Archivio della categoria: industrie creative e sviluppo

VRBAN: un progetto comunale fa nascere un’impresa creativa

Nel 2005 il Comune di Verona stava consultando la cittadinanza sul piano strategico, e i giovani non facevano mistero di considerare gli impegni presi dall’amministrazione poco più che chiacchiere: “siamo sempre alla prima riunione” come ho sentito dire a un ragazzo all’assessore alle politiche giovanili durante un’assemblea pubblica. In questo contesto, mi viene chiesto di aiutare le associazioni culturali della città, tra loro in rapporti piuttosto tesi, a mettersi insieme per organizzare un evento che desse il segno di una nuova collaborazione tra i giovani e il Comune, che ci metteva una piccola somma (30.000 euro).

Le associazioni culturali nelle città medie e piccole si odiano quasi sempre. Per forza: sono impegnate in una concorrenza a somma zero per i fondi stanziati da enti pubblici e fondazioni bancarie (dove ci sono), oltretutto assegnati con criteri non sempre trasparenti. Ogni euro che prendo io è un euro che non prendi tu. La concorrenza si gioca sul tirare dalla propria parte i finanziatori. Questo genera un clima di sfiducia diffusa. Coinvolgere un esterno come me doveva essere una garanzia che questa partita sarebbe andata diversamente: questo piccolo fondo aggiuntivo rispetto alle somme già stanziate è condizionato al fatto che i creativi veronesi esprimano e realizzino un progetto comune.

È stata la mia prima vera esperienza di creazione di una comunità. Ho creato una mailing list (cosa pretendete, mica c’era Facebook nel 2005) e preteso che tutto il possibile passasse da lì, con le proposte scritte e visibili a tutti; ho costretto il personale del Comune a riunioni che cominciavano alle sette di sera, per dare modo al mondo dell’associazionismo di partecipare senza compromettere il loro lavoro; ho perfino convinto un assessore, Giancarlo Montagnoli, e una dirigente, Maria Gallo, a concludere tutte le riunioni all’osteria di fianco al palazzo del Comune, insieme ai ragazzi delle associazioni. Ho scoperto il potere della trasparenza e dell’informalità: i progressi più importanti si facevano quasi sempre all’osteria, quando la gente abbassava la guardia e andava a ruota libera, non in riunione. Alla fine l’evento si è fatto: si riappropriava di spazi come l’ex zoo ai bastioni della città; incarnava un’idea di Verona più libera e creativa, con le sfilate di moda africana, i contest di writers, e il mitico bus-discoteca che vedete nel video. L’hanno chiamato VRBAN, ed è stato un successo clamoroso. Molte persone che hanno partecipato al processo hanno scoperto le une nelle altre colleghi capaci e degni di rispetto, con cui può anche essere bello collaborare.

Di recente sono tornato a Verona per un concerto e ho rivisto alcune di quelle persone. E – sorpresa! VRBAN esiste ancora, ed è diventato l’evento principale dell’estate veronese, con migliaia di partecipanti. È arrivato alla sesta edizione; è interamente finanziato da ricavi propri e sponsor privati (la nuova amministrazione di centrodestra gli fornisce comunque alcuni servizi); viene progettato e gestito da alcuni dei ragazzi del 2005, nel frattempo diventati professionisti degli eventi culturali (Alessandro, Fabio) e della comunicazione (Ale); ha perfino dato vita alla rete italiana dei festival musicali ecosostenibili. È un pezzo di economia e cultura cittadina. Che soddisfazione! Intendiamoci, il merito è loro. Ma il Comune ha fatto la sua parte, e il mio aiuto a qualcosa penso sia servito.

Quindi, se passate da Verona a giugno andate a VRBAN e chiedete di Alessandro Formenti, Fabio Fila o Ale Biti e fatevi raccontare. E fatevi una birra alla mia salute. 🙂

Economista, ma concreto: Visioni Urbane consegna il prodotto (con contorno di Wikicrazia)

Gli economisti hanno fama di tendere al ragionamento astratto più che alla concretezza dell’azione. C’è un po’ di verità in questo luogo comune, tanto che nei dipartimenti di economia fiorisce il sottogenere delle barzellette sugli economisti. Questa, per esempio:

Un economista, dopo un naufragio, si ritrova su un’isola deserta. Si guarda intorno e vede una cassa di legno depositata sulla spiaggia dalla marea. La apre: è piena di scatolette di cibo, nutriente e a lunghissima conservazione! Purtroppo non ha nessuno strumento per aprirle: è forse condannato a morire di fame seduto di fronte a tutto quel cibo? L’economista non si perde d’animo e affronta il problema così: “Ipotizziamo di avere un apriscatole…”

Molti di noi soffrono per la mancanza di concretezza associata talvolta alla nostra professione. Per questo sono così contento di andare a Potenza venerdì 4: perché tre anni e mezzo fa il Ministero dello sviluppo economico mi ha chiesto di assistere la Regione Basilicata nell’elaborazione di una politica di spazi laboratorio per la creatività. Io ho insistito per prendere la strada, lunga e accidentata, del coinvolgimento dei creativi lucani; e oggi, finalmente, il primo spazio (si chiama Cecilia) è pronto, e gli altri quattro sono in consegna. Non solo gli spazi sono stati coprogettati insieme ai creativi di quel territorio; non solo sono sorretti da un’analisi dettagliata di quali imprese e associazioni creative, su quei territori, intendono fare con quegli spazi; ma sono integrati con un bando-tipo per l’assegnazione della gestione, concordato con i Comuni competenti, e con un modello di governance regionale delle politiche culturali.

Il progetto si chiama Visioni Urbane. Ne ho parlato spesso in questo blog. Mi dicono che ultimamente è diventato una specie di bandiera dell’amministrazione regionale; tanto che le associazioni chiedono ora lo stesso tipo di coinvolgimento in altre politiche, come l’istituzione della Film Commission, e la stessa amministrazione, forte del buon rapporto di collaborazione con i creativi, si è impegnata per lanciare la candidatura di Matera come capitale europea della cultura 2019. Non è un caso che la coordinatrice del progetto di candidatura sia Rossella Tarantino, il referente di VU, e che anche il direttore scientifico, Paolo Verri, sia stato “pescato” dalle personalità che hanno collaborato con VU.

Di Visioni Urbane parlo molto nel mio libro Wikicrazia, e l’inaugurazione di Cecilia conterrà, tra le altre cose, una presentazione del libro. Ma quello è il meno: pregusto l’emozione di toccare con mano una policy che ho contribuito a progettare, e che è diventata molto concreta, tanto che mi ci posso sedere dentro per ascoltare un concerto. Per un economista è una soddisfazione relativamente rara.

798 Art District: gli amori difficili tra arte e mercato

Un luogo interessante che ho visitato recentemente è il distretto artistico 798 a Pechino. Si tratta di un grande complesso industriale per la produzione di componenti elettronici (soprattutto transistors) costruito negli anni Cinquanta dal governo cinese in collaborazione con quello della Repubblica Democratica Tedesca. Parzialmente dismesso in quanto fabbrica a partire dagli anni Ottanta, 798 ha conosciuto una seconda vita a partire dal 1995 (o 2000, secondo altre fonti), quando artisti e gallerie d’arte hanno cominciato a stabilirsi nei capannoni abbandonati, attratti dall’ampia disponibilità di spazi a costi molto bassi e dal fascino della costruzione in stile Bauhaus voluta dagli ingegneri tedeschi. Nei primi anni Duemila si è trasformato in una specie di utopia artistica: un luogo assolutamente affascinante, dove artisti e galleristi vivono e lavorano insieme agli operai delle fabbriche ancora in attività del complesso. Grazie al fatto che c’è tantissimo spazio (è grande quanto un piccolo paese), i protagonisti della rinascita di 798 si sono potuti sbizzarrire, disseminandolo di ironiche statue di Mao, dinosauri di ceramica, finte cabine del telefono, robottoni da combattimento in stile manga alti dieci metri realizzati con rottami metallici (i miei preferiti); e anche ospitando concerti, rave e performance (un luogo amato per questo è la suggestiva Originality Square), festival di cinema come il newyorkese Tribeca. Oggi 798 è di gran lunga il luogo più importante – anche economicamente – della nascente arte contemporanea cinese (che è già un bel business: nell’arco del 2007 il solo Zhang Xiaogang ha venduto dipinti per 57 milioni di dollari). Ovviamente sono fioriti caffè, ristoranti, e negozi con un penchant artistoide.

Sarebbe davvero affascinante potere studiare in dettaglio le dinamiche di crescita di 798, soprattutto adesso che l’esperimento di Visioni Urbane si avvia alla conclusione con la consegna degli spazi creativi che abbiamo progettato e commissionato insieme, e la loro assegnazione alle cordate di imprese e associazioni che li gestiranno. Per ora annoto le riflessioni sparse che mi sono venute dalla visita e dalla lettura di libri e documenti sull’esperienza.

