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A cool flock of birds flew overhead.

Politiche pubbliche per sciami intelligenti

Il mio amico Vinay Gupta ha avuto l’idea di aprire i Big Picture Days a Londra con una discussione su quelle che lui chiama swarm cooperatives, cioè campagne istantanee, unconferences, hackathons, barcamps e altre costellazioni non tradizionali di persone che agiscono in modo collaborativo e non gerarchico. Mi ha chiesto di tenere un keynote su questo tema nel contesto delle politiche pubbliche. Sembra una follia, ma mi ha fatto pensare. Sono anni che collaboro a progetti pubblici che effettivamente hanno elementi della decentralizzazione, della fluidità che interessa a Vinay. Possiamo davvero parlare di sciami che fanno policy? Se sì, cosa significa?

Al cuore di questo concetto sta un paradosso. Gli sciami sono così efficienti perché sono radicalmente decentrati nel decidere e nell’agire; eppure, la decentralizzazione può causarne la perdita di coerenza e di direzionalità. Nel campo delle politiche pubbliche questo è inaccettabile: senza direzionalità non ci può essere policy. Lo strumento che uso per gestire questo paradosso è la teoria delle reti: penso agli sciami come individui connessi da una rete. Nelle reti, i nodi possono anche essere uguali in termini di potere di comando su altri nodi, ma in genere sono molto diversi tra loro in termini di connettività, e quindi della loro abilità di diffondere informazione (per esempio: narrative e appelli all’azione) attraverso la rete. Questa differenziazione nella connettività dei nodi aggiunge direzionalità allo sciame, nel senso che gli individui meglio connessi ottengono in genere (ma non sempre) ciò che vogliono.

Le politiche pubbliche vengono pensate quasi sempre come processi top-down: un leader prende una decisione e qualcuno la traduce in azione. Chiamo questo il modello lineare delle politiche pubbliche. Ma se il contesto della policy è un sistema adattivo complesso il modello lineare non funziona, perché il sistema “cambia forma” per aggirare o neutralizzare la policy (più spiegazioni). Non solo le ricette lineari non funzionano: possono causare danni gravi. Questa è un’ottima ragione per provare ad applicare all’azione di governo ciò che sappiamo degli sciami.

Può essere molto difficile, perchè il modello lineare è codificato nella normativa, e incorporato in organigrammi, mandati e procedure delle agenzie pubbliche: ma i benefici potenziali sono molto grandi. Perché? Perché uno sciame è fatto di persone. Per definizione, queste persone non possono essere dipendenti dell’agenzia pubblica che lancia lo sciame, o comunque gente su cui essa esercita un potere di comando: devono essere liberi agenti che vogliono collaborare. Ve ne sarete accorti: ci sono già moltissime opportunità di collaborare là fuori, e un piccolo numero di queste attira un numero sproporzionato di collaboratori (pensate a Wikipedia, che ha decine di milioni di utenti registrati). Questo significa che le persone possono scegliere, e chiunque provi a lanciare uno sciame dovrà lavorare duro per conquistarle. Quindi, impostare un progetto pubblico sulla costruzione di uno sciame ci costringe a essere molto realisti. La prima conseguenza di questa situazione è che la fuffa ha un ritorno negativo per i costruttori di sciami. Con la fuffa puoi riempire una relazione o una presentazione PowerPoint accettabile dal tuo capo, ma non hai nessuna possibilità di entusiasmare una folla di sconosciuti che non ricevono denaro. Credo che questo abbia dato ai miei progetti un vantaggio competitivo. Prendere scorciatoie non ha mai pagato: ho dovuto dare il massimo, o arrendermi.

L’invito di Vinay mi ha dato la possibilità di raccogliere attrezzi e trucchi vari per fare politiche pubbliche in sciame e con gli sciami. Mi sono ritrovato con una lista stranissima, che comprende la legge di Falkvinge (in onore del fondatore del Partito Pirata svedese Rick Falkvinge), il caso (il mio preferito), le bombe a tempo, il modello della canna da pesca, il cibo per cani e le feste. È solo un tentativo, sotto-teorizzato e incompleto, ma è il meglio che sono in grado di fare adesso, la frontiera della mia riflessione e (cosa forse più importante) della mia pratica di politiche pubbliche in rete. Se queste cose ti interessano, potrebbero piacerti le mie slides: ci ho messo anche le note, per cui danno un’idea ragionevole del mio talk a Big Picture Days.

