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Le notizie sono tossiche

Pensate di vivere in un paese sicuro? I reati stanno aumentando o diminuendo? Lavoce.info – che Dio ce la conservi – pubblica questo grafico, tratto da una indagine promossa dalla Fondazione Unipolis e curata da Ilvo Diamanti.

L’attenzione data dai media ai reati non è per nulla correlata con la quantità di reati effettivamente connessi. Già questo non depone esattamente a favore del famoso giornalismo professionale. Ma c’è di più: considerate quest’altro grafico, che descrive i risultati di un esperimento condotto dallo psicologo Paul Slovic sui bookmakers che trattano scommesse sulle corse dei cavalli. Slovic ha raccolto informazioni statistiche riguardo ai cavalli che avrebbero corso una certa serie di gare; disponeva, per ciascun cavallo, di 88 variabili. Ha rivelato ai bookmakers i dati sulle 5 variabili che ritenevano più importanti, chiedendo poi loro di fare previsioni sull’esito di queste gare e di valutare quanto, secondo loro, queste previsioni fossero affidabili. Poi ha aggiunto di volta in volta nuove variabili, sempre chiedendo ai bookmakers nuove previsioni e nuove valutazioni dell’affidabilità delle previsioni stesse.

slovic

Come vedete, man mano che aumentano le informazioni disponibili, la capacità dei bookmakers di fare previsioni azzeccate sulle corse non migliora (e rimane attestata su valori bassi, intorno al 15%). Pare che tutta l’informazione rilevante sia concentrata nelle prime 5 variabili! In compenso, la loro fiducia nelle proprie previsioni (sbagliate) aumenta molto. Conclusione:

1. voi non sapete se i reati stiano aumentando o diminuendo. Ammettiamolo, è tutto un “cara signora, non si può più andare in giro” e un “mio cuggino (con due g) ha un amica che…”.

2. leggere i giornali o guardare le TV non vi darà nessuna informazione addizionale. Aumenterà invece la vostra illusione di sapere una cosa che invece non sapete, rendendovi molto sicuri di voi stessi nell’intervenire nei discorsi da bar. Se volete capire quanto è sicuro il territorio in cui vivete, le ricostruzioni della strage di Erba o del delitto di Perugia sono inutili e dannose. Cercatevi piuttosto in rete le serie storiche sui reati, con un po’ di pazienza si trovano. Qui, per esempio, c’è una ricerca che ricostruisce l’andamento dei reati in tutte le province dell’Emilia Romagna dal 1984 al 2006.

Io una volta leggevo due quotidiani al giorno. Adesso ne leggo al massimo due alla settimana. Non ho la TV. Non ascolto la radio. Leggo qualche blog, in genere molto specializzati. Non mi sembra di capire meno il mondo in cui vivo: ne capivo poco prima, ne capisco poco anche adesso. I discorsi da bar, ecco, quelli sono diminuiti. Molto.

Canto d’amore per Dergano

Ragazzi in piazza Dergano, a Milano

Da qualche mese mi sono stabilito a Dergano, un quartiere di Milano nord. E’ un posto assolutamente straordinario, tanto che faccio perfino fatica a descriverlo. “Non sembra di essere a Milano” ci ripetiamo  Vanessa e io. L’impressione, infatti, è quella di essere in un piccolo paese italiano, e non di adesso, ma dei primi anni 70. Ci sono due botteghe di fabbro. Ci sono i negozi di ferramenta con i muri completamente occupati da piccoli cassetti in legno scuro per viti e chiodi di varie dimensioni. Ci sono le trattorie dove gli operai in tuta vanno a pranzo. La mia preferita è “da Amilcare”: ha l’insegna in bachelite e serve piatti d’altri tempi come consommé in tazza (un euro e ottanta) e maccheroni con ragù (due euro e dieci). Ci sono gli anziani che se la raccontano ai giardinetti. C’è una sezione del PD incredibilmente aperta tutte le domeniche (domenica un signore mi ha fermato per vendermi L’Unità: ovviamente l’ho comprata, commosso. Nostalgia canaglia). Fanno una festa di quartiere che dura dieci giorni, interamente basata sul volontariato. E’ evidente la vocazione produttiva del quartiere: ciminiere, gasometri, rotaie. Tutta questa roba in Emilia ce la sogniamo, è scomparsa da venticinque anni.