  • L’estetica conta. Da economista, ho sempre pensato che gli spazi industriali abbandonati sono interessanti per l’impresa creativa perché costano poco, e perché – essendo esteticamente neutri – puoi trasformarli in quello che vuoi, da laboratorio asettico a caverna steampunk. Invece i pareri che ho raccolto sono concordi sul fatto che 798 ha attirato gli artisti perché ha un’estetica unica, e la cura messa nella sua progettazione (per esempio: i tetti “a dente di sega” e finestre rivolte a nord per massimizzare la luce naturale senza che questa producesse ombre) è incomparabile con quella di altre fabbriche costruite in Cina nello stesso periodo.
  • La crescita organica ha una marcia in più. 798 accoglie una grande varietà di opere e di organizzazioni, ma al tempo stesso è chiarissima una coesione estetica e socioeconomica di fondo: sembra una formazione di corallo, in cui le varie specie competono, cooperano e si scambiano informazione in una continua danza di coevoluzione. Una pianificazione dall’alto non ha nessuna possibilità di produrre una cosa del genere. Questo non esclude un ruolo del policy maker nella creazione di un distretto artistico, ma consiglia per esso il ruolo di mettere in modo l’evoluzione, non quello di prendere decisioni sugi esiti. Un esempio si ritrova nella storia stessa di 798: l’evento da cui nasce la nuova fase della vita del distretto è l’occupazione temporanea di una delle ex fabbriche da parte dell’Accademia Centrale d’Arte di Pechino, avvenuta nel 1995. L’Accademia era solo in cerca di spazi laboratoriali a buon mercato mentre traslocava da una vecchia sede a una più nuova, ma questo evento ha portato molti artisti e studenti d’arte a esplorare l’area. Il preside della facoltà di scultura Sui Jianguo rimase così affascinato dal luogo da trasferirvi il proprio studio, uno dei primi artisti noti a traslocare.
  • Il successo di un distretto artistico ne mette in pericolo la credibilità e la sostenibilità. Mentre grandi aziende cominciano ad organizzare propri eventi a 798 in cerca del cool effect, molti artisti lamentano il rapido aumento dei costi degli affitti e temono la mercificazione eccessiva. E in effetti, molte opere esposte nelle tantissime gallerie del distretto mostrano una tendenza inquietante a riprendere in chiavi diverse l’iconografia del comunismo cinese: statue di Mao, libretti rossi e stelle rosse. Perché? Perché i riferimenti al comunismo cinese costellano il lavoro degli artisti che vendono molto e hanno molto successo, come Zeng Fanzhi o il citato Zhang Xiaogang. La pressione sugli affitti, naturalmente, aumenta l’incentivo all’imitazione, e priva gli artisti e le gallerie dello spazio mentale per sviluppare nuovi prodotti. Molti osservatori temono il collasso dell’attuale ecosistema e la trasformazione di 798 in una specie di ipermercato dell’arte contemporanea cinese.
  • Se il successo economico ottenuto dal distretto è eccessivo rispetto alle esigenze della creazione artistica, è però insufficiente a proteggere 798 dalla speculazione immobiliare. Quell’area, un tempo periferica, si trova oggi sul corridoio strategico che collega il centro della città al nuovo aeroporto, ed è naturalmente oggetto di pressioni a demolire il complesso industriale per saziare la fame di residenzialità dei 13 milioni di abitanti, in crescita, della capitale cinese. Il proprietario di 798 è Sevenstar, una società a capitale pubblico creata dalle fabbriche superstiti dell’area a cui il governo ha assegnato la responsabilità di gestire le vecchie fabbriche. Qui c’è un chiaro problema di governance: il mandato della società è in termini puramente finanziari, e i suoi vertici hanno l’obbligo di massimizzare la redditività dei terreni a loro affidati. L’alleanza tra proprietà e artisti ha retto fintanto che questi erano gli unici disposti a pagare un prezzo – anche se basso – per affittare le fabbriche abbandonate: appena queste sono diventate appetibili per soggetti eocnomicamente solidi le tensioni tra proprietà e artisti sono diventate molto forti. Nel 2005, le istituzioni artistiche di Pechino sono riuscite a convincere il governo che, nell’imminenza delle Olimpiadi del 2008, la città aveva bisogno di una vetrina artistica più che di qualche altro migliaio di appartamenti. L’anno successivo le autorità cittadine hanno istituito nell’area il primo “distretto centralizzato per la creatività culturale”. Niente bulldozers: al contrario, le strade sono state ripavimentate, l’illuminazione urbana rinnovata, e la gentrification (da noi si direbbe “infighettamento”), accelerato, insieme alla crescita degli affitti.

Questa è la Cina: a decidere, alla fine, è il governo – e in questo caso è difficile non applaudire la sua decisione. L’economista resta con il dubbio che l’economia di mercato sia destinata a stringere l’arte tra l’incudine della eccessiva commercializzazione e il martello dell’insufficiente redditività. Il che equivarrebbe a dire, temo, che l’economia dell’arte – una volta depurata dei sussidi pubblici palesi e nascosti e del wishful thinking – non esiste, e che arte e mercato possono vivere in simbiosi nel breve periodo, ma alla resa dei conti sono incompatibili.