“Mi asterrò dal recar danno e offesa”: quando le politiche pubbliche hanno buone intenzioni ma danneggiano la società

Mentre mi preparo per Policy Making 2.0, mi chiedo se non ci stiamo perdendo un pezzo importante. L’approccio basato su tecnologia, modelli scientificamente fondati e appoggiati su grandi basi dati va benissimo, ci mancherebbe. Eppure, tecnologia, modellizzazione e data crunching sono solo la ciliegina sulla torta delle politiche pubbliche: il loro uso è inevitabilmente orientato dalla visione del mondo del policy maker. E sospetto che sia il momento di fare un tagliando serio alla visione predominante.

A mio modo di vedere, la grande maggioranza dei decisori, di qualunque colore politico, accetta un modello lineare per le politiche pubbliche. Un problema entra nel dibattito politico; un approccio al suo trattamento viene individuato e validato dal processo democratico; i rappresentanti politici lo incorporano nella legislazione; la legislazione viene messa su strada dal ramo esecutivo, in modo da ottenere l’effetto desiderato. Il modello lineare può sembrare ragionevole, e perfino evidence based se il processo di individuarne una soluzione è basato sull’elaborazione di dati. Ma funziona solo se la società è come una macchina: relativamente semplice e trattabile, senza troppi feedback ed effetti di secondo ordine. Se credi che questa sia una ragionevole approssimazione della realtà, il modello lineare ti sembrerà un ottimo strumento. L’economia standard, per esempio, è su questa posizione: ho frequentato corsi in cui la politica ottimale viene calcolata massimizzando una funzione di benessere sociale, a sua volta ottenuta aggregando le funzioni di benessere (per tradizione chiamate “di utilità”) individuali. Se l’economia non si trova al punto di massimo di questa funzione, può esservi guidata dal policy maker, manipolando il sistema dei prezzi (con tasse e sussidi), il livello di attività economica (con tasse e spesa pubblica finanziata da deficit), i vincoli finanziari degli agenti economici (con la fissazione del tasso di sconto, il quantitative easing, i coefficienti di riserva obbligatoria) e la regolamentazione (come l’imposizione di standards).

Se, come me, credi che viviamo in un mondo fortemente nonlineare, che somiglia più a un ecosistema che a una macchina, e che si capisce meglio rappresentandolo come un sistema complesso, allora il modello lineare non ti sembrerà adeguato. Parimenti, i suoi strumenti – tasse, sussidi, spesa pubblica, politica monetaria, regolamentazione – ti sembreranno instabili e pericolosi.

Non è solo questione di cose che non funzionano. Mi sto convincendo che usare questi strumenti possa essere dannoso. Nel tentare di correggere una distorsione, lo stato applica una pressione in direzione opposta alla distorsione. Ma spesso l’intervento dello stato induce una riorganizzazione dell’economia, conseguenza del mutato comportamento dei singoli agenti che ora tengono conto dell’azione dello stato nel prendere le loro decisioni, e naturalmente cercano di volgere questa azione a loro vantaggio. Un esempio con la regolamentazione: uno stato tenta di rendere le assunzioni temporanee più costose, per indurre le imprese ad assumere a tempo indeterminato. Ma le imprese potrebbero rispondere facendo pressione per indurre i loro dipendenti a tempo determinato ad aprire partite IVA, trasformando lavoratori in fornitori di servizi. Risultato: ancora meno stabilità per le persone in questione. Un altro esempio, relativo alla spesa pubblica: uno stato decide di incoraggiare la ricerca e sviluppo finanziando progetti di ricerca condivisi tra imprese e università. Ma le imprese, quando percepiscono un’opportunità di profitto, tipicamente non aspettano finanziamenti pubblici: investono e basta. Più tardi, se possono, cercheranno di ottenere il finanziamento per cose che hanno già fatto – spostando il costo della ricerca e sviluppo sul contribuente senza necessariamente generare nuovi prodotti addizionali. Risultato netto: molte domande di contributo (spesso con costi amministrativi alti), ma pochi nuovi prodotti.

Entrambi gli esempi – a meno di aspetti tecnici comunque importanti – sono applicabili all’Italia. La distorsione dell’economia sotto il peso di una massiccia spesa pubblica si vede a occhio nudo: parlate con giovani intelligenti e imprenditoriali nel Mezzogiorno, e probabilmente scoprirete che conoscono i programmi più importanti del Fondo Sociale Europeo, il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e le loro controparti nazionali. Una quantità sconfortante del loro tempo viene spesa nel cercare di interpretare i desiderata dei finanziatori pubblici, e nel compilare formulari con tutte le parole chiave giuste. E perché no? È il gioco più grosso in città. In Italia, il Quadro Strategico Nazionale stanzia 125 miliardi di euro per lo sviluppo economico sul periodo 2007-2013 (fonte, p. 236). Per darvi un punto di riferimento, il flusso di prestiti della Banca Mondiale in tutto il mondo ammonta a meno di 200 miliardi (fonte – la pagina, spero che il webmaster non la cambi, perché non trovo il link diretto al grafico).

Sui 125, 101 miliardi sono concentrati in quattro regioni del Mezzogiorno, perché è lì che – correttamente – vengono percepiti i maggiori problemi. In Italia sono le regioni i principali agenti di spesa: questa ripartizione significa che le regioni in questione devono accollarsi il lavoro amministrativo per finanziare, in modo corretto e trasparente, progetti per 3.5 miliardi di euro all’anno, in media (ma in genere concentrati negli ultimi anni del ciclo di spesa) solo su progetti di sviluppo economico – mentre le rimanenti 16 regioni devono gestire “solo” 200 milioni all’anno. Il risultato è un ritardo cronico nella spesa delle regioni meno sviluppate, che faticano a gestire questo tsunami di denaro.

Questo spiega la distorsione negli incentivi che citavo prima. È vero che molta spesa pubblica finisce per passare attraverso canali tradizionali – reti consolidate di “old boys”, per non dire di peggio – ma ci sono talmente tanti soldi in ballo che molte delle menti più brillanti delle regioni del Mezzogiorno finiscono per passare moltissimo tempo a posizionarsi per cercare di portarne a casa un po’. Di recente, il mio amico Tiago Dias Miranda ha passato un po’ di tema in Basilicata e ha scritto:

[…] una delle prime cose che mi hanno colpito è che tutti continuavano a parlare di bandi. All’inizio credevo che parlassero di gruppi musicali. Poi ho capito che si riferivano a bandi di gara per aggiudicarsi risorse pubbliche […] A meno che non mi sia perso un pezzo molto importante questo territorio è pesantemente sussidiato, come se fosse un paese in via di sviluppo che riceve donazioni dai ricchi del mondo.

Molte persone, sia dentro che fuori le istituzioni pubbliche, sono consapevoli di questi effetti avversi della spesa pubblica, ma la vedono come un male necessario. “Dobbiamo fare qualcosa per le regioni in ritardo – dicono – Questo modo di agire sarà inefficiente, ma è un passo nella direzione giusta, perché porta lavoro e opportunità”. Ma c’è un problema: questo argomento è valido solo nell’ambito del modello lineare. Se l’economia è abbastanza complessa, entrano in gioco effetti di auto-organizzazione. In quei territori le persone provano diverse strategie (in Basilicata, per esempio, molti stanno sperimentando con servizi turistici), fanno piccoli esperimenti e imparano dai loro risultati. Qualche meccanismo di selezione, funzionalmente equivalente a quello che la selezione naturale fa per l’evoluzione, premia le strategie che hanno funzionato e punisce quelle che hanno fallito. Le prime vengono imitate e si diffondono; le seconde vengono lasciate cadere. Questo dà al sistema qualche capacità di autoripararazione – a meno che un’iniezione di denaro pubblico mantenga l’attenzione delle persone più brillanti concentrata sul problema (sbagliato) di capire come presentare proposte vincenti ai vari bandi.

