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Gli agenti di sviluppo dove meno te li aspetti

La Grecia della crisi, a quanto pare, è una fucina di innovazione: sarà che molte obiezioni a mosse radicali e audaci tendono a indebolirsi quando si capisce che business as usual non è tra le alternative disponibili. Perka, a Thessaloniki, riunisce 200 persone che praticano l’agricoltura urbana in una base militare abbandonata. Anosi, a Volos, ha montato un ingegnoso sistema “intermediari zero” per la distribuzione di prodotti alimentari; Spithari costruisce una comunità semi-autosufficiente “in mezzo al nulla”. E sono solo alcuni esempi.

Io queste cose le so perché le ha scoperte il mio amico Petros di FreeLab (potete vederlo nel video sopra). Nella prima fase di un progetto chiamato Expedition Freedom, ha setacciato la Grecia continentale in cerca di storie interessanti, conosciuto le persone al centro di questi progetti, e le ha convinte a condividere la loro esperienza per il bene di tutti. Questo è un risultato di tutto rispetto: denota un metodo efficace nella ricerca e buone abilità diplomatiche nel conquistare la fiducia di queste persone (alcuni greci non si sentono troppo ben disposti nei confronti di ricercatori europei, comprensibilmente). Il tutto è ancora più impressionante si si pensa che Petros non è greco e non parla greco.

Probabilmente ti sei fatto l’idea che Petros sia un brillante economista dello sviluppo. E lo è, nei fatti – Expedition Freedom è un signor progetto di sviluppo, almeno tanto quanto il “mio” OpenPompei. Ma non lavora per un governo, un’organizzazione intergovernativa come la Banca Mondiale, o una grande ONG. È un ex piccolo imprenditore informatico; quando la sua impresa è fallita e si è trovato senza nulla, ha deciso di diventare “un contributore sociale a tempo pieno – viandante, anarcopositivista, scrittore politico e attivista senza fissa dimora”. Con le sue modeste risorse, ha messo in piedi la fase di ricognizione di Expedition Freedom, facendo l’autostop per oltre mille chilometri attraverso il Peloponneso. Ha raccolto un po’ di denaro – pochissimo – per le cose che non poteva sostituire con il proprio tempo e il proprio lavoro – la comunità di Edgeryders e io stesso gli abbiamo dato un piccolo aiuto, comprando alcuni oggetti in una lista della spesa che aveva fatto. L’oggetto più costoso era il biglietto del bus dalla Grecia fino al ritorno in Polonia, 100 euro.

E quindi? Da diversi anni esploro le frontiere dell’economia, affascinato dall’ingegnosità umana ai margini. Mi sono convinto che gli hackers, gli attivisti, gli appassionati del fai-da-te siano una vera forza di sviluppo – forse l’unica forza fresca che possiamo ancora mettere in campo, dopo decenni di fallimenti e stagnazione. Se pensi alla società come a un ecosistema che cresce per variazione e selezione, queste persone sono il motore della variazione: costruiscono e liberano nel mondo strani oggetti come il software open source, i diritti di proprietà intellettuale attenutati, le stampanti 3D, le valute garantite da algoritmi criptografici. Come specie pioniere, molte di queste innovazioni si estingueranno. Ma altre colonizzeranno l’economia, e daranno forma al mondo in cui abiteremo domani. Ogni governo che si rispetti dovrebbe provare a dialogare con loro; eppure, questi innovatori radicali sembrano vivere in un punto cieco, invisibile a praticamente tutti i funzionari pubblici ed esperti accademici con cui io abbia mai parlato. Petros, invece, sa bene che queste persone sono importanti. Sa dove trovarle, e come ingaggiarle in dialogo.

Non c’è dubbio: Expedition Freedom è una politica pubblica, tranne per il fatto che viene da una direzione inaspettata. È orientata al bene di tutti (distillare e mettere in circolazione la conoscenza pratica per permettere all’innovazione dal basso di prosperare); ha un meccanismo chiaramente articolato per dispiegare i suoi effetti (seminare la società con il maggior numero di gruppi robusti di innovatori possibile, e metterli in condizione di confrontare le rispettive prassi per accelerare l’adozione delle cose che funzionano); usa strumenti classici delle politiche pubbliche (ricerca, messa in rete e diplomazia). Ed è di vari ordini di grandezza più efficiente di qualunque cosa abbia mai visto nel settore pubblico o nel privato corporate. Qualunque progetto governativo, anche ben finanziato, si affretterebbe a dichiarare il proprio successo anche solo con i risultati che Petros ha già ottenuto. In realtà – anche se io stesso ho, in alcuni ambienti, una discreta reputazione per questo tipo di lavoro – i suoi risultati a risorse quasi nulle mi fanno arrossire, e mi spingono a cercare di fare meglio.