Ma è chiaro che la similitudine con il paese emiliano anni 70 è incompleta. Dergano è stato comune fino al 1868, ma ora è parte della zona 9 di Milano, che comprende anche Isola, Bovisa, Niguarda, Affori e Bruzzano e mette insieme 194mila e passa abitanti. Ci sono 26mila stranieri residenti, di tutti i continenti e di tutte le culture: quattromila egiziani, altrettanti cinesi, oltre tremila filippini, duemila ecuadoregni abbondanti, altrettanti peruviani, milleseicento cingalesi, ottocento rumeni, altrettanti marocchini e albanesi, seicento bengalesi. Ci sono templi di tutte le religioni principali: la chiesa cattolica di San Nicola Vescovo (il santo che ha fatto carriera come Babbo Natale) dalle formidabili campane in bronzo; la famosa moschea di Viale Jenner; la sala del regno dei Testimoni di Geova in via Monte San Genesio; e in via Manzotti, proprio nel mio palazzo, la chiesa evangelica, che il sabato si riempie di neri elegantissimi nel vestito della festa, e li senti cantare. C’è il bar di Mario e Gio (lui ex pilota da corsa, lei ex fioraia e oggi artista) sempre pronto ad accogliere noi profughi delle notti milanesi. C’è una bellissima biblioteca con un giardino di lettura, una sala multimedia pensata per l’accesso ai disabili, e una collezione di libri in lingua cinese (!). Ci sono grandi e coloratissimi murales “resistenti”. Ci sono le ronde padane (ma la zona 9 è l’unica a maggioranza di centrosinistra). Ci passa la linea 3 della metropolitana, e prima dell’Expo dovrebbe arrivare anche la linea 6. C’è il Politecnico, nella confinante Bovisa. Ci sono le prime battute di un nuovo movimento di immigrazione, da parte di giovani professionisti e aziende in cerca di spazio (relativamente) a buon mercato: per esempio la Universal, mia ex casa discografica, si è trasferita in via Imbonati.

Siamo in città, eccome. Della città abbiamo la vitalità pazzesca, lo stratificarsi e il ricombinarsi delle storie individuali che dà origine a uno “spirito del luogo” diverso da tutti gli altri, come nella Belleville di Daniel Pennac. Stamattina una signora anziana si è fermata a fare un complimento a una giovane egiziana in caftano candido e foulard sui capelli: “Come sei bella! Come ti sta bene! Ha visto, signore, come sta bene?”. Mi piace Dergano, è un laboratorio e ha futuro. Noi che viviamo qui abbiamo il diritto e il dovere di raccontarla, per non lasciare tutto il campo alla solita informazione italiana, ai suoi luoghi comuni e alla sua negatività.

Velocità o coordinamento? Scelte difficili per Visioni Urbane

Ieri ero a Roma per una megariunione con lo stato maggiore di Visioni Urbane. E’ stato molto utile e interessante, anche perché Lorenzo Canova – che, per semplificare, potrei definire il “capo” del gruppo di Sensi Contemporanei, e quindi di Visioni Urbane – e il suo braccio destro e mio coautore Tommaso Fabbri erano entrambi in grande forma. Siccome si tratta di persone (molto) intelligenti e con riferimenti teorici molto ricchi e diversi dai miei, quando sono in forma c’è da divertirsi!

Tra l’altro, abbiamo parlato di una cosa che ha implicazioni metodologiche molto interessanti. Il succo è questo: l’incontro con i creativi lucani fatto il 17 ottobre, per altri versi molto positivo, ha lasciato un po’ di confusione circa quello che, nel merito, il progetto propone ai creativi stessi. In un processo condotto con strumenti tradizionali, la cosa si sarebbe parcheggiata lì in attesa di chiarimenti: ma Visioni Urbane comunica con i suoi interlocutori attraverso un blog, e il blog è bidirezionale. Quindi molte persone hanno fatto domande abbastanza puntuali attraverso commenti lasciati sul blog. Chi può partecipare al progetto? Per fare cosa? I gruppi di lavoro corrisponderanno ai quattro approfondimenti proposti? Se no, su che cosa lavoreranno? E così via.