L’osservazione di Tiago che in Basilicata “tutti continuano a parlare di bandi” implica che, in una situazione diversa, le stesse persone parlerebbero di cose diverse. Forse farebbero aziende; forse emigrerebbero; forse occuperebbero edifici abbandonati. Invece non lo fanno, e questo danneggia l’economia e la società locale, spingendole in una spirale di dipendenza. In medicina questa si chiamerebbe iatrogenesi: l’azione del medico che fa peggiorare le condizioni del paziente.

Queste osservazioni non sono nuove. Dambisa Moyo e altri hanno argomentato che troppa spesa pubblica – pur con le migliori intenzioni – può danneggiare un’economia locale. Ma sono pur sempre controintuitive, e non sono entrate a fare parte del senso comune. In Italia, certamente, il discorso politico ruota tutto intorno a quante risorse si possono ammassare a sostegno di quale obiettivo. Ripetere, in questo caso, ha un senso.

Ma come possiamo operazionalizzare queste intuizioni? In prima battuta, io farei le seguenti cose:

  1. diagnosticare quando un’economia locale è sufficientemente complessa per trovare un cammino di adattamento, miglioramento e crescita. Questo è più difficile di quanto sembra, perché si deve scegliere il livello appropriato per l’analisi, e qualunque livello si scelga tipicamente ci saranno vincitori e perdenti all’interno del livello. Per esempio, l’Italia è decisamente abbastanza grande e complessa per esibire comportamenti interessanti, ma storicamente tende a concentrare le dinamiche virtuose al nord, mentre le regioni del sud sono rimaste più indietro. Se si scende al livello della singola regione, si trovano quasi sempre aree più dinamiche e aree meno.
  2. suggerire strumenti che si prestano bene a un approccio imperniato sul “non fare danno” (come nel giuramento di Ippocrate); strumenti che incorporano l’idea che si sta intervenendo su un sistema adattivo complesso, non su materia inerte o su una semplice macchina.

Modalità di diagnosi e strumenti di intervento saranno l’oggetto di un prossimo post.

Cosa vuol dire “smart” in “smart cities”?

Si parla moltissimo di smart cities. Per questa grande attenzione ci sono, a mio parere, due motivi.

Il primo è strutturale: le città sono il nostro futuro come specie. Già ora, e per la prima volta nella storia dell’umanità, oltre metà della popolazione mondiale vive in città. Ogni settimana, 1.3 milioni di persone si trasferiscono  in città dalle campagne del pianeta Terra. Ha molto senso che applichiamo la nostra intelligenza al nostro habitat numero uno.

Il secondo è contingente: il Governo ha messo sul piatto oltre 600 milioni di euro per progetti di ricerca e intervento volti a “risolvere problemi di scala urbana e metropolitana” in ambiti come sicurezza, invecchiamento, tecnologie per il welfare, domotica, smart grids eccetera.

L’interferenza tra i due fa sì che l’espressione “smart cities” venga intesa nei modi più diversi. Semplificando un po’, ma neanche troppo, le proposte più importanti sono due. La prima (anche nel senso che è stata la prima in ordine di tempo) è associata ad alcune grandi imprese: IBM, Cisco, ma anche Google con progetti come Latitude. L’idea è quella di usare sensori collegati in rete per aumentare la densità del flusso di informazioni che le città ci passano, adattandovi i nostri comportamenti e usandolo per riprogettare e migliorare i luoghi in cui viviamo. La riprogettazione doterà il territorio di nuove infrastrutture, ad esempio: le colonnine per la ricarica delle batterie delle auto elettriche, a loro volta collegate a nuovi sensori. I sensori più importanti sono a bordo dei nostri smartphone, che riversano in continuazione in grandi basi dati informazioni sul mondo che ci circonda. Al centro di questa visione stanno tecnologie e interdipendenza: il suo simbolo è la famosa Copenhagen Wheel del MIT.

