla crescita della disciplina è modesto ma non inutile, o così mi piace pensare. Non sono uno dei grandi guru alla Shirky o alla John Holland, il cui lavoro tutti, io per primo, seguiamo appassionatamente. Ma partecipo allo sforzo collettivo per una più compiuta conoscenza: mi sono allenato duramente, mi impegno, e finirò la maratona con dignità. Come per tanti atleti, sento che questo sforzo mi completa e rende la mia vita più interessante e, in qualche modo, più morale. De Coubertin sarebbe da rivalutare.

Finishing the marathon: a reason for taking part in the global innovation discourse


My friend Andrew Missingham is working on the digital strategy of Arts Council England – which, being a venerable governmental machine invented by none other than John Maynard Keynes as World War II drew to an end, has never had one and is wondering what goals it should set for itself exactly. Andrew’s idea is that ACE might think of itself as an individual who decides to run the London marathon for the first time. No matter how hard it trains, ACE is not going to win it. Paula Radcliffe is. “However, with focus and dedication (alongside the day job) ACE will be able to participate fully, taking in all of the sights, sounds and excitement of the day and get the most of the journey that marathon training involves. And if ACE met Paula Radcliffe, it would be able to hold a conversation that respects her pre-eminence, whilst being able to understand the issues, passions and pressures that drive her.”

This concept of full participation seems to me to capture an important part of the motivations of those who take part in the global conversation on innovation without being MIT or Google or one of its protagonists. I, for one, am interested in collaborative and user generated public policy. I have thought up and deployed several small and medium projects – like Kublai – some more successful, some less. My contribution to the discipline is modest, but not useless, or so I like to think. I am not one of the great gurus like Shirky or John Holland, whose work I follow passionately. But I take part in the collective effort for more and better knowledge: I train hard, am committed and I will finish the marathon with dignity. Like so many athletes, I feel this effort completes me and makes my life more interesting and, yes, moral. De Coubertin did have something going on after all.