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Muoversi a stormi: regole per l’interazione locale per influenzare i social network


Nella seconda metà degli anni 80 mi sono interessato per un po’ di computer graphics, e mi sono imbattuto in Symbolics, uno spinoff del MIT AI Lab che si occupava tra l’altro di visualizzazione avanzata. Questo video, presentato da Symbolics a SIGGRAPH 1987, mi colpì moltissimo: come facevano a fare muovere uno stormo di uccelli in un modo così naturale? Al tempo sembrava stregoneria, e io del resto ero uno studente di economia della provincia italiana, senza nessuna possibilità di capire il lavoro dei maghi del computer del MIT; quindi ho accantonato la domanda. Fino a che, nel 2009, mi è capitato di leggere un libro del 1992,  Complexity di Mitchell Waldrop, che ha la risposta alla mia domanda di 22 anni prima. Ogni uccello dello stormo (o pesce del banco), segue tre semplici regole di comportamento:

  1. Prova a mantenere una distanza minima dagli altri oggetti dell’ambiente, inclusi gli altri uccelli/pesci (Craig Reynolds a Symbolics li chiamava “boids”).
  2. Prova ad adeguare la propria velocità a quella degli altri uccelli/pesci nelle vicinanze.
  3. Prova a spostarsi verso il centro di gravità degli altri uccelli/pesci nelle vicinanze.

La naturalezza dei movimenti dello stormo è emergente. Per quanto ne sa il programma, non c’è nessuna entità chiamata stormo: sta animando dei singoli boids. Semplici regole di interazione locale tra di essi producono un comportamento collettivo elegante ed efficace.

Aspetta un attimo. Questo non è poi così diverso da quello che succede in Kublai. Esempio: volevamo che la community salutasse i nuovi iscritti. Naturalmente non è una cosa che si possa fare per decreto. Quindi abbiamo fatto così: Walter e io, che siamo amici e anche membri molto attivi della community, abbiamo creato un Welcome Group e abbiamo iniziato a farlo. Questo ha generato un movimento che può ricordare il volo di un (piccolo) stormo: i nostri “vicini di rete”, o almeno alcuni di essi, si sono a loro volta iscritti al gruppo e hanno iniziato anch’essi a dare il benvenuto ai nuovi entrati. In breve tempo hanno sviluppato un modo più efficace di tenere nota di chi stava facendo cosa (dopo un po’ di tentativi-ed-errori Pico ha proposto un widget che va bene per tutti), e i loro vicini di rete hanno cominciato a imitarli… iniziatori compresi!

Le communities sono, per definizione, impossibili da controllare; ma certamente è possibile influenzarle. Questa affermazione è abbastanza ovvia, molti di noi ne hanno fatto esperienza. Questa intuizione di volare a stormi, se confermata dall’analisi, potrebbe portare allo sviluppo di tecniche per influenzare i social network (non solo sicuro che “gestire” sia una parola appropriata) basate sulla costruzione di “isole” di interazione locale in cui certe regole sono accettate, e da cui poi queste regole si propagano attraverso le connessioni della rete stessa. Naturalmente la localizzazione di queste isole è importante: in Kublai Walter e io siamo le persone di gran lunga più centrali negli autovettori, secondo Ruggero.

Mi chiedo se questo meccanismo possa aiutarci a capire perché la gente sembri “troppo collaborativa” sui social networks e perché, di converso, i comportamenti opportunistici siano molto meno diffusi di quanto si possa pensare “da fuori” (e infatti “da fuori” la rete sembra un luogo pericoloso ai vari D’Alia, Carlucci, Rossi et cetera). La cooperazione è una proprietà emergente delle reti, anziché una intrinseca delle persone?

Serve ancora il principio di sussidiarietà?

Ormai è un po’ di tempo che progetto e realizzo interfacce tra amministrazioni pubbliche e cittadini (in particolare tra amministrazioni e creativi). La strategia sottesa dietro a queste interfacce è molto semplice: collegare tra loro le persone – quelle che lavorano nelle istituzioni e quelle che lavorano nelle imprese creative – in un ambiente di interazione molti-a-molti e con un’informazione molto trasparente. Gli strumenti del web 2.0 e un appropriato sistema di valori – che David fa coincidere con l’etica hacker – hanno per ora risolto brillantemente il problema del filtraggio: gli amministratori in rete non sono sommersi da postulanti e scocciatori vari, e anzi mostrano di godersi molto la vicinanza alle persone e al loro agire sul territorio.

Queste interfacce permettono una forte riduzione della distanza tra amministratori e amministrati. Il MISE-DPS è un’autorità centrale, ma per i frequentatori di Kublai è “just one click away”. E’ del tutto evidente che i kublaiani lo sentono molto, molto più vicino e accessibile delle loro autorità locali trincerate nei palazzi (e quasi sempre imprigionate dietro firewalls che inibiscono loro l’accesso ai social networks).

Mi chiedo se, in questa situazione, non sia il caso di ripensare il principio di sussidiarietà. Per come lo capisco, dice che le politiche pubbliche vanno gestite dall’autorità più locale possibile, compatibilmente con il problema che si tenta di risolvere: così, in Europa, i problemi ambientali transnazionali vanno affidati all’Unione Europea, mentre il piano regolatore di Pisticci lo fa il comune di Pisticci. Detto così sembra semplice; purtroppo, nel mondo globalizzato, quasi ogni problema locale è inestricabilmente legato a problemi che insistono su territori più ampi. Per esempio, è completamente insensato che il piano regolatore di Milano sia sviluppato in isolamento da quello di Sesto San Giovanni (e viceversa). Non è sempre facile capire in astratto quale sia l’amministrazione “più vicina al problema”. In concreto, invece, è facilissimo: l’amministrazione più vicina è quella più accessibile, quella con la migliore usabilità dell’interfaccia. Per i creativi di Kublai è molto più semplice e divertente parlare con il Ministero dello sviluppo che con il loro Comune, e questo significa che tenderanno a stringere rapporti con il primo e a saltare il secondo. La sussidiarietà vecchia maniera è insostenibile.

Può valere la pena di studiarsi il sistema inglese (io l’ho fatto qui). Il lavoro viene diviso non per territori, ma per issues. Il centro gestisce i fondi, e quindi ha molto potere di impulso e indirizzo; piccole organizzazioni semipubbliche operanti sul territorio provano a dare soluzioni, in concorrenza tra loro per i fondi di Whitehall. Il sistema – almeno per le politiche della creatività – funziona piuttosto bene. Non è un caso che gli inglesi abbiano deciso – in un referendum del 2004 – di NON volere autorità regionali democraticamente elette. La distanza dai problemi qualche volta è garanzia di equanimità (e la politica locale può essere tossica). Tanto più che, con un minimo di sforzo, un’autorità centrale può essere “just one click away”.

Do we really need the subsidiarity principle anymore?

For some time now I have been designing and deploying interfaces between public authorities and citizens (in particular between authorities and creative people/creative firms). The strategy behind them all is very simple: connect people – those who work for public authorities and those who work in the creative industries – in a many-many-interaction environment with very transparent information. Web 2.0 tools and an appropriate value system – that David maintains coincide with hacker ethics – have so far brilliantly solved the filtering problem: civil servants in these networks are not clogged by people asking for favours. On the contrary, they give every sign of enjoying their proximity to citizens and what they do.

These interfaces allow a strong reduction of the distance between administrators and constituencies. The Ministry of economic development is a central authorities, but to the creatives populating Kublai it is just one click away. It is pretty obvious that Kublaians have a much, much closer relationship with it than with their local authorities, closed within their palaces (and almost always locked behind firewalls that inhibit their access to social networks).

I wonder if, in this situation, we should not rethink the subsidiarity principle. As far as I can see it says that public policy should be managed by the most local public authority which has the means to address the problem in discussion: so, in Europe, the European Union deals with global environmental planning, while urban planning in the smalltown of Pisticci is dealt with by the Pisticci municipality. This sounds simple; unfortunately, in a globalized world almost every local problem is inextricably linked to some broader context. Urban planning in metropolitan areas is a perfect example: it does not make sense to plan according to administrative borders if the economy and the society are integrated beyond it. So, it is not always easy to understand in the abstract which authority is closest to any particular problem. In practice, on the other hand, it is very simple: the closest authority is the one the least clicks away, the most accessible, the one with the best interface. For Kublai’s creatives it is a lot easier – not to mention more rewarding ad even fun – to talk to the Ministry of economic development than to their municipal governments, so they will tend to strentghen their ties with the former and ignore the latter. Old style subsidiarity is unsustainable.

It may be worth it to study the British setup (I have done it here). Policy competences are allocated not geographically, but by issues. Funding is centralized, so the central government has a lot of traction: when a strategy is adopted (like the first Blair government’s stance on the creative industries) things happen fast. But strategies are in general implemented locally, by small semipublic organizations who try out solutions competing with one another for funding from Whitehall. The system – at least for policies on creativity – works fairly well. It is no chance that the English – in a 2004 referendum – have decided that they do NOT want democratically elected regional authorities. A certain distance from the problem sometimes guarantees a broader perspective (and local politics can be toxic). All the more so since, with a little effort, central authorities can be just one click away.