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Finire la maratona: una ragione per partecipare alla conversazione globale sull’innovazione


Il mio amico Andrew Missingham sta lavorando alla strategia digitale dell’Arts Council England – che naturalmente, essendo una venerabile macchina governativa (inventata nientemeno che da John Maynard Keynes durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale), non ne ha mai avuta una e si sta chiedendo esattamente che obiettivi darsi. Secondo Andrew, l’ACE potrebbe pensarsi come una persona qualunque che decide di correre per la prima volta una maratona. Non importa quanto duramente si alleni, non ha nessuna possibilità di vincere: a vincere sarà Stefano Baldini o un altro atleta professionista. Ma, con concentrazione e dedizione – pur continuando ad andare in ufficio tutte le mattine – sarà in grado di partecipare in pienezza, riportandone l’esperienza di allenarsi per una maratona e tutta l’eccitazione del giorno di gara. Se dovesse incontrare Baldini, l’ACE sarà in grado di intavolare con lui una conversazione che – nel rispetto della sua superiorità atletica – ne ricomprenda la passione, le motivazioni, e la pressione a cui un grande maratoneta è soggetto.

Questo concetto di partecipazione a pieno titolo (“full participation”) mi sembra importante per capire le motivazioni di chi – senza essere MIT o Google o uno dei suoi grandi protagonisti – partecipa alla conversazione globale sull’innovazione. Io, per esempio, mi interesso di politiche pubbliche collaborative e user generated. Ho fatto diversi progetti piccoli e medi – come Kublai – alcuni più di successo, altri meno. Il mio contributo alla crescita della disciplina è modesto ma non inutile, o così mi piace pensare. Non sono uno dei grandi guru alla Shirky o alla John Holland, il cui lavoro tutti, io per primo, seguiamo appassionatamente. Ma partecipo allo sforzo collettivo per una più compiuta conoscenza: mi sono allenato duramente, mi impegno, e finirò la maratona con dignità. Come per tanti atleti, sento che questo sforzo mi completa e rende la mia vita più interessante e, in qualche modo, più morale. De Coubertin sarebbe da rivalutare.

RFC: Virtual Community vs. Social Network (Italiano)

Virtual community vs Social network.001
Sto rileggendo il bellissimo The virtual community, e non posso fare a meno di paragonare il senso di comunione che Rheingold avvertiva sul WELL nel 1993 (lo chiama proprio “communion”), con quello di estraneità che mi accade talvolta di provare sui social network del 2009, e che ha espresso molto bene Enrico nella sua nota di addio a Facebook. Cosa ci facciamo qui? Come ci siamo finiti, se la rete del 1993 era quella descritta da Rheingold?

Mi chiedo se questo abbia a che vedere con il crescente protagonismo in rete di persone e imprese che cercano di rileggere Internet come uno strumento per la comunicazione aziendale e il marketing. Non ho niente contro il marketing e la comunicazione: persone a me molto care, sia in rete che fuori, si guadagnano da vivere proprio in questo campo. Ma non mi piace che nei social network moderni non sia sempre facile capire se i tuoi “amici” sono persone, aziende, a volte persone che in certi casi parlano a nome di aziende. La pubblicità è pervasiva e lo è a volte in modo subdolo, per cui ci si ritrova esposti a messaggi promozionali in un contesto relazionale senza preavviso. E’ come se invitassi degli amici a cena, e uno di loro usasse l’occasione per tentare di vendermi una polizza assicurativa. L’effetto netto di queste cose, com’era prevedibile, è la diffidenza: ogni contatto umano in rete comincia ad apparirti sospetto, banalizzato.

Nel 1600 inglese persone intraprendenti cominciarono a recintare le tradizionali terre comuni (commons) per coltivarle e appropriarsi del relativo profitto, distruggendo una risorsa economica molto importante per le famiglie povere, ma non era proibito. Sarebbe stato stupido non approfittarne. Se non l’avessero fatto loro l’avrebbero fatto altri. Ne seguì l’azzeramento completo delle terre comuni. Mi sembra che il passaggio da comunità virtuale a social network comporti un’azzeramento dei commons digitali, creati dalla ricerca governativa dell’era Sputnik e oggi appropriati dalle aziende a fini di promozione e intrattenimento; con l’aggravante che, venendo a mancare lo spirito di condivisione dell’etica hacker, potrebbe rallentare anche il formidabile generatore di innovazione che la rete è stata fino a oggi. Mi chiedo, e chiedo a voi: è inevitabile tutto questo?

UPDATE: qui la discussione su Friendfeed.