La morale di questa storia: le politiche di sviluppo, tradizionalmente un’esclusiva di governi e grandi ONG, possono ora essere fatte d individui in rete – e con un grado di efficienza senza precedenti. Se il settore pubblico e quello corporate vogliono dare un vero contributo, devono mettere in campo persone come Petros; non distogliendole da ciò che stanno facendo, ma aiutandole a farlo, prestando loro la legittimazione dello stato (e magari un po’ di risorse materiali). Dal punto di vista dello stato, è un po’ come usare una canna da pesca: spessa e rigida al manico, dove burocrazie weberiane classiche interagiscono con ministri e responsabili politici; sottili e flessibili alla fine, dove gente come Petros discute con gli hackers e gli innovatori che cercano di mettere insieme un modello economico e sociale plausibile in un paese colpito da una crisi molto dura. La sezione intermedia della canna da pesca fa in modo che la policy in questione abbia la necessaria flessibilità alla fine, rimanendo rigidamente in asse con il quadro normativo al manico. Petros può sembrare un emissario incongruo per un stato (lui sarebbe il primo a vederla così) ma ehi: come dovrebbe essere fatto un emissario congruo? Non siamo più una società di massa, quindi gli strumenti della società di massa (come le burocrazie classiche) non sempre risolvono i problemi. Meglio abituarsi

Petros sta raccogliendo fondi per la seconda fase di Expedition Freedom.

Oltre le tre F: il reddito minimo come politica per l’innovazione

A tre mesi dal lancio di Edgeryders, mi colpiscono la generosità e la creatività con cui tanti giovani affrontano il loro viaggio nella vita. Alcuni abbandonano il percorso di carriera più naturale, in cerca di altro e a costo di sacrifici; moltissimi desiderano di “fare qualcosa di utile”. Pensano in grande, e non hanno paura di misurarsi con problemi globali come la sicurezza alimentare, la riprogettazione della socialità, l’accesso agli alloggi. Tutta questa energia si incanala in attività di innovazione, spesso molto ambiziosa e radicale: agricoltura urbana, co-housing, moneta sociale, dati pubblici aperti, giochi urbani per riappropriarsi di spazi pubblici, home schooling, apprendimento peer-to-peer.

A innovare è una minoranza, come e sempre stato. Ma questa minoranza ha due caratteristiche nuove rispetto al passato: è numericamente consistente, fatta di milioni di persone anziché di decine di migliaia; ed è autoselezionata, e molto diversificata al suo interno. Sebbene essa annoveri molti membri dell’élite, in possesso di credenziali accademiche prestigiose, ospita anche molti spiriti liberi, persone che non hanno finito gli studi perché insofferenti alle gerarchie accademiche, autodidatti. La distanza tra i giovani innovatori e l’élite è marcata da un fatto evidente: quasi tutti questi innovatori sono poveri , appena in grado di mantenersi ma impossibilitati ad accumulare ricchezza materiale (hat tip: Vinay Gupta). Circola la battuta che, se cerchi i capitali necessari a lanciare un’iniziativa di innovazione sociale, è inutile rivolgersi a banche, venture capitalists o pubblica amministrazione. Gli unici che ti aiuteranno sono le “tre F”: family, friends, e fools (hat tip: Alberto Masetti-Zannini).

La scala e la diversità della minoranza degli innovatori apre una prospettiva completamente nuova: quella di una politica adattiva dell’innovazione. Oggi le politiche dell’innovazione funzionano selezionando a priori, con l’aiuto di famosi accademici, poche direzioni di ricerca strategiche, in genere articolate in termini di big science (per esempio la fusione fredda o la nanotecnologia) e concentrandovi grandi quantità di denaro pubblico. Oggi è possibile un approccio diverso: fare molti piccoli investimenti, in una logica di diversificazione, lasciando che tantissimi innovatori scelgano da soli quali problemi affrontare e come; monitorare per l’emergenza di soluzioni interessanti e scalare poi gli investimenti su quelle, premiando quindi non la direzione delle attività innovative i loro risultati. Questo approccio ha i vantaggi di dipendere assai meno dalla saggezza a priori del policy maker; e di scoprire a posteriori quali sono i problemi che la comunità degli innovatori ritiene più pressanti, e quali le linee di lavoro più in grado di produrre risultati concreti per la loro soluzione. È un approccio low cost alla valutazione, attività molto costosa se fatta bene.

Pensavo a queste cose domenica, assistendo a un convegno in cui si discuteva di reddito minimo. Nella sua versione più semplice, si tratta di un reddito sganciato dal lavoro o dal possesso di ricchezza: vi hanno diritto tutti, per il solo fatto di esistere. Non sono un esperto, ma ho capito che viene inquadrato come una misura volta a ristabilire la dignità delle persone, a renderle più sicure meno ricattabili. Tutto questo ha molto senso, ma mi viene da pensare che il reddito minimo potrebbe essere anche una misura di politica dell’innovazione: liberi dal bisogno immediato, soprattutto i giovani sarebbero più in grado di assumersi dei rischi, lanciandosi in nuove idee. La maggior parte fallirebbe, come sempre accade, ma questi fallimenti costerebbero pochissimo), e quelle di successo potrebbero avere impatti straordinari, largamente in grado di pagare i costi dell’intera operazione. In effetti credo che il costo per la collettività del reddito minimo sia zero: anche adesso nessuno muore di fame, si tratta solo di spostare capacità di spesa da soggetti garantiti a soggetti non garantiti!

Tutto questo si traduce in un mix di politiche dell’innovazione che investe meno su attività (come la ricerca di laboratorio) o su organizzazioni (imprese o università) e più sulle persone. L’idea di base è metterle in grado di attaccare i problemi che ritengono importanti, poi togliersi di mezzo e valutarne i risultati. Che è poi semplice buon senso, a meno che non si ritenga che le persone – i giovani, in questo caso – siano normalmente ciniche, pigre o peggio.