Nel frattempo il gruppo di VU aveva deciso di riunirsi, appunto, ieri – cioè il 9 novembre – per fare un punto generale sull’incontro del 17. La riflessione collettiva sui punti proposti dai commenti sul blog, quindi, era rinviata alla riunione. Questo mi preoccupava: l’incontro del 17 aveva generato un’ondata di entusiasmo e partecipazione che, in assenza di nostre iniziative in tempi rapidi, rischiava di riassorbirsi (questo si vede anche dalla diminuzione delle visite al blog e dei commenti a partire dell’ultima settimana di ottobre). Mi sono quindi assunto la responsabilità di scrivere una pagina di FAQ sul progetto, specificando che si trattava di una versione beta, cioè della mia posizione, che andava verificata con il gruppo.

Ebbene, l’obiezione di Tommy a questa iniziativa è stata: hai fatto male, perché alcune delle cose che hai scritto, a valle della riunione, andranno corrette. Come gruppo VU dobbiamo spendere energie per correggere un’informazione inesatta, e questo ci aumenta i costi di coordinamento. Meglio aspettare la riunione (anzi, il dopo riunione: due pagine di verbale prodotte da Alfredo e fatte circolare). Con la stessa logica, mi aveva chiesto di non pubblicare sul blog la mia relazione intermedia sul progetto, che pure era pronta il 21-22 ottobre, prima che circolasse un verbale condiviso di riunione.

Naturalmente Tommy ha ragione, aggiustare il tiro ex post è un aumento dei costi di coordinamento. Le mie argomentazioni a favore dell’esporsi comunque, rischiando una smentita, sono queste:

  • Entropia sociale. Ogni settimana che fai passare cala l’entusiasmo, e cresce la tentazione di rileggere il passato in termini dell’ennesima falsa partenza: “Questi sono venuti, hanno fatto tanti bei discorsi, poi sono tornati a Roma, il blog è fermo e chi s’è visto s’è visto.”
  • Modalità della comunicazione in rete. Nella comunicazione tradizionale ti proponi come uno fighissimo, che ha tutte le risposte: in quella in rete apri una finestra sui problemi, i dubbi, le sfighe. Questo, paradossalmente, risulta vincente, perché genera credibilità (ne ha scritto Clive Thompson su Wired). In questo senso scrivere delle FAQ provvisorie e poi correggerle è un elemento perfettamente accettabile della comunicazione.
  • Educazione alla complessità. Vedendo questi nostri processi interni, la community – o almeno la sua parte più avvertita – dovrebbe capire che questi sono molto complessi, e che noi non abbiamo superpoteri o bacchette magiche. E, di conseguenza, responsabilizzarsi.
  • Struttura di deleghe. I costi di coordinamento implicati dal cambiamento delle FAQ – e, simmetricamente, quelli implicati dal non dare risposta alle domande espresse dai creativi – non si scaricano su tutto il gruppo di progetto, il quale in fondo fa la sua riunione e prende le sue decisioni esattamente come se la FAQ non fossero mai state scritte. Si scaricano, invece, sul pezzo di progetto che gestisce la community. Quindi sembra appropriato che sia questo pezzo a decidere se preferisce accollarsi i costi di coordinamento o quelli di rivitalizzazione di una community “ammosciata” dai tempi lunghi .
  • Sperimentazione metodologica (questa è una meta-argomentazione che si innesta su quelle precedenti). Il progetto VU ha anche un senso di sperimentazione di metodi nuovi. Questo, in una situazione in cui dobbiamo scegliere tra strade con vantaggi e svantaggi diversi, dovrebbe spingere nella direzione della scelta della meno sperimentata tra le alternative disponibili.

Secondo me, in realtà, questo post dovrebbe stare sul blog di VU, non su quello di The Hub, sarebbe interessante chiedere ai creativi lucani con cui lavoriamo se loro preferiscono che noi ci prendiamo il nostro tempo e poi gli “diamo la linea” o se invece si trovano meglio con un flusso di informazioni più ricco ma meno organizzato, in cui ricostruire anche la discussione interna al gruppo, le posizioni relative di DPS e Regione ecc. Ma questo significa aprire al territorio la discussione di metodo, e vorrei che Lorenzo e Tommy ne fossero convinti!