La seconda proposta è associata alla cultura hacker e al mondo dell’innovazione sociale. L’idea è quella di riprogettare le città per renderle più comode, semplici, sostenibili anche economicamente. Qualche volta questo implicherà l’introduzione di tecnologie più avanzate di quelle attuali (per esempio il microsolare, illuminazione pubblica a LED); altre volte spingerà soluzioni low tech (la bicicletta, l’agricoltura urbana). Al centro di questa visione stanno relazioni sociali, costruzione di comunità e consapevolezza della fragilità dell’ambiente naturale che circonda le città costruite da homo sapiens. Il suo simbolo è la Ciclofficina.

La prima proposta schiera tecnologie avanzate, design curato, ricercatori di riconosciuta eccellenza. Tutti i pezzi, presi singolarmente, sono smart. Eppure accade una cosa strana: una volta messe insieme, le parti danno vita a un intero (la città) che a me non pare smart per niente. Prendete le auto elettriche. Sono silenziose e non emettono gas di scarico. Ma:

  • l’energia elettrica con cui ricaricarle deve venire prodotta in qualche modo. In un mondo in cui le sorgenti idroelettriche sono già sostanzialmente sfruttate e il nucleare è politicamente inaccessibile, aggiungere potenza installata vuole dire bruciare idrocarburi. Le emissioni delle auto, quindi, non vengono eliminate, ma solo spostate. Le emissioni possono diminuire o aumentare a seconda delle caratteristiche delle centrali esistenti e della rete; le centrali a idrocarburi disperdono in calore il 50% dell’energia derivante dalla combustione; un altro 5% viene disperso nella rete elettrica durante il trasporto (fonte). Dunque, di 100 KW imprigionati nel gasolio, solo 45 arrivano alla batteria dell’auto elettrica.
  • richiedono una costosa infrastruttura.
  • le auto elettriche sono auto: ripropongono l’idea che occorre associare a ogni essere umano una scatola di latta di quattro metri per uno e mezzo per uno, che viene usata in media un’ora al giorno e occupa prezioso territorio urbano per le altre ventitré. Quindi non risolvono i problemi di mobilità – anzi, li aggravano, visto che possono entrare nelle zone a traffico limitato.
  • sono una tecnologia non permissiva. Non puoi modificarle, non puoi caricarle in altro modo che non collegandoti alla rete elettrica. Ci confinano in ruolo passivo – lo stesso che abbiamo con le auto a combustione interna.

Prendiamo, invece, una soluzione alla mobilità apparentemente meno innovativa: le congestion charges, cioè quei provvedimenti che obbligano chi accede in auto al centro cittadino a pagare una tariffa. L’esempio italiano più noto è quello dell’Area C del Comune di Milano. I risultati di Area C parlano da soli: riduzione degli ingressi del 34% (49% per i mezzi più inquinanti), aumento della velocità commerciale dei mezzi pubblici del 5%; riduzione degli incidenti stradali del 24% dei ferimenti del 24%; riduzione dei principali agenti inquinanti dal 15% al 23% (fonte).

Ma il più grande vantaggio di Area C, a ben vedere, è che crea spazio invece di occuparlo. In prospettiva, rende disponibili le vie del centro come piattaforma per l’interazione sociale, il gioco, il commercio, la ristorazione, l’innovazione negli stili di vita. Non dovendo dedicare la maggior parte della loro superficie alle auto, veloci e pericolose, le persone possono provare a spostarsi con le biciclette, i rollerblade, di corsa. Hobbyisti di talento e artigiani della meccanica possono dare vita a nuovi ecosistemi attorno alla mobilità urbana leggera: nei paesi che hanno già fatto questa transizione si vedono biciclette con trailers, biciclette con pianali di carico per il piccolo trasporto merci. Si vedono bambini che possono andare a scuola da soli, liberi dalla minaccia delle auto.