Top 3 (divertenti) errori matematici dei guru della rete

<disclaimer>NON intendo esprimere altro che i più profondo rispetto per gli intellettuali che nomino in questo post. Essi sono infinitamente più saggi e acuti di quanto io sarò mai, e io non sono che polvere sotto i loro piedi. Ma questa è internet, quindi bisogna pure editare e commentare, anche e soprattutto i Grandi. Ecco quindi la mia classifica degli errori matematici commessi dai guru della rete!</disclaimer>

1. Primo premio al grande Howard Rheingold, in Smart Mobs, dove ci descrive la legge di Reed e la paragona a quella di Metcalfe. Così:

[…] il valore di [una rete di] dieci nodi è cento (dieci alla seconda potenza) secondo la legge di Metcalfe e 1024 (due alla decima potenza) secondo la legge di Reed […]. [p. 60]

In realtà queste formule non rappresentano il valore di una rete. Una rete di dieci nodi varrebbe quindi 1024… cosa? Dollari? Pistacchi? Biglietti della lotteria? Ovviamente no. La risposta è che il numero 1024 non è affatto un valore, ma il numero di sottogruppi possibili in un grafo con dieci nodi tutti connessi tra loro. La formulazione corretta – usata infatti da David Reed stesso – è che il valore di una rete in cui si possono formare gruppi (group-forming network) di N nodi cresce proporzionalmente al numero dei sottogruppi in essa possibile, e quindi esponenzialmente a N. In più le formule usate da Rheingold – e quindi i risultati – sono proprio sbagliate: dieci nodi hanno 10x(10-1)/2 = 45 connessioni e non cento, e i sottogruppi possibili sono 2 elevato alla decima potenza meno 11, quindi 1013 e non 1024.

2. Secondo premio a uno dei miei autori preferiti, Clay Shirky. In Here comes everybody – libro splendido – Clay descrive in modo corretto la soluzione di equilibrio all’ultimatum game (buffo, ne avevo parlato qui). Poi racconta ciò che avviene giocandolo nei laboratori di economia sperimentale:

[…] in pratica, tuttavia, il secondo giocatore si rifiuta di accettare una divisione percepita come troppo diseguale (meno di $3 sui $10 totali) anche se questo significa che nessuno dei giocatori riceverà alcunché. Contraddicendo la classica teoria economica, in altre parole, abbiamo una volontà di punire coloro che ci trattano ingiustamente anche sopportando costi [..] [p. 134]

Questo non è proprio un errore matematico, ma omette una cosa talmente importante da mettere a rischio la conclusione, e cioè che questi risultati sperimentali sono viziati da un sacco di problemi, di cui il principale è che dipendono dai valori assoluti dei premi, e non solo dalla divisione proposta. Se giocate l’ultimatum game con 1 miliardo di dollari, e il primo giocatore vi offre un centesimo di quella somma, cioè dieci milioni di dollari, voi intascate i dieci milioni, non vi rinunciate per il gusto di togliere a lui 990 milioni! La questione è aperta, e sarebbe opportuno descriverla come tale.

3. Infine, premio simpatia al guru dei guru Chris Anderson che ha recentemente dedicato un post molto acuto al rischio di generalizzazioni. E scrive:

Ma ora stiamo entrando in un mondo di insiemi infiniti, e questo sconvolge le nostre abitudini linguistiche. Qual’è il numero di “scrittori” in un’era di blog, il numero di “fotografi” in un’era di Flick e di macchine fotografiche incorporate nei cellulari, o “videomakers” nell’era di YouTube?

Pura saggezza di guru. Il problema è nel titolo del post: “Tredici parole che perdono significato quando il denominatore tende all’infinito”. Le parole sono locuzioni che servono alla generalizzazione, come “la maggior parte” (“la maggior parte dei blog”, per esempio), o “la media” (“il video su YouTube medio”, per esempio) . Come i lettori di Chris hanno fatto notare (leggete i commenti, sono divertentissimi), è certamente vero che dire “i blog sono personali” è una generalizzazione insensata, ma questo non ci accucchia proprio niente con denominatori e infiniti. Una frase come “per la maggior parte del tempo passato e futuro, gli umani non sono esistiti e non esisteranno” è vera anche se il denominatore (l’età dell’universo al momento del Big Crunch) è quanto di più vicino all’infinito possiamo concepire. Dopo una raffica di commenti di questo tipo, Chris commenta a sua volta:

Sì, potete contarmi tra quelli che a volte usano il linguaggio matematico in modo approssimativo per esprimere un’opinione. Ma almeno io lo ammetto!

Come si fa a non volergli bene, a uno così? :mrgreen: