Come gli open data cambieranno la ricerca sociale


Circa un anno fa, mentre cercavo di fare la mia parte nella primavera silenziosa del governo aperto in Italia, ho fatto una scoperta straordinaria: grandi organizzazioni autorevoli che raccolgono e diffondono dati economici e sociali li stavano rilasciando in formati aperti. Questi dati sono molto rilevanti per quello che faccio nella vita: setacciare informazione per costruire modelli di mondo localmente rilevanti, sulla base dei quali agire in direzione di qualche forma di miglioramento nel nostro ambiente sociale ed economico. I dati, naturalmente, sono una forma di informazione. Improvvisamente ce n’erano molti: Banca Mondiale, OCSE, Eurostat e altri si erano messi a pubblicare grandi basi dati scaricabili. Ho passato un po’ di tempo a familiarizzarmi con gli strumenti di preview e di analisi completa messi a disposizione da queste organizzazioni: alcuni sono più intuitivi di altri, ma in generale la cosa mi è sembrata noiosa e dispendiosa in termini di tempo. È così che ho cominciato a preoccuparmi che la gente potesse trovare il tutto troppo complicato, e finisse per non usare affatto i dati: viene da qui la mia ossessione per stimolare la domanda di dati e la data literacy.

Pare che abbia sopravvalutato le difficoltà di interagire con i dati aperti. Qualche settimana fa avevo bisogno di alcuni dati che riguardano i giovani europei non occupati e non impegnati nella scuola, nell’università o nella formazione professionale (NEETs). Mi sono accampato sul sito di Eurostat e, con un po’ di tentativi, errori e conversioni di file sono riuscito a produrre il grafico tutto colorato che vedete qui sopra. L’ho fatto in modo che indicasse a me e ai miei colleghi una storia piuttosto potente, e cioè che la transizione dalla parziale indipendenza dell’adolescenza alla piena indipendenza della vita adulta è diventata così lunga e difficile che il concetto di “giovani” si sta sfaldando in una diminuzione generale dell’autonomia della popolazione adulta. Il mio lavoro è stato reso molto più semplice dal pre-filtraggio online dei dati: invece di farmi scaricare tutto il database, Eurostat mi ha permesso di selezionare gli indicatori, i paesi e gli anni che mi interessano. Una volta soddisfatto, ho cliccato “download”, e il sistema ha generato per me un file che contiene solo quelli. È più difficile che, poniamo, guardare Captain America, ma molto più semplice che non scartabellare pagine di tabelle.

Questo mi ha fatto pensare a come nuovi strumenti abbiano rivoluzionato la professione di economista già due volte nell’arco della mia vita. Quando ho iniziato a lavorare nel 1991, ero parte della prima generazione di ricercatori che non ha mai fatto ricerca senza i personal computer. Gli istituti di ricerca avevano ancora segretarie per battere e rilegare i rapporti finali (anche se quei posti di lavoro si stavano rapidamente liquefacendo); i miei colleghi più anziani avevano prodotto un sacco di risultati solidi usando mainframes, calcolatrici e macchine da scrivere. Di uno di loro si diceva che avesse invertito una matrice 20×20 a mano per fare l’analisi input-output di un’economia locale. Un anno dopo, a Londra, ho visto per la prima volta il terminale di un computer connesso a Internet; nel 1994 era diventato normale, per gli economisti, trasmettersi documenti in formato digitale da una parte all’altra del pianeta.

I dati aperti potrebbero essere la prossima rivoluzione in questo senso. I non-quantitativi come me sono abituati a rivolgersi a uno statistico per qualunque cosa vada oltre il copia-e-incolla di grafici e tabelle prodotti da qualcun altro. I dati aperti e il software a buon mercato per la statistica e la visualizzazione stanno cambiando questa situazione: qualcuno come me, che capisca un po’ di statistica ed econometria, può provare a montare semplici modelli di regressione al volo, trasformandosi da lettore a produttore di dati elaborati. Quando troviamo qualcosa di promettente, possiamo sempre rivolgerci allo statistico perché ci lavori sopra di fino. I benefici sono evidenti: più intuizioni possono essere sottoposte a un reality check rapido, anche se rozzo; e man mano che interagiamo con i dati, ci ritroviamo a cercare articoli di Wikipedia su cose come misure di fit o logit multinomiali. Diventiamo più bravi a elaborare i dati, e quindi a interpretare i dati elaborati da altri. È plausibile che la prossima generazione di ricercatori userà i dati aperti tutti i giorni, come oggi usiamo Google, e si chiederà come facessero quei poveri diavoli negli anni 2000 (noi) a farne a meno. Proprio come faccio io quando penso al mio collega con la sua matrice 20×20 da invertire a mano.

Un pensiero su “Come gli open data cambieranno la ricerca sociale

  1. Flaviano

    Condivido in pieno. E’ un grande cambiamento che peraltro ha coinvolto anche l’Istat. Sarà l’effetto della nuova presidenza… che peraltro viene dall’Ocse.

    Replica

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