Quindi, cosa vuol dire smart in smart city? Le due visioni che ho provato a raccontarvi si non sono chiaramente distinte nel dibattito corrente. A me, però, sembra che siano non solo diverse, ma contrapposte. La smart city del primo tipo ha una vocazione centralista: tutta l’intelligenza è concentrata nei tecnologi delle imprese e delle università, e ai cittadini resta il ruolo di consumatori dei vari gadget. Quella del secondo tipo guarda alla decentralizzazione spinta: crea spazio, e promuove la creatività di tutti. La smart city del primo tipo usa algoritmi di profilazione e il tuo smartphone per segnalarti che sei vicino a un negozio che vende abiti del tuo stilista preferito. Quella del secondo tipo è piena di gruppi di acquisto solidale, orti urbani, sewing café, hackerspace, fablab. La smart city del primo tipo fa grandi investimenti in telefonia cellulare ultraveloce. Quella del secondo tipo evoca quasi dal nulla reti wi-fi cittadine utilizzando come hotspot i router delle nostre case, dei bar, delle biblioteche (come fa a Milano GreenGeek). Nella smart city del primo tipo gli studenti vanno a scuola con i tablet. In quella del secondo tipo usano materiali didattici in creative commons – e probabilmente possono scegliere se ascoltare la lezione dal loro professore in aula o dalla Khan Academy o OilProject in video. La smart city del primo tipo delega le attività produttive (agricoltura, industria, finanza) a grandi imprese strutturate per sfruttare i vantaggi di scala. Quella del secondo tipo le distribuisce, almeno in parte, tra tante piccole esperienze: permacoltori, makers, community lending.

Si sarà capito che io trovo molto più smart e più moderna l’idea di decentrare. Ma c’è un problema: quasi tutto quello che è smart in questo senso riduce il PIL. Se i mezzi pubblici funzionano meglio, più gente li usa: il traffico si riduce, ma si riduce anche il consumo di automobili e di benzina. Se le persone fanno più sport e si ammalano di meno il PIL si riduce (la sanità è un business immenso). L’AreaC, riducendo gli incidenti stradali, riduce il PIL, riducendo il ricorso a medici, fisioterapisti, carrozzieri. Le smart cities del primo tipo non hanno questo problema: la Copenhagen Wheel costa 600 dollari, e per funzionare richiede anche un iPhone (oltre alla bicicletta), tanto che il Guardian si è chiesto cosa ci fosse di smart nel mettere oltre mille euro di elettronica sofisticata su una bicicletta, un oggetto facile da rubare.

La scelta di centralizzazione piace molto alle imprese. È comprensibile, perché consegna loro una forte centralità e modalità chiare per monetizzare. Non ho dubbi che saranno loro le protagoniste nella vicenda del famoso bando dal governo. Eppure, ho l’impressione che negli ultimi mesi si cominci a sentire anche la voce dei sostenitori di soluzioni decentralizzate – che viene, come al solito, dal più decentralizzato dei luoghi, cioè da Internet.

L’aspetto affascinante della discussione sulle smart cities è che ci costringono a farci le domande che contano davvero. Cosa misura davvero il PIL? Cos’è veramente questa crescita che cerchiamo di stimolare? Come vogliamo vivere insieme nelle nostre città? Comunque andrà a finire, spero che ci prenderemo il tempo e le energie mentali per andare a fondo della discussione. Non capita tutti i giorni di prendere decisioni collettive così ad ampio raggio, che ci costringono a chiederci davvero cosa vogliamo, e come vogliamo vivere insieme. Per cogliere pienamente questa occasione, spero che i primi sensori delle nuove smart cities saranno sensori di ascolto della voce dei cittadini (e intendo gli individui, non solo gli stakeholders); e che le loro prime tecnologie abilitanti siano ambienti accoglienti e orientati all’argomentazione razionale, collocati sia online che offline, in cui prendere insieme le decisioni del caso. Il primo spazio da decentralizzare è proprio quello della decisione pubblica, dove la decentralizzazione si chiama democrazia.